L’utilizzo, da parte del dipendente portatore di handicap grave, dei giorni di permesso mensile per lo svolgimento di attività estranee alle finalità terapeutiche, quali passeggiate o gite fuori porta, non costituisce un abuso di diritto.
Cass. (ord.) 6 dicembre 2024, n. 31330
Sonia Gioia
La fruizione da parte del lavoratore, portatore di handicap in situazione di gravità, dei giorni di permesso mensile, ex art. 33, co. 6, L. 5 febbraio 1992, n. 104 (c.d. “Legge – quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) per finalità diverse dalle esigenze di cura non costituisce un abuso di diritto, dal momento che tali permessi hanno come finalità quella di ristabilire l’equilibrio psico-fisico del prestatore necessario per godere di un pieno inserimento nella famiglia e nella società e non devono essere necessariamente vincolati allo svolgimento di visite mediche.
Sicché, il licenziamento intimato al dipendente gravemente disabile per aver svolto, durante le giornate di permesso mensile, attività non direttamente connesse alle esigenze di cura, come passeggiate o gite fuori porta, è illegittimo, con conseguente diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (ord., 6 dicembre 2024, n. 31330, conforme ad App. Roma n. 3964/2022), in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice, affetta da grave disabilità psichica, per abuso dei permessi mensili, in quanto fruiti per lo svolgimento di attività diverse dalla cura delle sue condizioni di salute (nello specifico, passeggiate di qualche ora e una gita fuori porta).
Come noto, i lavoratori disabili affetti da handicap grave o i lavoratori dipendenti, pubblici o privati, con familiari disabili in situazione di gravità, accertata dalle competenti commissioni mediche (ai sensi degli artt. 3 e 33, L. n. 104 cit.), hanno diritto a fruire di permessi orari retribuiti rapportati all’orario giornaliero di lavoro (che consistono in due ore al giorno se l’orario lavorativo è pari o superiore a sei ore, un’ora in caso di orario lavorativo inferiore a sei) o di tre giorni di permesso mensile, anche frazionabili in ore (art. 33, co. 2, 3 e 6, L. n. 104 cit.).
Si tratta di “un beneficio diretto a proteggere la figura del disabile, sia che questi necessiti di assistenza perché familiare convivente del dipendente, sia che necessiti egli stesso di curare la propria salute ivi compresa la necessità di un reinserimento sociale o familiare”.
La distinzione tra l’una e l’altra figura di permesso va colta “sul piano concreto”, poiché i lavoratori, “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, hanno diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile, retribuito e coperto da contribuzione figurativa, al fine di prestare assistenza al familiare portatore di handicap grave, e, cioè, per l’espletamento di tutte le attività che la persona non sia in grado di compiere autonomamente, mentre il medesimo beneficio è fruibile dal lavoratore disabile anche per attività diverse dallo svolgimento di visite mediche o interventi di cura, in quanto mira a ristabilire l’equilibrio psicologico e fisico del prestatore e a favorirne l’integrazione nella famiglia e nella società (ex art. 1, L. n. 104 cit.).
I lavoratori, portatori di handicap rilevanti, proprio perché svolgono attività lavorativa, sono più gravati di quanto non lo sia un prestatore che assiste un coniuge o un parente invalido, sicché la fruizione dei permessi non deve essere necessariamente vincolata allo svolgimento di attività con finalità terapeutiche, essendo più in generale preordinata all’obiettivo di ristabilire l’equilibrio psicofisico necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale, inserimento che può essere compromesso da ritmi lavorativi che non considerino le condizioni svantaggiate sopportate (Cass. (ord.) 20243/2020, con nota in q. sito di S. GIOIA).
Ciò, “anche perché alcune patologie, come quelle connesse alla psiche ed alla personalità mettono al primo posto proprio la necessaria integrazione sociale e familiare che può ottenersi attraverso percorsi individuali predisposti nel rispetto delle prescrizioni del medico curante”.
Sulla base di tali principi, la Cassazione, rilevato che la particolare disabilità psichica di cui era affetta la lavoratrice “ben poteva essere compensata permessi ottenuti” e che non erano state registrate controindicazioni mediche per il miglioramento di tale patologia nel fare una passeggiata di qualche ora o una gita fuori porta, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento irrogato dalla società datrice, con conseguente condanna alla reintegrazione sul posto di lavoro e al risarcimento del danno.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 6 dicembre 2024, n. 31330
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 3964 del 2022, ha respinto il reclamo proposto da A.A. Assicurazioni nei confronti di B.B. contro la sentenza emessa all’esito del giudizio di opposizione ex articolo 1, comma 51 legge n. 92 del 2012 che aveva confermato il giudizio di primo grado sulla illegittimità del licenziamento intimato alla B.B. in data 15/10/2019 per giusta causa, condannando la società alla reintegra della lavoratrice, nonché al pagamento dell’indennità risarcitoria, oltre le spese.
A fondamento della decisione la Corte ha affermato che la fattispecie di cui all’art. 33, comma 6 della legge 104/1992, che riguarda i permessi riconosciuti in ragione della disabilità, integra un beneficio diretto a proteggere la figura del disabile o del portatore di handicap grave, sia che questi necessiti di assistenza perché familiare convivente del dipendente, sia che necessiti egli stesso di curare la propria salute ivi compresa la necessità di un reinserimento sociale o familiare; tuttavia la distinzione fra l’una figura e l’altra di permessi andava colta sul piano concreto, in relazione al tipo di patologia e di esigenze che condizionano il modo più appropriato di fruire dei permessi da parte dello stesso lavoratore che li richiede per ricostituire la propria salute; anche perché determinate patologie, come quelle connesse alla psiche ed alla personalità mettono al primo posto proprio la necessaria integrazione sociale e familiare che può ottenersi attraverso svariati percorsi individuali predisposti nel rispetto delle prescrizioni del medico curante. La particolare disabilità psichica o mentale riconosciuta alla dipendente ben poteva essere compensata dai permessi ottenuti, la cui finalità era quella di proteggere il bene della salute del soggetto intesa come completa integrità fisica e mentale.
Nessun rilievo idoneo a confutare tale collegamento era stato offerto dall’azienda che dal suo canto si era limitata a contestare che il numero di permessi e la necessità di un continuo adeguamento alle assenze ripetute della lavoratrice avevano integrato la situazione di scarso rendimento utile a giustificare il licenziamento della stessa.
Non era stato però dedotto un concreto disservizio conseguente a tale situazione, né la dedotta necessità che il collega di stanza della lavoratrice fosse costretto a sopperire all’assenza ricorrendo allo svolgimento di numerose ore di straordinario poteva essere ritenuto sufficiente a tal fine posto che – oltre a non essere provato (le ore di straordinario erano state sempre svolte dal collega di stanza) – esso non poteva rappresentare una circostanza idonea ex se ad integrare un requisito forte come quello dello scarso rendimento. La doglianza relativa alla richiesta di aliunde perceptum o percipiendum risultava invece, secondo la Corte, assolutamente generica ed esplorativa.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione A.A. Assicurazioni con quattro motivi a cui ha resistito B.B. con controricorso. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380-bis 1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si lamenta la nullità della sentenza per omessa pronuncia sul terzo, quarto e quinto motivo di reclamo ovvero per omessa pronuncia su domande o eccezioni in violazione dell’articolo 112 c.p.c. ex articolo 360 numero 4 c.p.c. In particolare, ad avviso della società ricorrente, nessuna motivazione si legge nella sentenza impugnata con riferimento a quanto dedotto nel reclamo da A.A. assicurazioni in tema rispettivamente di: i) violazione degli articoli 2697 c.c. e 115 e 116 c.p.c. per avere il Tribunale di Roma erroneamente non ritenuto illegittima la fruizione, da parte della signora B.B. di un permesso ex legge n. 104/1992 in data 8 aprile 2019; ii) conversione del licenziamento de quo in licenziamento per giustificato motivo soggettivo; iii) inapplicabilità della tutela reale con conseguente violazione dell’articolo 18, comma 4 legge 300 del 70.
Il motivo è inammissibile anzitutto perché non trascrive per intero il reclamo in appello, né consente di apprendere quale sarebbe stato il fatto contestato a cui si riferisce.
In secondo luogo va rilevato come la gravata sentenza della Corte d’Appello, nel richiamare le decisioni delle fasi pregresse del giudizio, ha affermato che non sussisteva alcuna violazione commessa dalla lavoratrice ed alcuna incompatibilità nell’utilizzo dei permessi, riferita a ciascuna delle circostanze a lei contestate.
La Corte ha invero sostenuto in proposito “non può che condividersi quanto affermato dal Tribunale che in linea con la documentazione medica e quanto pacificamente emerso in ordine al tipo di patologia di cui era affetta la lavoratrice ha ritenuto consono il riconoscimento alla stessa di avere la possibilità di superare tale patologia anche ricorrendo ai permessi per lo svolgimento di attività diverse dallo stare in casa. Posto che peraltro non sono state registrate controindicazioni mediche per il miglioramento di tale patologia nel fare una passeggiata di qualche ora o una gita fuori porta”.
Inoltre, come risulta dalla sentenza, quanto all’illegittimità del licenziamento, la Corte d’Appello, con motivazione congrua e sulla base degli atti di causa, ha escluso qualsiasi fatto illecito e la stessa antigiuridicità della condotta e non ha effettuato una valutazione di mera gravità o di compatibilità del comportamento con la prosecuzione provvisoria del rapporto per il periodo del preavviso o di esclusione della immediatezza; con ciò escludendo implicitamente anche la ricorrenza dei presupposti del giustificato motivo soggettivo.
Inoltre la Corte d’Appello non ha omesso alcuna pronuncia circa l’inapplicabilità della tutela reintegratoria avendo confermato in toto la sentenza di primo grado di cui non può essere messa in discussione la rispondenza a legge in un caso come quello che si giudica, posto che in mancanza del fatto contestato l’art.18, 4 comma L. 300/70 riconosce certamente la tutela reintegratoria.
2.- Con il secondo motivo di ricorso si sostiene la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 33 legge n. 104/1992, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte d’Appello di Roma erroneamente ritenuto prive del carattere di illiceità le condotte poste in essere dalla signora B.B. in data 23 luglio, 1 e 2 agosto 2019 avendo utilizzato il permesso ex legge 104 per soddisfare esigenze personali e quindi per finalità estranee a quelle per le quali sono stati concessi ovvero per finalità di cura e terapeutiche.
Il secondo motivo deve essere disatteso.
Esso si rivela inammissibile nella parte in cui mira ad affermare la tesi dell’incompatibilità tra i comportamenti accertati e contestati dalla datrice di lavoro e quelli consentiti ai sensi della legge n. 104/92, comma 6. Al contrario, la Corte di appello ha correttamente premesso, anzitutto, che ai fini della legittimità dei permessi di cui si tratta, goduti ai sensi del 33, comma 6 della legge 104/1992, deve essere affermata l’esigenza di un accertamento in concreto rilevando che sono il tipo di patologia e di esigenze personali che condizionano il modo più appropriato di fruire dei permessi da parte del lavoratore che li richiede per ricostituire la propria salute.
Pertanto, se non si considera in concreto il tipo di patologia da cui è affetto un lavoratore non è possibile affermare in astratto – come invece ritiene la ricorrente – quali siano le condotte incompatibili o non collegabili ad una finalità terapeutica o di integrazione sociale e familiare.
Inoltre, quanto al procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella legale, va in effetti riconosciuto che all’interno dei permessi previsti dall’art 33, comma 6 della legge n. 104/1992 per finalità riconducibili all’handicap grave rientrano anche le attività dirette ad agevolare l’integrità fisica-mentale e l’integrazione sociale e familiare del lavoratore, senza che la fruizione degli stessi debba essere necessariamente funzionale alle esigenze di cura (cosi testualmente Cass. Ordinanza n. 20243 del 25/09/2020).
E sotto questo aspetto la Corte di merito ha correttamente considerato che determinate patologie, come quelle connesse alla psiche ed alla personalità, mettono al primo posto proprio la necessaria integrazione sociale e familiare che può ottenersi attraverso svariati percorsi individuali predisposti nel rispetto delle prescrizioni del medico curante; ed inoltre che nel caso di specie il giudice di primo grado aveva accertato che la particolare “disabilità psichica o mentale” riconosciuta alla dipendente ben poteva essere compensata dai permessi ottenuti; laddove al contrario nessun rilievo idoneo a confutare tale collegamento era stato offerto dall’azienda che si era limitata soltanto a dedurre una situazione di scarso rendimento.
Ciò detto, le censure sollevate dalla ricorrente sconfinano pure nell’esame del merito dal momento che richiedono una rivalutazione dell’accertamento operato dalla Corte circa la esistenza in concreto della compatibilità prevista dalla legge tra malattia psichica e permessi di cui la stessa lavoratrice ha goduto. Mentre non è possibile accertare in questa sede di legittimità – sostituendosi ai giudici del merito – che le attività svolte dalla lavoratrice nelle giornate in contestazione non avessero nulla a che vedere con la malattia sofferta, con la necessità di terapia o di cura della persona, come si pretende con il ricorso.
A nulla può rilevare invece, ai fini del licenziamento della lavoratrice, che il compagno della Reale sia stato licenziato per il medesimo fatto per la violazione della legge n. 104/1992 godute per finalità assistenziali nei confronti della madre. Trattandosi evidentemente di permessi diversi e fatti diversi, legati ad accertamenti e norme differenti e con presupposti diversi.
3. – Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione degli articoli 2697 c.c. , 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte d’Appello di Roma erroneamente non ritenuto inutilizzabile la prestazione lavorativa della signora B.B. nel periodo dall’1 gennaio 2019 al 30 settembre 2019, ex articolo 360 numero 3 c.p.c., posto che la sentenza avrebbe errato nella parte in cui non ha valutato il comportamento contestato alla B.B. sotto il profilo soggettivo e disciplinare dello scarso rendimento oggetto della contestazione disciplinare; mentre la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che le medesime condotte poste in essere dalla signora B.B. siano con tutta evidenza tali da giustificare licenziamento per scarso rendimento.
Il motivo è inammissibile laddove mira a porre in discussione l’accertamento effettuato dalla Corte d’Appello circa la mancanza (anche sul piano probatorio) di un concreto disservizio provocato dall’assenza della lavoratrice atteso che il collega di lavoro effettuava già numerose ore di straordinario.
In ogni caso non è possibile contestare lo scarso rendimento di una persona ammalata. Questa Corte ha affermato anche di recente (Cass. n. 36188/2022) che l’eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non può legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per scarso rendimento atteso che la tutela della salute è un valore fondamentale secondo il nostro ordinamento. La legge prevede la conservazione del posto di lavoro e questo è un chiaro elemento indicativo della preminenza del valore del lavoro e della persona che vi è insita su ogni altro.
4. – Con il quarto motivo si sostiene la violazione dell’articolo 18 statuto dei lavoratori per avere la Corte d’Appello erroneamente non proceduto alla detrazione della aliunde perceptum o percipiendum.
Il motivo è invece infondato posto che l’affermazione della Corte d’Appello è del tutto coerente con la giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 25355/2019) secondo cui “il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative” (ex plurimis, Cass. n. 2499 del 2017).
Qui con giudizio di fatto, non validamente censurato in questa sede, i giudici del merito hanno ritenuto che la doglianza formulata in proposito fosse generica e meramente esplorativa.
7. – Sulla scorta delle ragioni fin qui espresse il ricorso deve essere rigettato.
8. – Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c. con distrazione in favore dell’Avv. Carlo de Marchis Gòmez.
Non sussistono i presupposti per la condanna ex art 96 c.p.c. richiesta dal controricorrente.
9.- Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, D.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie oltre accessori dovuti per legge, con distrazione in favore dell’Avv. Carlo de Marchis Gòmez. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1-bis del citato D.P.R., se dovuto.
Ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003 e succ. mod., in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi della ricorrente.