Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 marzo 2023, n. 10731

Società sportive dilettantistiche, Soggetti che prestano la loro opera in favore delle stesse, Contributi e premi previsti dalla previdenza e assistenza obbligatoria, Denunce contributive con dati non corrispondenti al vero, Evasione contributiva 

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza dell’11 novembre 2021, la Corte di appello di Bologna confermava la decisione del 23 ottobre 2019, con cui il Tribunale di Piacenza aveva condannato (…) con i doppi benefici di legge, alla pena di 6 mesi di reclusione, in quanto ritenuta colpevole del reato di cui all’art. 37 della legge n. 689 del 1981, a lei contestato perché, quale legale rappresentante della “(…) s.r.l.” e di datore di lavoro di 18 dipendenti, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalla previdenza e assistenza obbligatoria, presentava all’Inps denunce contributive con dati non corrispondenti al vero, che determinavano un’evasione contributiva superiore a euro 2.582,28 mensili e al 50% dei contributi complessivamente dovuti; fatti contestati come commessi in (…) 2013 al (…) 2014, avendo il primo giudice assolto l’imputata dalle contestazioni relative ai mesi di (…) 2013.

2. Avverso la sentenza della Corte di appello felsinea, la (…) tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi.

Con il primo, la difesa eccepisce la carenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale ai sensi dell’art. 37 n. 2 e 4 della legge n. 689 del 1981, evidenziando che il Tribunale del Lavoro di Bologna, con la sentenza n. 1019 del 2017, in accoglimento del ricorso della (…) s.r.l., annullava l’avviso emesso dall’Inps contenente i conteggi derivanti dal verbale ispettivo notificato il 6 novembre 2015, facendo venire meno il requisito della punibilità previsto dall’art. 37 della legge n. 689 del 1981, posto che, per evitare il giudizio, l’imputata avrebbe dovuto adempiere a una pretesa contenuta in un provvedimento caducato, sottolineandosi al riguardo che è solo dalla elaborazione dei conteggi operata nel verbale successivo a quello ispettivo che può essere verificato se il mancato versamento eccede o meno i limiti imposti dal citato art. 37.

Con il secondo motivo, la ricorrente censura, sotto il duplice aspetto del vizio di motivazione e della inosservanza della legge penale, la valutazione delle dichiarazioni testimoniali riferite ai contratti di lavoro oggetto di contestazione, osservando che, a differenza di quanto affermato  dall’operante (…) dalle deposizioni di diversi testimoni inseriti nell’organizzazione della palestra, come (…) è emerso che gli stessi non svolgevano attività riconducibile a un rapporto subordinato.

Si tratta, infatti, di giovani che svolgevano altre attività (studio, lavoro in altre strutture, ecc.) che desideravano dedicare un loro tempo limitato all’attività lavorativa, tanto è vero che a ciascuno di essi era riservato un contratto diverso in base alle esigenze manifestate, con ampia flessibilità nella gestione del lavoro.

In ogni caso, a ogni lavoratore sono stati corrisposti i contributi previsti nei rispettivi contratti di collaborazione, dovendosi quindi escludere che le prescritte denunce obbligatorie non venivano presentate al fine di non versare i contributi.

Con il terzo motivo, oggetto di doglianza sono l’inosservanza della legge penale e il vizio di motivazione, non essendosi considerato che le associazioni sportive e la società dilettantistiche, come la (…) s.r.l., fruiscono, in quanto facenti parti della variegata categoria degli enti non commerciali, di importanti vantaggi fiscali sotto il profilo fiscale, alla luce del loro ruolo, finalizzato a sviluppare la diffusione dello sport tra la popolazione.

Ciò premesso, si osserva che, le ASD e le SSD possono avvalersi delle prestazioni sportive degli istruttori o quelle di più spiccata natura gestionale o amministrativa, i cui compensi vanno inquadrati nella speciale disciplina dettata dall’art. 67, comma 1, lett. m) del T.U.I.R., a ciò aggiungendosi che, a norma dell’art. 69 del predetto T.U.I.R., le indennità, i rimborsi forfettari, i premi e i compensi di cui all’art. 67, comma 1, lett. M) non concorrono a formare il reddito per un importo non superiore complessivamente nel periodo di imposta a 7.500 euro. Sia le prestazioni rese nell’esercizio diretto di attività sportive che quelle di natura amministrativo-gestionale usufruiscono di un trattamento di favore, nel senso che, oltre a essere esonerate dal prelievo fiscale fino alla soglia di euro 7.500, non sono soggette a contributi previdenziali e a premi assicurativi.

Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità (il riferimento è a Cass. Sez. 3, n. 31840 del 26 febbraio 2014), le somme che le società sportive dilettantistiche corrispondano a soggetti che prestino la loro opera in favore delle stesse sono esenti dalla contribuzione sino alla soglia di euro 7.500, con conseguente esclusione, in caso di mancata denuncia, del reato ex art. 37 della legge n. 689 del 1981, alla duplice condizione che risultino erogate nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche e che le prestazioni non siano assimilabili a quelle proprie di un rapporto di lavoro di tipo subordinato; dunque, conclude la difesa, se si fosse considerato il predetto limite di reddito, i conteggi contributivi ricalcolati avrebbero comportato sicuramente un abbassamento dell’omissione contributiva, con conseguente ricaduta del fatto sotto la soglia di punibilità.

Con il quarto motivo, ci si duole del diniego delle attenuanti generiche, non avendo la sentenza impugnata fornito adeguata motivazione al riguardo.

Il quinto motivo è infine dedicato al trattamento sanzionatorio, eccependosi la carenza di motivazione rispetto alla determinazione della pena, non essendosi considerato che la condotta della (…) ha determinato una lesione particolarmente lieve del bene giuridico protetto dalla norma.

2.1. Con memoria trasmessa il 18 novembre 2022, i difensori di fiducia della ricorrente hanno insistito nell’accoglimento del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è infondato, ma, avuto riguardo al tempus commisi delicti, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, essendo il reato per cui si procede estinto per prescrizione.

1. Iniziando dal primo motivo, deve premettersi che, ai sensi dell’art. 37 comma 2 della legge n. 689 del 1981, “fermo restando l’obbligo dell’organo di vigilanza di riferire al Pubblico Ministero la notizia di reato, qualora l’evasione accertata formi oggetto di ricorso amministrativo o giudiziario, il procedimento penale è sospeso dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale, fino al momento della decisione dell’organo amministrativo o giudiziario di primo grado”.

Ora, risulta nel caso di specie che il verbale di accertamento dell’Inps contenente i conteggi è stato annullato dal Giudice del lavoro con sentenza n. 1019/2017 per irregolarità della notifica; tale circostanza, tuttavia, è destinata a restare priva di ripercussioni concrete ai fini della procedibilità del reato, dovendosi innanzitutto rilevare che non è chiaro se l’oggetto del ricorso della società sia stato effettivamente “l’evasione accertata”, desumendosi dalle sentenze di merito che l’annullamento è dipeso solo da un vizio formale di notifica.

In ogni caso, pur a voler ritenere che la decisione sul ricorso della società abbia riguardato l’accertamento sostanziale dell’evasione, deve osservarsi che, come correttamente osservato sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, una volta intervenuta la decisione di primo grado del giudice competente, sia venuta meno la causa di sospensione del procedimento penale, non prevedendo la legge che l’annullamento sopravvenuto del verbale di accertamento (a prescindere dalle sue ragioni) abbia effetti preclusivi rispetto all’esercizio dell’azione penale.

Del resto, la comunicazione del verbale di accertamento attiene al procedimento amministrativo concernente le pretese dell’ente previdenziale, ma non incide sulla configurabilità della fattispecie penale, che si perfeziona nel momento in cui il datore di lavoro omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue una o più denunce obbligatorie in tutto, o in parte, non conformi al vero. Di qui l’infondatezza della doglianza difensiva.

2. Passando al secondo e al terzo motivo di ricorso, suscettibili di essere trattati unitariamente perché tra loro sovrapponibili, occorre evidenziare che le censure in punto di responsabilità non sono meritevoli di accoglimento.

Ed invero le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus motivazionale unitario, hanno compiutamente ricostruito i fatti di causa, valorizzando gli esiti della verifica compiuta nel maggio 2014 dai Carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro di Piacenza presso la palestra “(…)” gestita dalla società (…) s.r.l. amministrata da (…).

Dalla verifica e, in particolare, dalle convergenti dichiarazioni dei dipendenti, poi escussi in dibattimento (…), emergeva che le persone che hanno lavorato presso la palestra, al li là della qualificazione formale del contratto con ciascuno di esso stipulato, svolgevano di fatto un’attività che presentava le caratteristiche non del lavoro autonomo, ma di quello subordinato, lavorando secondo turni prestabili, con compenso parametrato alle ore di lavoro (…) ed essendo gli stessi sottoposti alle direttive dei gestori della palestra.

Da ciò i giudici di merito hanno tratto la coerente conclusione secondo cui la datrice di lavoro avrebbe dovuto presentare le prescritte denunce obbligatorie all’Inps, non essendo ciò avvenuto al fine di non versare i contributi dovuti.

L’inquadramento dei rapporti di lavoro tra i dipendenti e la palestra nello schema del lavoro subordinato è scaturito da un accertamento di fatto che, in quanto preceduto da una disamina razionale del materiale probatorio, rispetto alla quale non appaiono ravvisabili profili di travisamento, non appare suscettibile di essere messo in discussione in questa sede, dovendosi richiamare l’affermazione costante di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601 e Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, a fronte di un apparato argomentativo privo di profili di irrazionalità, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.

A ciò deve solo aggiungersi che, come rilevato dalla Corte di appello, non sussisteva, in favore della società amministrata dalla ricorrente, alcun esonero dall’applicazione della normativa fiscale e contributiva, dovendosi in tal senso ribadire il principio elaborato da questa Corte (Sez. 3, n. 31840 del 26/02/2014, Rv. 260190), secondo cui l’obbligo di denuncia di dati obbligatori a fini previdenziali da parte del datore di lavoro, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 37 della legge n. 689 del 1981 (come modificato dall’art. 116, comma 19, della legge n. 388 del 2000), sussiste anche nei confronti dei responsabili delle società sportive dilettantistiche in relazione alle attività svolte, a beneficio degli associati, da istruttori, addetti alle strutture, e altri collaboratori, purché, come avvenuto nel caso di specie, si tratti di attività svolte professionalmente, risultando invece irrilevante il fatto che le attività in esame siano espletate in vista della partecipazione degli associati a competizioni dilettantistiche ufficiali (riconosciute dal CONI e dalle Federazioni sportive), o a beneficio dei c.d. “amatori” delle varie discipline, o di semplici principianti.

3. Venendo infine alle censure in punto di trattamento sanzionatorio, occorre osservare che, rispetto al diniego delle attenuanti generiche, non si ravvisano criticità rilevabili in questa sede, avendo la Corte di appello rimarcato l’assenza di elementi suscettibili di positivo apprezzamento, valutazione questa che, pur nella sua estrema sintesi, non appare manifestamente illogica, dovendosi in proposito evidenziare che, in ogni caso, la motivazione sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche non è stata censurata in modo specifico nel ricorso, nel quale non sono stati indicati i profili di meritevolezza che i giudici di merito avrebbero omesso di prendere in considerazione, non potendosi sottacere del resto che, anche nell’atto di appello, la richiesta di applicazione dell’art. 62 bis cod. pen. era stata formulata in termini oggettivamente generici e assertivi.

Un discorso analogo vale anche per la determinazione della pena.

Sul punto deve rilevarsi che, al cospetto di una pena detentiva “fino a due anni”, il primo giudice, con valutazione condivisa dalla Corte di appello, ha applicato la pena finale di sei mesi di reclusione, inferiore al medio edittale, per cui, anche alla luce dell’estensione temporale della condotta illecita, protrattasi dal luglio 2013 all’ottobre 2014, deve escludersi che il trattamento sanzionatorio sia stato ispirato da criteri di particolare rigore, tanto più ove si consideri che all’imputata sono stati riconosciuti i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, a ciò dovendosi solo aggiungere che pure la doglianza sulla determinazione della pena non risulta adeguatamente specifica.

Anche il quarto e il quinto motivo non sono pertanto meritevoli di accoglimento.

4. Alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso va pertanto disatteso. Tuttavia, stante l’infondatezza invero non manifesta delle doglianze sollevate nei primi tre motivi, deve prendersi atto che, nelle more, è maturata la prescrizione del reato contestato, posto che, pur facendo riferimento al limite temporale ultimo della imputazione (31 ottobre 2014), risulta decorso il termine massimo di 7 anni e 6 mesi, per cui, in assenza di cause di sospensione, la prescrizione massima è intervenuta in data 30 aprile 2022. Ne consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio, per essere il reato estinto per prescrizione.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 marzo 2023, n. 10731
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: