Il tempo per raggiungere quotidianamente la sede lavorativa rientra nell’orario di lavoro solo quando costituisce sia lo strumento necessario per l’esecuzione della prestazione oppure qualora i lavoratori non possono disporne liberamente o quando caratterizzi intrinsecamente la qualità dell’attività svolta in assenza di un luogo di lavoro fisso o abituale.
Nota a Cass. 31 maggio 2024, n. 15332
Maria Novella Bettini e Flavia Durval
“Il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro non può, in via generale, considerarsi esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria, non facendo parte del lavoro effettivo e, pertanto, fatte salve diverse previsioni contrattuali, non si somma al normale orario di lavoro. Tuttavia, esso rientra nell’attività lavorativa vera e propria allorché sia lo strumento necessario per l’esecuzione della prestazione con riguardo a tecnici “on field”, ossia sul campo, che effettuino interventi di manutenzione, installazione e riparazione guasti agli impianti direttamente presso le abitazioni/locali industriali e commerciali, senza far riferimento ad alcuna sede aziendale, ovvero si tratti di tempo del quale i lavoratori non possono liberamente disporre ovvero caratterizzi intrinsecamente la qualità dell’attività svolta in assenza di un luogo di lavoro fisso o abituale”.
Lo afferma la Corte di Cassazione (31 maggio 2024, n. 15332; v. anche Cass. n. 37286/2021, annotata in q. sito da P. COTI, e Cass. n. 5701/2004) in relazione al tempo impiegato da macchinisti itineranti per spostarsi dal loro domicilio al primo cliente e, alla fine della giornata lavorativa, per rientrare dall’ultimo cliente al domicilio.
La Cassazione si pone in linea con la Corte territoriale la quale aveva rilevato che il tempo di spostamento dei lavoratori macchinisti assegnati, in base all’art. 28 del ccnl Attività ferroviarie, agli impianti compresi nell’ambito della “base operativa” non rientrasse nella nozione di orario di lavoro.
Nello specifico, i giudici anno accertato che, durante gli spostamenti domicilio-impianto e viceversa non operava il potere organizzativo o di ingerenza o di conformazione del datore di lavoro. Non sussisteva quindi alcuna limitazione della libertà di autodeterminazione dei lavoratori. Inoltre, il luogo di lavoro ove i macchinisti si recavano (“seppur da declinarsi al plurale, comprendendo un numero predeterminato di impianti inclusi nel concetto di “base operativa” dettato dal ccnl 2012, applicato in azienda”) non era continuamente mutevole e indeterminato bensì preventivamente individuabile e coincidente con un numerus clausus conosciuto dal lavoratore (secondo i criteri dettati dal ccnl).
La Corte chiarisce che la definizione di orario di lavoro adottata nel 2003 (v. Direttiva 2003/88/CE, CGUE 9.9.2003, C-151/02; D.Lgs. n. 66/2003 e Circ. Min. lav. 3 marzo 2005, n. 8) ha una portata certamente più ampia di quella contenuta nel R.D.L. n. 1956/1923, poiché vi comprende non solo il lavoro “effettivo” ma anche i periodi in cui lavoratori “sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità” (v. anche CGUE 10.9.2015, C-266/14 e CGUE 9.3.2021, C -344/19, in q. sito con nota di F. BELMONTE, la quale ha sottolineato che, per affermare che il lavoratore sia soggetto al potere direttivo del datore di lavoro durante il periodo di reperibilità e “ritenere, dunque, compromessa la facoltà del lavoratore di gestire liberamente il proprio tempo, deve emergere – da una valutazione globale dell’insieme delle circostanze – un’apprezzabile, significativa conformazione datoriale del tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti”.
Come statuito dalla Corte di Giustizia, elemento determinante per considerare sussistenti gli elementi caratteristici della nozione di «orario di lavoro» (ai sensi della Direttiva 2003/88, cit.) “è il fatto che il lavoratore sia costretto ad essere fisicamente presente sul luogo designato dal datore di lavoro e a rimanere ivi a disposizione di quest’ultimo al fine di poter fornire direttamente i propri servizi in caso di necessità. E in siffatto contesto, il luogo di lavoro deve essere inteso come qualsiasi luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere un’attività su ordine del suo datore di lavoro, anche quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria attività professionale” (sentenze 9.3.2021, C-344/19, cit. e 28.10.2021, C-909/19).
Tale nozione di orario di lavoro è ribadita dall’art.1, co.2, D.Lgs. n. 66/2003 e si compone di tre requisiti essenziali: 1. la presenza del lavoratore sul luogo di lavoro; 2. il fatto di essere a disposizione del datore di lavoro; 3. trovarsi nell’esercizio di attività o funzioni. “Il criterio di misurazione dell’orario di lavoro risulta, dunque, composito, assumendo espresso e alternativo rilievo non solo il tempo della “prestazione effettiva”, ma anche quello della “disponibilità del lavoratore” e quello della sua “presenza sui luoghi di lavoro” (v. Cass n. 20694/2015).
“Dal principio di cui sopra emerge che l’attività del lavoratore è riconducibile nella nozione di orario di lavoro ove si tratti di prestazione effettiva ovvero di attività che sia sottoposta al potere conformativo del datore di lavoro ovvero che si svolga nell’ambito del luogo di lavoro. Il luogo di lavoro deve essere inteso come qualsiasi luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere un’attività su ordine del suo datore di lavoro, anche quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria attività professionale, purché sia incisa in senso apprezzabile la facoltà di gestire liberamente il proprio tempo”.
La Corte coglie anche l’occasione per pronunciarsi su:
- il tempo di guardia: rientra nella nozione di orario di lavoro l’integralità dei periodi di guardia, ivi compresi quelli in regime di reperibilità, durante i quali “i vincoli imposti al lavoratore sono tali da incidere oggettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, durante i suddetti periodi, il tempo in cui la sua attività professionale non è richiesta e di dedicare tale tempo ai propri interessi, mentre quando i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di guardia determinato non raggiungono un tale grado di intensità e gli consentono di gestire il proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza grossi vincoli, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che, eventualmente, sia effettivamente realizzata durante un periodo del genere, costituisce «orario di lavoro” (Corte di Giustizia UE, sentenze 9.3.2021, C-580/19, annotata in q. sito da F. BELMONTE; 11.11.2021, C-214/20);
- il tempo dedicato alla formazione professionale: costituisce orario di lavoro “il tempo durante il quale un lavoratore segue una formazione professionale impostagli dal suo datore di lavoro, dopo la conclusione del normale orario di lavoro, presso i locali del prestatore dei servizi di formazione e durante il quale egli non esercita le sue funzioni abituali, (sentenza 28.10.2021, C-909/19, cit.);
- la “pausa concessa a un lavoratore durante il suo orario di lavoro giornaliero, durante la quale egli, se necessario, deve essere pronto a partire per un intervento entro due minuti, costituisce “orario di lavoro”. Ciò, ogniqualvolta risulti che i vincoli imposti al prestatore durante la pausa “sono di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare tale tempo ai propri interessi” (sentenza 9.9.2021, C-107/19, in q. sito con nota di M.N. BETTINI);
- il “tempo divisa o tuta”. In merito all’equipaggiamento di viaggio e all’obbligo di indossare la divisa, “Nel rapporto di lavoro subordinato, “il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’etero direzione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento” (v. Direttiva n. 2003/88/CE, cit.; Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015, C-266/14; Cass. n. 25479/2023; Cass. n. 7738/2018, annotata in q. sito da F. GIROLAMI e Cass. n. 1352/2016).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 31 maggio 2024, n. 15332
Fatti di causa
1.La Corte di appello di Roma, confermando la sentenza del giudice di primo grado, ha rigettato la domanda proposta dai lavoratori indicati in epigrafe nei confronti di T.I. s.p.a. e M.I.R. s.r.l. per il riconoscimento – quale orario di lavoro – del tempo impiegato per spostarsi dal loro domicilio al primo cliente e, alla fine della giornata lavorativa, per rientrare dall’ultimo cliente al domicilio.
2. La Corte territoriale – premesso che i lavoratori macchinisti (c.d. itineranti) erano assegnati ad un luogo di lavoro (gli impianti ricompresi nella “base operativa” come definita dall’art. 28 del CCNL per le attività ferroviarie del 2012) ove erano tenuti ad iniziare e terminare l’attività ed effettuata un’ampia ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale (anche di origine comunitaria) elaborato con riguardo alla nozione di “orario di lavoro” – ha ritenuto che non ricorrevano, nel caso di specie, le condizioni ravvisate dalla Corte di Giustizia europea (in particolare, sentenza 10.9.2015, C-266/14, T.) per l’inclusione degli spostamenti nell’orario di lavoro posto che poteva individuarsi un preciso luogo fisso di lavoro tenuto conto che gli impianti da raggiungere erano previamente individuabili tra quelli rientranti nell’ambito della “base operativa” di cui all’art. 28 del CCNL del 2012 (riprodotto pedissequamente nell’art. 27 CCNL del 2016);
la Corte d’appello ha, inoltre, precisato che la lamentata carenza di idoneo supporto logistico (circostanza contestata dalla società) e la necessità dell’equipaggiamento delle apparecchiature fornite dall’azienda non escludevano l’esistenza di una sede di lavoro come convenzionalmente individuata (ponendosi su un piano diverso da quello oggetto della causa).
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso i lavoratori con quattro motivi e le società hanno resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo di ricorso si denunzia falsa applicazione degli artt. 2, punto 1, della direttiva 2003/88/CE, 1, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 66 del 2003 nonché violazione dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente sussunto la fattispecie concreta in quella astratta: la sentenza CGUE 10.9.2015, C-266/14, T. ha precisato che il tempo di spostamento di lavoratori “che non hanno un luogo di lavoro fisso o abituale” deve essere ricompreso nell’orario di lavoro.
Dovendo ritenere che il luogo di lavoro fisso è un luogo non mobile e non variabile, cioè un luogo che è sempre lo stesso, ed essendo pacifico che per i lavoratori il luogo di inizio o termine lavoro non è sempre lo stesso (ma possono essere più luoghi, ossia gli impianti compresi nella base operativa, sia pure in un numero circoscritto), la Corte territoriale ha erroneamente interpretato l’espressione “luogo di lavoro fisso”.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, omesso di pronunciarsi sulla seconda domanda del ricorso introduttivo del giudizio (avente petitum e causa petendi autonomi) che, allegando la necessità dei lavoratori macchinisti di portarsi dietro una quantità di strumenti di lavoro e di dispositivi di protezione individuale-DPI nonché di indossare la divisa, chiedeva il riconoscimento dell’orario di lavoro degli spostamenti suddetti.
3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione degli artt. 2, punto 1, della direttiva 2003/88/CE, 1, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 66 del 2003 (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.): anche a voler supporre che la Corte territoriale abbia statuito sulla seconda domanda contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio, essa avrebbe errato nell’escludere che nel caso di specie non ricorressero i tre requisiti individuati dalla CGUE per individuare la nozione di orario di lavoro: invero, l’obbligo di uscire di casa indossando la divisa e di portare con sé la strumentazione e i DIP consente di ritenere che i lavoratori siano nell’esercizio dell’attività essendo lo spostamento strumento necessario per l’esecuzione della prestazione tecnica (primo requisito), siano a disposizione del datore di lavoro durante lo spostamento medesimo (secondo requisito) e non abbiano un luogo di lavoro fisso, esercitando le proprie funzioni durante il suddetto spostamento (terzo requisito).
4. Con il quarto motivo di ricorso si denunzia falsa applicazione dell’art. 28, punto 2.1., lett. c) e d) del CCNL Mobilità/Area Contrattuale Attività Ferroviaria del 2012 (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, effettuato la propria statuizione con riguardo al contratto collettivo del 2012 (e di quello successivo) mentre – dovendosi ritenere decorrente la domanda giudiziale dal 17.8.2011 in considerazione delle lettere di messa in mora – il precedente CCNL del 2003 non prevedeva l’articolazione organizzativa della “base operativa” e,anzi prevedeva una clausola, l’art. 22, punto 2.2., 6° alinea, che avrebbe permesso di riconoscere come orario di lavoro gli spostamenti domicilio-impianti e i lavoratori ricorrenti – pur non avendo sollevato la questione con il ricorso introduttivo del giudizio e in sede di appello – avevano depositato anche il CCNL 2003.
5. I primi tre motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, non sono fondati.
5.1. L’articolo 2 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, intitolato «Definizioni», così recita: «Ai sensi della presente direttiva si intende per:
- “orario di lavoro”: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali;
- “periodo di riposo”: qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro; (…)».
5.2. L’art. 1, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 66 del 2003 definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
5.3. La circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 3.3.2005 n. 8 ha sottolineato, anche richiamando giurisprudenza comunitaria (in specie, CGUE 9.9.2003, C-151/02), come la definizione di orario di lavoro adottata nel 2003 abbia portata certamente più ampia di quella enunciata nel r.d.l. n. 1956 del 1923 perché vi comprende non solo il lavoro “effettivo” ma anche i periodi in cui lavoratori “sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità”.
5.4. Secondo la giurisprudenza comunitaria, con particolare riferimento ai tempi di spostamento dei lavoratori, l’art. 2, punto 1, della direttiva 2003/88/Ce deve essere interpretato nel senso che, ove i lavoratori non abbiano un luogo di lavoro fisso o abituale, costituisce “orario di lavoro”, ai sensi di tale disposizione, il tempo di spostamento che tali lavoratori impiegano per gli spostamenti quotidiani tra il loro domicilio ed i luoghi in cui si trovano il primo e l’ultimo cliente indicati dal loro datore di lavoro (CGUE 10.9.2015, C-266/14, richiamata dalla sentenza impugnata, che ha sottolineato come i lavoratori della causa comunitaria, a differenza degli odierni ricorrenti ricevevano specifiche disposizioni concernenti l’esecuzione della prestazione lavorativa sin dalla partenza dal loro domicilio).
Del pari, CGUE 9.3.2021, C 344/19 ha sottolineato che per ritenere il lavoratore soggetto al potere direttivo del datore di lavoro durante il periodo di reperibilità e ritenere, dunque, compromessa la facoltà del lavoratore di gestire liberamente il proprio tempo, deve emergere – da una valutazione globale dell’insieme delle circostanze – un’apprezzabile, significativa conformazione datoriale del tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti.
5.5. Per quanto riguarda la qualificazione dei periodi di guardia, la CGUE ha, altresì, dichiarato che rientra nella nozione di «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, l’integralità dei periodi di guardia, ivi compresi quelli in regime di reperibilità, nel corso dei quali i vincoli imposti al lavoratore sono tali da incidere oggettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, durante i suddetti periodi, il tempo in cui la sua attività professionale non è richiesta e di dedicare tale tempo ai propri interessi, mentre quando i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di guardia determinato non raggiungono un tale grado di intensità e gli consentono di gestire il proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza grossi vincoli, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che, eventualmente, sia effettivamente realizzata durante un periodo del genere costituisce «orario di lavoro» (sentenze 9.3.2021, C-580/19; 11.11.2021, C-214/20);
la CGUE ha avuto, inoltre, occasione di precisare che il tempo durante il quale un lavoratore segue una formazione professionale impostagli dal suo datore di lavoro, dopo la conclusione del normale orario di lavoro, presso i locali del prestatore dei servizi di formazione e durante il quale egli non esercita le sue funzioni abituali, costituisce «orario di lavoro» ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva 2003/88/CE (sentenza 28.10.2021, C-909/19) e che la pausa concessa a un lavoratore durante il suo orario di lavoro giornaliero, durante la quale egli, se necessario, deve essere pronto a partire per un intervento entro due minuti, costituisce “orario di lavoro”, ai sensi di tale disposizione, quando da una valutazione globale di tutte le circostanze pertinenti risulta che i vincoli imposti a detto lavoratore durante la pausa di cui trattasi sono di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare tale tempo ai propri interessi (sentenza 9.9.2021, C-107/19).
5.6. In particolare, la Corte di giustizia europea ha sottolineato che profilo determinante per considerare sussistenti gli elementi caratteristici della nozione di «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, è il fatto che il lavoratore sia costretto ad essere fisicamente presente sul luogo designato dal datore di lavoro e a rimanere ivi a disposizione di quest’ultimo al fine di poter fornire direttamente i propri servizi in caso di necessità. E in siffatto contesto, il luogo di lavoro deve essere inteso come qualsiasi luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere un’attività su ordine del suo datore di lavoro, anche quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria attività professionale (sentenze 9.3.2021, C-344/19; 28.10.2021, C-909/19).
5.7. Va aggiunto che l’art. 15 della Direttiva 2003/88/CE non consente agli Stati membri di adottare o mantenere una definizione della nozione di «orario di lavoro» meno restrittiva di quella contenuta all’art. 2 (CGUE 21.2.2018, C-518/15).
5.8. Nella medesima prospettiva esegetica, questa Corte ha precisato che la nozione di orario di lavoro, come desumibile dal testo dell’art. 1, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 66 del 2003, si compone di 3 requisiti essenziali, dati dalla presenza del lavoratore sul luogo di lavoro, dall’essere a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio di attività o funzioni; il criterio di misurazione dell’orario di lavoro risulta, dunque, composito, assumendo espresso e alternativo rilievo non solo il tempo della “prestazione effettiva”, ma anche quello della “disponibilità del lavoratore” e quello della sua “presenza sui luoghi di lavoro” (Cass n. 20694 del 2015).
5.9. Dai principi di diritto innanzi riassunti, sanciti a livello europeo e nazionale, emerge che l’attività del lavoratore è riconducibile nella nozione di orario di lavoro ove si tratti di prestazione effettiva ovvero di attività che sia sottoposta al potere conformativo del datore di lavoro ovvero che si svolga nell’ambito del luogo di lavoro. Il luogo di lavoro deve essere inteso come qualsiasi luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere un’attività su ordine del suo datore di lavoro, anche quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria attività professionale, purché sia incisa in senso apprezzabile la facoltà di gestire liberamente il proprio tempo.
5.10. Ebbene, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro non può, in via generale, considerarsi esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria, non facendo parte del lavoro effettivo (e, pertanto, fatte salve diverse previsioni contrattuali, non si somma al normale orario di lavoro: Cass. n. 5701 del 2004); tuttavia, esso rientra nell’attività lavorativa vera e propria allorché sia lo strumento necessario per l’esecuzione della prestazione (Cass. n. 37286 del 2021, con riguardo a tecnici “on field”, ossia sul campo, che effettuavano interventi di manutenzione, installazione e riparazione guasti agli impianti direttamente presso le abitazioni/locali industriali e commerciali, senza far riferimento ad alcuna sede aziendale) ovvero si tratti di tempo del quale i lavoratori non possono liberamente disporre ovvero caratterizza intrinsecamente la qualità dell’attività svolta in assenza di un luogo di lavoro fisso o abituale.
6. La Corte territoriale ha correttamente applicato i principi di diritto innanzi riassunti là dove, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede di legittimità, ha ritenuto che il tempo di spostamento dei lavoratori macchinisti assegnati, in base all’art. 28 del CCNL Attività ferroviarie, agli impianti compresi nell’ambito della “base operativa” non rientri nella nozione di orario di lavoro.
Invero, è stato accertato che durante gli spostamenti domicilio-impianto e viceversa non opera il potere organizzativo o di ingerenza o di conformazione del datore di lavoro (non operando alcuna limitazione della libertà di autodeterminazione del lavoratore) e che il luogo di lavoro ove i macchinisti si recano (seppur da declinarsi al plurale, comprendendo un numero predeterminato di impianti inclusi nel concetto di “base operativa” dettato dal CCNL applicato in azienda) non è continuamente mutevole e indeterminato bensì preventivamente individuabile e coincidente con un numerus clausus conosciuto dal lavoratore (secondo i criteri dettati dal CCNL).
7. In ordine all’equipaggiamento di viaggio e all’obbligo di indossare la divisa, questa Corte ha più volte affermato che “Nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’etero direzione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento” (Cass. n. 1352/2016; conforme Cass. n. 7738/2018; Cass. 25479/2023).
E’ stato recentemente precisato che “la eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento, o dalla specifica funzione che devono assolvere” (Cass. 32477/21, Cass. n.33258/2021), e non è stata ritenuta decisiva la circostanza che gli indumenti costituissero dispositivo di protezione individuale (Cass. n. 9871/2021; la specifica funzione degli indumenti – consistenti in una divisa di guardia fuoco fornita dal datore di lavoro, di colore arancione con barre catarifrangenti, conservata negli armadietti all’interno degli spogliatoi aziendali – è stata ritenuta rilevante da Cass. n. 34072/2021).
7.1. Nel caso di specie, non è stato accertato che i lavoratori siano soggetti a un potere di etero direzione durante lo spostamento né che gli indumenti da indossare siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento.
8. Il quarto motivo è inammissibile.
8.1. Nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello (Cass. n. 1474 del 2007; Cass. n. 7048 del 2016; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 32804 del 2019; Cass. n. 5881 del 2023). Nel caso di specie, con riguardo alla omessa valutazione, da parte della Corte territoriale, dell’art. 22 del CCNL del 2003, va rilevato che trattasi di questione che non risulta affatto affrontata nella sentenza impugnata e i ricorrenti non indicano in quale atto difensivo e in quale momento processuale la suddetta questione sarebbe stata esposta.
9. Il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. e liquidate in via parziaria a carico dei ricorrenti.
10. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 9.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso artico