La condotta della lavoratrice che ometta di contabilizzare gli scontrini, incassando il corrispettivo della merce, integra una giusta causa di licenziamento.
Nota a Cass. (ord.) 12 dicembre 2024, n. 32137
Francesca Albiniano
La condotta della lavoratrice che ometta di contabilizzare gli scontrini, incassando il corrispettivo della merce, integra una giusta causa di licenziamento.
In questi termini si esprime la Corte di Cassazione (ord, 12 dicembre 2024, n. 32137) in merito al caso di un’operatrice pluriservizio presso il punto vendita autostradale Sarni di san Nicola Est, la quale aveva impugnato il licenziamento comminatole per motivi disciplinari, con lettera del 16 gennaio 2018, per aver omesso, in plurime occasioni, la contabilizzazione (ossia aveva omesso di ‘battere gli scontrini’) di prodotti venduti, pur incassando regolarmente il corrispettivo della merce, deducendo di non aver mai posto in essere le condotte oggetto di contestazione.
La pronuncia si pone in linea con la Corte d’appello di Napoli, secondo cui nella fattispecie (pagamenti di taluni prodotti acquistati dai cd. mistery client senza che, per contro, venisse battuto il relativo scontrino) “appare evidente che la condotta tenuta dalla lavoratrice integri una giusta causa di recesso ove si consideri, innanzitutto, che le mansioni di cassiera si connotano intrinsecamente per un alto grado di fiducia che il datore deve poter riporre nel proprio dipendente, attesa la delicatezza dell’attività di maneggio del denaro e la sua essenzialità per il proficuo andamento dell’attività aziendale nonché che l’omessa battitura degli scontrini è risultata non un fatto isolato, bensì più volte ripetuto già solo nella stessa giornata … nell’arco di un minimo intervallo temporale ispezionato; ciò lascia emergere una cosciente condotta intenzionale della lavoratrice”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 dicembre 2024, n. 32137
Lavoro – Impugnazione licenziamento per motivi disciplinari – Omissione di contabilizzazione scontrini – “Mistery client” – Inammissibilità
Rilevato che
1.Con ricorso ex art. 1, comma 48, l. 92/2012 A.P., premesso di aver lavorato dal 22 febbraio 2014 alle dipendenze della M. s.r.l., quale operatore pluriservizio presso il punto vendita autostradale Sarni di san Nicola Est, impugnava il licenziamento comminatole per motivi disciplinari, con lettera del 16 gennaio 2018, per aver omesso, in plurime occasioni, la contabilizzazione (ossia aveva omesso di ‘battere gli scontrini’) di prodotti venduti, pur incassando regolarmente il corrispettivo della merce, deducendo di non aver mai posto in essere le condotte oggetto di contestazione.
2. Con sentenza n. 2015/2021, pubblicata in data 23.07.2021, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rigettava l’opposizione proposta dalla M. s.r.l. avverso l’ordinanza del 08.04.2019, che, all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento.
3. La Corte di appello di Napoli con sentenza n. 902/2022, in accoglimento del reclamo proposto dalla società rigettava la domanda della P.
4. La Corte d’appello, in particolare, “considerata la decisività della prova orale raccolta – siccome i testi escussi erano personalmente presenti sui luoghi e nei momenti di consumazione dei fatti storici oggetto dell’addebito mosso alla lavoratrice” valutava positivamente l’attendibilità dei testi escussi sulla base di “elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite)”, e, dunque, affermava che “La certezza – desunta dalla prova orale dei testimoni oculari dei fatti – circa l’avvenuto pagamento di taluni prodotti acquistati dai cd. mistery client senza che, per contro, venisse battuto il relativo scontrino rende assolutamente sufficiente la prova orale senza che sia necessario pretenderne un riscontro documentale -peraltro diabolico – attraverso l’esame dell’inventario dei prodotti presenti nel punto vendita alla data degli acquisti”.
In relazione alla valutazione di gravità dell’addebito “confermava” quella “espressa in primo grado ai fini della sussistenza della giusta causa, accertamento che in ogni caso non è stato neppure contestato dalla P. sì da ritenersi coperto da giudicato interno”.
In ogni caso riteneva che “la condotta tenuta dalla P. integri una giusta causa di recesso ove si consideri, innanzitutto, che le mansioni di cassiera si connotano intrinsecamente per un alto grado di fiducia che il datore deve poter riporre nel proprio dipendente attesa la delicatezza dell’attività di maneggio del denaro e la sua essenzialità per il proficuo andamento dell’attività aziendale nonché che l’omessa battitura degli scontrini è risultata non un fatto isolato, bensì più volte ripetuto già solo nella stessa giornata del 27.11.2017 nell’arco di un minimo intervallo temporale ispezionato; ciò lascia emergere una cosciente condotta intenzionale della lavoratrice.
Siffatta condotta è di per sé solo idonea a recidere irrimediabilmente il vincolo fiduciario”.
5. Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione la P. affidato a tre motivi.
6. La M. s.r.l. replica con controricorso.
7. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Considerato che
1.Con il primo motivo di ricorso A.P. lamenta, ex art. 360 comma 1 n. 5, “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’effettività del controllo ispettivo e genuinità del relativo rapporto ispettivo e alla conseguenziale effettiva sussistenza degli addotti acquisti, ad opera degli operatori della L.S., dei prodotti per i quali è stata contestata alla lavoratrice la mancata battitura dello scontrino”.
Deduce che il giudice del reclamo, contrariamente a quanto effettuato in primo grado, aveva del tutto apoditticamente ritenuto provato lo svolgimento dell’attività di controllo da parte del personale della L.S., nonostante tale circostanza, così come l’effettivo acquisto dei prodotti in contestazione, fosse stata contestata dalla P. sulla base di una serie di anomalie emergenti dai rapporti investigativi redatti dalla società L.S. incaricata dal datore di lavoro.
La ricorrente evidenzia che ove il giudice del reclamo non avesse omesso di esaminare il fatto presupposto (l’effettiva presenza degli operatori della L. nei momenti di presunta consumazione dei fatti addebitati) dandolo, illegittimamente, per pacifico, avrebbe dovuto valutare negativamente l’idoneità delle dichiarazioni dei testi a conferire efficacia probatoria ai rapporti ispettivi, i quali costituivano scritti provenienti da terzi.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, ex art. 360 n.3 c.p.c., la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 116 c.p.c. ed all’art. 5, l. n. 604/1966” per aver considerato, in assenza di apprezzamento critico, le mere dichiarazioni del terzo come facenti piena prova dei fatti addebitati alla lavoratrice così deducendone, erroneamente, a cascata: che gli operatori della L. fossero presenti “sui luoghi e nei momenti di consumazione dei fatti” e che, quindi, fossero “testimoni oculari” di fatti storici mai provati; la valenza di mero “dettaglio” delle circostanze fondamentali per consentire alle dichiarazioni del terzo di acquisire il pieno valore probatorio e la conseguenziale attendibilità degli operatori escussi quali testi, in contrasto con quanto statuito dal giudice di prime cure”.
In particolare, lamenta che il giudice del reclamo avrebbe considerato come facenti piena prova i rapporti ispettivi, i quali anche quando sono corredati da allegazione di riproduzioni meccaniche si considerano prove atipiche, peraltro formate nell’interesse della parte.
Anche in relazione alle dichiarazioni contenute nei rapporti ispettivi della L. evidenziava “anomalie” consistenti ad es. nell’identica descrizione fisica della lavoratrice cui venivano addebitati i fatti oggetto di contestazione.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 324 c.p.c.” ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato di confermare “la valutazione di gravità dell’addebito già espressa in primo grado ai fini della sussistenza della giusta causa, accertamento che in ogni caso non è stato neppure contestato dalla P. sì da ritenersi coperto da giudicato interno”, nonostante il giudice di primo grado non avesse affatto accertato la gravità dell’addebito, limitandosi a chiarire, in via generale e di principio, la portata non vincolante della non previsione della condotta contestata tra le ipotesi di giusta causa di licenziamento nella normativa contrattuale.
Deduceva che, in assenza di pronuncia sul punto, non sussisteva alcun onere per la lavoratrice di impugnare la sentenza di primo grado.
4. I primi due motivi di ricorso sono inammissibili.
Essi, infatti, nonostante il formale richiamo al vizio di omesso esame di un fatto decisivo e di violazione di norme di legge, si risolvono nella denuncia di una errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.
5. Occorre, infatti, ribadire che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
La norma, dunque, attiene all’omesso esame di un fatto da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo.
Anche l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 17005 del 20/06/2024, Rv. 671706 – 01; Cass. Sez. Un. n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831 – 01; Cass. n. 22397 del 06/09/2019, Rv. 655413 – 01).
La valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al vizio previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (ex multis Cass. n. 20553 del 19/07/2021, Rv. 661734 – 01).
6. La doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è, poi, ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Si veda Cass. Sez. Un. n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; Cass. n. 6774 del 01/03/2022, Rv. 664106 – 02).
Il ricorso per cassazione conferisce, infatti, al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 331 del 13/01/2020, Rv. 656802 – 01).
7. Nel caso di specie, la censura non configura il vizio di omesso esame di un fatto, né la violazione degli artt. 116 c.p.c. e 5 della l. n. 604/1966, nel senso sopra precisato, lamentandosi piuttosto una (asserita) non corretta valutazione da parte della Corte territoriale delle risultanze istruttorie al fine di ritenere provata “l’effettività del controllo ispettivo”, circostanza dalla quale si è poi tratta la valutazione di attendibilità dei testi escussi e la conseguenziale prova in ordine al verificarsi dei fatti oggetto della contestazione disciplinare.
In altri termini quello che la ricorrente lamenta è che la Corte napoletana, a differenza del giudice di primo grado, avrebbe apoditticamente affermato l’attendibilità dei testi (i dipendenti della L.S., società incaricata dalla M. s.r.l. ad effettuare i controlli ispettivi presso il punto vendita ove prestava lavoro la P.) in ragione della loro effettiva presenza “sui luoghi e nei momenti di consumazione dei fatti storici oggetto dell’addebito mosso alla lavoratrice”, così qualificandoli come “testimoni oculari”, in difetto di prova circa l’effettivo svolgimento dei controlli.
Quanto, poi, alla censura relativa alla pretesa attribuzione da parte della Corte d’appello del valore di “prova legale” ai rapporti redatti dai medesimi dipendenti della L.S. all’esito dei controlli, ancora una volta essa mira a criticare la valutazione del complessivo quadro istruttorio da parte del giudice di secondo grado, il quale ha ritenuto, con giudizio insindacabile in questa sede, che tali dichiarazioni scritte, provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti, risultassero idoneamente convalidate attraverso la testimonianza ammessa ed assunta nei modi di legge (cfr. Cass. n. 24976 del 23/10/2017, Rv. 645941 – 01) e che, dunque, dall’esame congiunto di tali rapporti e delle dichiarazioni rese in sede di escussione testimoniale emergesse la prova degli addebiti ossia che la P. avesse effettivamente omesso di “battere” lo scontrino pur a fronte dell’acquisto di prodotti da parte dei “mistery client”.
8. Al riguardo va evidenziato che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.
È, pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass. n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328-01; Cass. n. 21187 del 08/08/2019, Rv. 655229 – 01).
9. Nella specie la Corte d’appello ha valutato “l’effettività dei controlli ispettivi” nel contesto dell’ampia motivazione svolta in relazione all’attendibilità dei testimoni ove si è tenuto conto di tutti gli “elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), a sostegno della veridicità delle dichiarazioni rese e ciò, ovviamente, sia in relazione all’esecuzione dei controlli e dunque alla presenza dei dipendenti della L.S. all’interno del punto vendita che ai fatti oggetto della contestazione disciplinari, ossia “l’avvenuto pagamento di taluni prodotti acquistati dai cd. mistery client senza che, per contro, venisse battuto il relativo scontrino”.
10. Quanto al terzo motivo, al di là della non correttezza dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata circa l’avvenuta formazione del giudicato interno in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce del consolidato orientamento di questa Corte – secondo il quale il giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo della sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente, e non sussiste nei riguardi di una mera argomentazione, ossia della semplice esposizione di un’astratta tesi giuridica, anche quando sia utile a risolvere questioni strumentali all’attribuzione del bene controverso (cfr. Cass. n. 27246 del 21/10/2024, Cass. n. 20951 del 30/06/2022, Rv. 665289-01) – va ricordato il principio consolidato, secondo cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l’annullamento della sentenza (si veda Cass. n. 17182 del 14/08/2020, Rv. 658567 – 01; Cass. n. 10815 del 18/04/2019; Cass. n. 7499 del 15/03/2019; Cass. n. 15399 del 13/06/2018; Cass. n. 9752 del 18/04/2017; Cass. n. 2108 del 14/02/2012, n. 2108; Cass. n. 22753 del 03/11/2011).
11. Nel caso di specie, la Corte d’appello, dopo aver affermato che il giudice di primo grado aveva già espresso una valutazione di gravità dell’addebito ai fini della sussistenza della giusta causa e che, non avendo la P. contestato tale accertamento, esso doveva ritenersi coperto da giudicato interno, ha compiutamente esaminato il profilo della idoneità della condotta accertata a ledere il vincolo fiduciario e dunque integrare la giusta causa del licenziamento, affermando che “appare evidente che la condotta tenuta dalla P. integri una giusta causa di recesso ove si consideri, innanzitutto, che le mansioni di cassiera si connotano intrinsecamente per un alto grado di fiducia che il datore deve poter riporre nel proprio dipendente attesa la delicatezza dell’attività di maneggio del denaro e la sua essenzialità per il proficuo andamento dell’attività aziendale nonché che l’omessa battitura degli scontrini è risultata non un fatto isolato, bensì più volte ripetuto già solo nella stessa giornata del 27.11.2017 nell’arco di un minimo intervallo temporale ispezionato; ciò lascia emergere una cosciente condotta intenzionale della lavoratrice.
Siffatta condotta è di per sé solo idonea a recidere irrimediabilmente il vincolo fiduciario”. La sentenza, dunque, configura una pronuncia basata su due distinte “rationes decidendi”, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere della ricorrente, nella specie non assolto, di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso (Cass. n. 10815 del 18/04/2019, Rv. 653585 – 01).
12. Il ricorso, in conclusione, va dichiarato inammissibile.
13. La ricorrente va condannata alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente liquidate come da dispositivo.
14. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13. (ndrcomma 1-bis dello stesso art. 13)
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso, condanna la ricorrente P.A. al pagamento, in favore di M. s.r.l., delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13. (ndr ’comma 1-bis dello stesso art. 13)