Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, punito ai sensi dell’art. 603-bis c.p., non trova applicazione nei settori che si avvalgono di prestazioni di lavoro di tipo intellettuale, essendo la sua operatività circoscritta alle sole attività manuali.

Nota a Cass. Pen. 28 novembre 2024, n. 43662

Sonia Gioia

Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, previsto dall’art. 603-bis c.p., non può trovare applicazione in riferimento alle professioni intellettuali poiché la norma, introdotta per reprimere il fenomeno del caporalato nel mercato del lavoro dei braccianti agricoli, si riferisce esclusivamente “al reclutamento o all’utilizzazione di ‘manodopera’, termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro priva di qualificazione”, con conseguente esclusione del lavoro intellettuale, sia esso esercitato in forma subordinata che nella libera professione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sez. Penale, 28 novembre 2024, n. 43662 (difforme da Trib. del riesame di Palermo 26 aprile 2024), in relazione ad una fattispecie concernente la legittimità della misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei confronti della Presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa, esercente attività di istruzione secondaria, indagata per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ed estorsione aggravata (artt. 603-bis e 629 c.p.) per aver sottoposto – in concorso con altri – i docenti a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno, e per aver costretto alcuni di essi a restituire la retribuzione ricevuta o lavorare sottopagati con minaccia consistita nel prospettarne la mancata riassunzione in occasione dei successivi rinnovi contrattuali.

Come noto, l’art. 603-bis c.p. – introdotto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, conv. dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 e novellato dalla L. 29 ottobre 2016, n. 199 (concernente “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”) –  punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque “utilizza, assume o impiega manodopera”, anche mediante l’attività di intermediazione illecita,  “sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.

Lo sfruttamento è definito, al co. 3,  attraverso appositi elementi sintomatici, che implicano una situazione di stringente soggezione e costrizione al lavoro, tale da determinare una lesione, temporalmente apprezzabile, dei diritti fondamentali del prestatore e della sua dignità: si tratta di indici che non hanno carattere tassativo ma costituiscono meri indicatori della sussistenza del fatto tipico, sicché la prova dello sfruttamento può derivare anche aliunde, purché si concreti in condotte che evidenzino un abuso nei confronti del prestatore che si trovi in stato di bisogno.

In particolare, sono indici di sfruttamento:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o comunque non proporzionato rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato;
  2. la ripetuta violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria e alle ferie;
  3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Lo stato di bisogno, che ha sostituito lo stato di necessità di cui alla L. n. 148/2011, non si riferisce al “generale contesto di crisi occupazionale”, che è una situazione tipica della società statale, ma indica una condizione che, pur non integrando una situazione di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, comporta un impellente assillo che compromette fortemente la libertà contrattuale del soggetto passivo.

L’elemento soggettivo dello sfruttamento si concretizza, invece, nella condotta di chi prospetta condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose nella consapevolezza della situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in cui si trova il prestatore.

Ad avviso della Cassazione, l’art. 603-bis c. p., introdotto dall’art. 12, D.L. n. 138 cit. “quale risposta al sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo soprattutto nelle campagne meridionali”, non può essere in via interpretativa ampliato per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore.

Vi ostano non solo il divieto di interpretazione analogica operante nel settore penale (ex art. 25 Cost., artt. 1 e 199 c. p. e art. 14 Preleggi) ma anche la collocazione della disposizione ed il testo stesso della norma.

Quanto alla collocazione sistematica, l’art. 603-bis c. p.  è inserito in un corpus normativo (nel Titolo XII del Libro II tra i delitti “contro la personalità individuale”) costituito da reati di estrema gravità, come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone in vita, vale a dire delitti che ledono lo status libertatis, un bene c.d. prodromico, garantito implicitamente dalla Costituzione, la cui compressione determina una reificazione della vittima e l’annientamento della personalità, e, in definitiva, una lesione della stessa dignità umana (artt. 2, 3, 4 e 36 Cost.).

Per la Corte, è, poi, “soprattutto” il dato testuale a precludere l’applicazione della norma a categorie di lavoro che, avvalendosi di prestazioni intellettuali, esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo, artigianale o industriale.

La norma, infatti, fa riferimento al reclutamento o all’utilizzazione di “manodopera”, termine che è intrinsecamente legato al lavoro manuale e spesso privo di qualificazione (tanto che, ove le qualità manuali e realizzative aumentino, si parla di “manodopera specializzata”) e che non comprende le attività di natura intellettuale, indipendentemente dalle modalità con cui esse vengono espletate.

L’intelletto e il suo utilizzo, infatti, costituiscono un elemento distintivo e individualizzante del lavoratore, che non può essere meramente ricondotto alla categoria della manodopera, “nome collettivo all’interno del quale l’individuo e le sue capacità perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere”.

Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva confermato l’applicazione della misura cautelare, disposta dal GIP di Termini Imerese, in relazione al reato di caporalato, perché il fatto non sussiste, non essendo applicabile al lavoro intellettuale l’art. 603-bis c. p. e “non parendo affatto soddisfatti nella fattispecie concreta gli elementi costitutivi dello stato di bisogno e dello sfruttamento dei lavoratori”.

Quanto al primo elemento, la Corte ha censurato la pronuncia di merito per aver identificato lo stato di bisogno nel “generale contesto di crisi occupazionale”, una mera condizione sociologica non utilizzabile in giudizio “per la sua vaghezza” e tipica della società statale, dovendo, invece, lo stesso riferirsi al singolo lavoratore e alla mancanza di risorse economiche necessarie a soddisfare le proprie essenziali esigenze di vita.

Per quel che concerne lo sfruttamento del lavoro, il Tribunale avrebbe dovuto verificare, alla luce dell’orario giornaliero estremamente contenuto svolto da ciascun docente ed alla rilevanza – ai fini del calcolo del punteggio per le graduatorie dei docenti – non delle ore di servizio ma delle giornate lavorative, se la sottoscrizione dei contratti corrispondesse ad una scelta di opportunità dei singoli lavoratori, “attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato”.

Sentenza

CASSAZIONE PENALE 28 novembre 2024, n. 43662

Svolgimento del processo

1.Con l’impugnato provvedimento il Tribunale di Palermo, sezione del riesame, ha rigettato la richiesta di riesame proposta da A.A., confermando l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese del 9 aprile 2024 con cui era stata applicata nei confronti dell’indagata la misura cautelare degli arresti domiciliari per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.) ed estorsione aggravata (art. 629 c.p.). In particolare, l’indagata, quale presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa, esercente attività di istruzione secondaria, (i) sottoponeva i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno nonché (ii) costringeva taluni dipendenti a restituire la retribuzione ricevuta ovvero a lavorare sottopagati con minaccia consistita nel prospettarne la mancata riassunzione in occasione di successivi rinnovi contrattuali. Condotte commesse, secondo la prospettazione accusatoria accolta nei provvedimenti giudiziali, in concorso con il Preside, la Segretaria e due ulteriori responsabili (di fatto) degli istituti scolastici gestiti dalla cooperativa.

2. La difesa dell’imputata ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza adducendo i seguenti cinque motivi.

2.1 Violazione dell’articolo 606  lettera c) c.p.p. in relazione agli artt. 273, 274, 292 comma 2 lett. b), c) e c-bis e 2-ter, c.p.p. (nullità dell’ordinanza di custodia cautelare per mancanza di motivazione) nonché 606 lett. e) c.p.p. per contraddittorietà della motivazione.

Con il riesame si era rappresentato che l’ordinanza genetica forse nulla per mancanza di motivazione in ordine ai gravi indizi di colpevolezza ed alle esigenze cautelari essendosi il giudice limitato a recepire e ripetere pedissequamente la richiesta del pubblico ministero. Si era inoltre eccepito che il giudice delle indagini preliminari non avesse effettuato alcuna valutazione in ordine alle investigazioni difensive depositate con memoria anteriore all’emissione dell’ordinanza.

Il Tribunale ha rigettato la questione per mezzo di una motivazione a sua volta carente e non correlata con le specifiche questioni poste dalla difesa.

Nell’ordinanza cautelare genetica, si evidenzia nel ricorso, la prospettazione degli elementi addotti dal pubblico ministero e delle ragioni per cui fossero da ritenersi idonei a supportare l’applicazione della misura cautelare è riportata in corsivo da pagina 5 a pagina 45 ed è seguita da tre ‘paragrafetti’ che costituiscono una mera adesione del giudice per le indagini preliminari alla prospettiva inquirente. Totalmente pretermessa è poi la considerazione delle investigazioni difensive.

2.2 Violazione dell’art. 606  lett. c) c.p.p. in relazione all’art. 603-bis  c.p. ed agli artt. 309  e 273  c.p.p., nonché dell’art. 606  lett. e) c.p.p. per contraddittorietà della motivazione.

Nella ricostruzione fattane nell’ordinanza impugnata come in quella genetica sono carenti l’analisi della struttura del reato di cui all’art. 603-bis  c.p. sotto plurimi profili:

– la prospettazione delle condizioni contrattuali era chiara fin dall’inizio;

– la A.A. informò sempre le controparti prima della stipula dei contratti;

– il mancato corrispettivo era circostanza nota agli interlocutori in epoca anteriore ai primi contatti con la scuola;

– è fatto notorio che nel Palermitano vi siano decine di scuole parificate che praticano le stesse condizioni ed alle quali il personale si sarebbe potuto rivolgere liberamente;

– l’assunzione da parte della scuola non è l’unica modalità per maturare punteggio valevole per la graduatoria della scuola pubblica;

– la finalità di chi si rivolgeva all’indagata per l’assunzione era il conseguimento del punteggio piuttosto che della retribuzione;

– le dichiarazioni della persona offesa, tal B.B., non sono state correttamente comprese ed in ogni caso avrebbero dovuto essere soggette a valutazione di attendibilità, del tutto omessa da parte del giudice per le indagini preliminari.

Si deve ulteriormente considerare – sempre secondo la prospettazione del ricorrente – che la ricerca del punteggio scolastico non costituisce un elemento strutturale dello stato di bisogno, quanto l’obbiettivo principale della scelta di insegnamento nell’istituto privato da parte del lavoratore. Inoltre, la paventata crisi economica ed occupazionale del territorio è un argomento spurio, atteso che nessuna delle persone informate ve ne aveva fatto riferimento esplicito e perché la crisi occupazionale è situazione ‘tipica dell’intera società statale’ (pg. 9), a differenza dello stato di bisogno che, invece, deve riferirsi al singolo lavoratore; da tale operazione ermeneutica consegue – sempre secondo la prospettazione difensiva – l’indebita estensione della fattispecie. È mancata, quindi, una seria analisi dello stato di bisogno e dello sfruttamento, tanto in linea generale che in relazione a ciascun lavoratore in particolare.

2.3 Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione alla seconda imputazione ascritta alla A.A.

Pur avendo il Tribunale delimitato l’ambito delle estorsioni a sei ipotesi in cui i lavoratori sarebbe stati minacciati, a rapporto in corso, del mancato rinnovo del contratto nel caso non avessero restituito in tutto o in parte la retribuzione, occorre evidenziare che in nessuno dei casi menzionati il dipendente ha dichiarato di aver subito la minaccia del licenziamento. Peraltro, trattandosi di contratti legati all’annualità scolastica, il docente non aveva un diritto al rinnovo contrattuale.

2.4 Con il quarto motivo si lamenta la violazione del’art. 606  lett. b) c.p.p., in relazione agli artt. 15 , 603-bis  e 629  cod. pen.

Il Tribunale ha errato ad escludere il concorso apparente di norme tra i due reati, ritenendo che i due reati possano concorrere in quanto posti a tutela di beni giuridici diversi e ricorrendo un rapporto di eterogeneità strutturale tra gli stessi.

In verità, i due reati non son posti a tutela di due beni giuridici differenti poiché entrambi condividono la identica tutela dell’interesse alla libertà di autodeterminazione della persona.

2.5 Con il quinto ed ultimo motivo di ricorso si lamenta vizio di motivazione (art. 606  lett. e), c.p.p.) in relazione all’art. 274 , lett. a) e c) c.p.p.

In particolare, rispetto al primo profilo, la telefonata intercorsa tra la indagata e la figlia, indicata come parametro di inquinamento probatorio, è irrilevante rispetto ad esso, in quanto successiva alla richiesta cautelare. A ciò si aggiunge che, nelle more, sono intervenuti tanto le dimissioni della indagata dal ruolo apicale nella cooperativa, quanto l’avvio del procedimento di revoca della parità scolastica.

Rispetto all’ulteriore profilo (rischio di recidiva) l’ordinanza è meramente apparente, essendosi basata ” su un generico riferimento alle modalità di commissione del reato.

Motivi della decisione

1.L’impugnato provvedimento va annullato, senza rinvio in relazione al reato di cui all’art. 603-bis cod. pen. perché il fatto non sussiste e con rinvio al Tribunale di Palermo in relazione al reato di cui all’art. 629 , primo e secondo comma, cod. pen. per nuovo giudizio sul punto.

2. In relazione al primo motivo di ricorso, la Corte condivide la doglianza della difesa dell’imputata che ravvisa nella misura cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari di Termini Imerese una carenza radicale di motivazione, non sanabile dall’intervento del Tribunale di Palermo, che pure ha respinto l’eccezione di nullità formulata sul punto dall’istanza di riesame.

Come evidenziato in ricorso e riscontrato dall’esame dell’atto, il provvedimento genetico è costituito nelle prime 45 pagine, dalla trasposizione con la tecnica del copia-incolla della richiesta cautelare, seguita da meno di mezza pagina (19 righe, a pg. 46) di argomentazioni stereotipate e prive di riferimenti specifici vuoi ai singoli indagati ed al rispettivo ruolo, vuoi a singoli episodi o ad aspetti salienti della vicenda.

Tale apparato motivazionale è stato ritenuto dall’impugnata ordinanza del Tribunale del riesame, sufficiente ad integrare una motivazione per relationem, ed in particolare “per incorporazione” (virgolettato e corsivo nell’originale, pg. 4, n.d.r.), attesa l’adeguatezza ed autonomia della valutazione sia sul versante della gravità indiziaria che delle esigenze cautelari, assolvendo così agli oneri motivazionali imposti dalla giurisprudenza di legittimità (vengono indicate come precedente, le sent. n. 8323/2016 e n. 16169/21 di questa Corte).

La Corte ritiene che la valutazione espressa dal Tribunale sul punto non sia corretta.

In primo luogo, i precedenti citati vanno correttamente intesi.

In particolare, il primo dei due precedenti (Sez. 1, n. 8323 del 15/12/2015, dep. 2016, Cosentino, Rv. 265951 – 01) chiarisce che nel provvedimento cautelare è consentito il rinvio alla richiesta del pubblico ministero, ma limitatamente all’esposizione dei presupposti di fatto del provvedimento. Per contro, nella decisione citata si enfatizza che dall’ordinanza cautelare dovrà emergere pur sempre il giudizio critico del giudice sulle ragioni che giustificano l’applicazione della misura cautelare, vale a dire l’effettiva valutazione della vicenda da parte del giudicante. In difetto, viene a mancare l’essenza del ruolo di controllo che, nella fase cruciale delle indagini, è assegnato al giudice per le indagini preliminari.

Quanto al secondo arresto (Sez. 4, n. 16169 del 15/04/2021, Maranghi, Rv. 281037 – 01), si ribadisce che lo standard valutativo sopra indicato possa essere soddisfatto motivando per relationem gli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini e segnalati dalla richiesta del pubblico ministero, purché si dia altresì conto del proprio esame critico dei predetti elementi e delle ragioni per cui li si ritenga idonei a supportare l’applicazione della misura (cfr., altresì, Sez. 3, n. 35296 del 14/4/2016, Elezi, Rv. 268113). Così circoscritto il perimetro del rinvio per relationem, la Corte ritiene che, a dispetto della valutazione fattane dal Tribunale di Palermo, il provvedimento genetico del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Termini Imerese sia radicalmente affetto da apparenza motivazionale proprio in quella parte che dovrebbe costituire l’imprescindibile quintessenza della valutazione giudiziale, cioè l’esame critico degli elementi fattuali, anche se eventualmente introdotti nell’ordinanza col meccanismo dell’incorporazione.

Il Collegio giunge a tale conclusione perché, al di là della stringatezza (19 righe di valutazione a fronte della trasposizione en bloc di 45 pagine di esiti di indagini), è proprio la modalità espressiva, fondata su frasi standardizzate e tralatizie, che tradisce una operazione valutativa effettuata in termini del tutto generici e che omette di focalizzarsi sui ruoli specifici degli indagati, sui singoli elementi di prova, sulla sussistenza degli elementi del reato e su ogni altro aspetto rilevante. Con tali premesse, il ricorso a frasi assiomatiche svuota – in termini inaccettabili – il giudizio della sua valenza di vaglio critico del materiale probatorio.

È quindi necessario che lo sforzo motivazionale venga esercitato compiutamente, con conseguente obbligo di rinvio al Tribunale di Palermo per la integrazione motivazionale.

3. Il nuovo giudizio sul materiale probatorio non dovrà riguardare l’intera imputazione, essendo il primo capo di imputazione (relativo al reato ex art. 603-bis c.p.) destinato a cadere definitivamente fin da questa fase.

Vi è, infatti, un aspetto che porta ad escludere la sussistenza della fattispecie ipotizzata dalla pubblica accusa e che, se anche non sollevata dalla difesa, appartiene al devoluto poiché riguarda il punto della decisione (contestato con il secondo motivo) attinente alla responsabilità penale dell’imputata per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, campo di indagine abbondantemente arato nel ricorso ed ancor prima nell’istanza di riesame. Non v’è, quindi, ostacolo all’esercizio dei poteri ufficiosi di qualificazione giuridica della fattispecie da parte della Corte, che sussisterebbe per contro nell’ipotesi in cui il punto non fosse stato in precedenza devoluto (Sez. 5, n. 48416 del 06/10/2014, Dudaiev, Rv. 261029 – 01).

Il tema riguarda la possibilità di configurare il reato previsto e punito dall’art. 603-bis  c.p. in relazione ai rapporti contrattuali ed al tipo di attività lavorativa descritta nel capo di imputazione.

Occorre soffermarsi sulla genesi della norma (art. 603-bis  c.p.), introdotta con un decreto-legge (art. 12  D.L. 13 agosto 2011, n. 138 , convertito poi dalla L. 14 settembre 2011, n. 148  recante misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) quale risposta al sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo soprattutto nelle campagne meridionali, che aveva dato luogo, quale immediato antefatto, allo sciopero dei lavoratori migranti occupati come braccianti nell’area di N. Senza necessità, in questa sede, di ripercorrere l’intero iter storico (che trova compiuta esposizione in sentenze di questa Corte come la Sez. 4, n. 45615 del 11/11/2021, Mazzotta, Rv. 282580 – 02), è opportuno ricordare che inizialmente tale attenzione all’esigenza di reprimere il fenomeno del caporalato nel mercato del lavoro dei braccianti agricoli si esprimeva in una norma strutturata solo sulla fattispecie specifica dell’intermediazione illecita e che solo a distanza di cinque anni, con disposizione inserita in una legge dedicata al settore agricolo (art. 1, 1.199/2016 contenente “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”) fu ampliata e ristrutturata per ricomprendervi altresì le condotte di chi direttamente “utilizza, assume o impiega manodopera … sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.

Né si può dire che la norma possa essere estesa per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore. Vi ostano non tanto il divieto di interpretazione analogica nel settore penale, quanto la collocazione della disposizione ed il testo stesso della norma. Sotto il primo profilo, la disposizione, nella specifica declinazione applicata nel caso concreto, è stata introdotta da una legge mirata al “contrasto ai fenomeni … dello sfruttamento del lavoro in agricoltura” ed è inserita in un tessuto normativo costituito da reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone vive (oltre che prostituzione e pornografia minorile), vale a dire reati che colpiscono, su una scala elevatissima, la “personalità” individuale, fino al punto di annullarla.

Infine, e soprattutto, è il dato testuale a precludere l’applicazione della norma a categorie dì lavoro che avvalendosi di prestazioni intellettuali, esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo o artigianale o industriale. La norma infatti si riferisce al reclutamento o all’utilizzazione di ‘manodopera’, termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro privo di qualificazione (tanto che, ove le qualità manuali e realizzative aumentino, si parla di “manodopera specializzata”), nome collettivo all’interno del quale l’individuo e le sue capacità perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere. Tutto ciò è estraneo al lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata che nella libera professione, poiché l’intelletto ed il suo uso costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera.

4. A tale errore prospettico, se ne aggiungono di ulteriori che attengono ad aspetti specifici, non parendo affatto soddisfatti nella fattispecie concreta gli elementi costitutivi dello stato di bisogno e dello sfruttamento dei lavoratori.

Sotto il primo aspetto, si ritiene che non vada oltre la generica considerazione sociologica, inutilizzabile in questa sede per la sua vaghezza, l’identificazione dello stato di bisogno nel ‘generale contesto di crisi occupazionale’ (pg. 9).

Quanto allo sfruttamento delle vittime del reato il Tribunale avrebbe dovuto verificare, alla luce dell’orario giornaliero estremamente contenuto svolto da ciascuno degli assunti ed alla circostanza, evidenziata in motivazione (pg. 8), che ai fini del punteggio conti il numero delle giornate lavorative a dispetto delle ore di servizio, se, come si allude nel ricorso, la sottoscrizione dei contratti non corrispondesse ad una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato.

5. Per le sopra esposte ragioni, il fatto descritto nel capo 1 non sussiste, non essendo presente nei suoi elementi costitutivi di base. Conseguentemente, all’annullamento dell’ordinanza sul punto non seguirà il rinvio per nuova decisione al Tribunale di Palermo mentre va dichiarata fin d’ora la cessazione parziale della misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei confronti di A.A. in relazione al capo 1).

6. In relazione al terzo motivo di ricorso ed alla imputazione per estorsione, la Corte ritiene, per contro, non corretta la prospettazione difensiva che tende ad escludere il reato per il solo fatto che i docenti fossero perfettamente consapevoli delle condizioni contrattuali fin da epoca anteriore alla sottoscrizione dei contratti e, d’altro canto, non fossero esposti al rischio di licenziamento, trattandosi di rapporti necessariamente temporanei, in quanto collegati alla annualità scolastica.

Su quest’ultimo punto, si è infatti recentemente ribadito che integra il delitto di estorsione la condotta di chi, avendo la possibilità di intervenire sul rinnovo dei contratti a termine dei dipendenti di una cooperativa, per costringere questi ultimi a soddisfare richieste illecite, minacci di interferire negativamente sulla decisione di rinnovare tali contratti, senza che ciò trovi alcuna giustificazione sul piano delle scelte aziendali (Sez. 2, n. 11123 del 18/01/2024, Amideo, Rv. 286160 – 02).

7. Assorbito il quarto motivo di ricorso, in ragione dell’unica imputazione superstite, l’annullamento in relazione all’imputazione estorsiva (capo 2) va disposto con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo, che dovrà limitarsi a riformulare la valutazione concernente le esigenze cautelari (quinto motivo) anche alla luce del mutato quadro dell’accusa.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata in relazione al capo 1 (art. 603-bis  cod. pen.) perché il fatto non sussiste. Dichiara la cessazione parziale della misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei confronti di A.A. in relazione al capo 1), mandando la cancelleria a comunicare immediatamente il presente dispositivo al Procuratore Generale in sede per i provvedimenti occorrenti ai sensi dell’art. 626  cod. proc. pen. Annulla l’ordinanza impugnata nei confronti di A.A. limitatamente al capo 2 (art. 629 , commi 1 e 2 cod. pen.) e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo competente ai sensi dell’art 309 , comma 7, cod. proc. pen.

Sfruttamento del lavoro intellettuale: non configurabile il reato di caporalato
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