Nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata non ha efficacia di giudicato la sentenza penale di assoluzione in seguito a dibattimento.
Nota a Cass. (ord.) 29 novembre, n. 30748
Massimo Citerni di Siena
“La sentenza penale di assoluzione in seguito a dibattimento non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel caso in cui non ricorra, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale, “in quanto l’art. 653 comporta l’efficacia di giudicato di tale sentenza (quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso) solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al “giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità”.
Questa, l’affermazione della Corte di Cassazione (ord.) 29 novembre, n. 30748 (conf. nn. 7250 /1999 e 10521/1998).
Ciò comporta che il giudice del lavoro, adito con impugnativa del licenziamento, ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale; e, anche laddove tale procedimento sia irrogato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, “non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore”.
Quanto alla valutazione della gravità della condotta del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, il giudice deve operarla alla stregua della “ratio” degli artt. 2119 c.c. e 1, L. 15 luglio 1966 n.604, vale a dire: “tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 novembre 2024, n. 30748
Rilevato che
1.La Corte d’Appello di Bologna ha riformato la sentenza del Tribunale di Bologna, che aveva rigettato la domanda del lavoratore B.L. volta a ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa e la conseguente reintegra nel posto di lavoro presso la società H. S.r.l.
2. La Corte d’Appello ha accertato l’illegittimità del licenziamento alla luce del giudicato nel parallelo procedimento penale, recante l’assoluzione del lavoratore per insussistenza del fatto che spiegava effetti diretti ai sensi dell’art. 653 c.p.p.
La Corte ha osservato che, nonostante il Tribunale avesse ritenuto legittimo il licenziamento sulla base delle risultanze del procedimento disciplinare e delle prove raccolte, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione del lavoratore, fondata sull’insussistenza dei fatti contestati, precludeva una diversa valutazione in sede disciplinare.
Di conseguenza, ha ordinato la reintegra del lavoratore, con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria pari a dodici mensilità della retribuzione globale.
3. Per la cassazione della predetta sentenza propone ricorso la società H. s.r.l. con 3 motivi, cui resiste con controricorso, il L.
Entrambe le parti hanno depositato memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza.
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso, la società H. S.r.l. deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione del diritto di difesa e del contraddittorio, con riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., art. 6 della CEDU, e art. 47 della CDFUE, in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata.
In particolare, la società lamenta che la Corte di Appello di Bologna avrebbe violato le regole del contraddittorio decidendo la causa in via cartolare, mentre avrebbe dovuto disporre un rinvio per consentire una discussione orale, avendo precedentemente espunto le note scritte depositate dalla società.
Ed infatti, considerato il testo dell’art. 221, comma 4, del d.l. 34/2020, che disciplina le modalità del processo durante l’emergenza sanitaria da COVID-19, l’omesso deposito di note scritte nel termine impone al giudice l’adozione di un provvedimento di rinvio, ai sensi dell’art. 181 c.p.c.; nel caso di specie, l’avere espunto le note scritte di entrambe le parti, poiché tardivamente depositate, costituiva senz’altro, nella prospettazione difensiva, circostanza equiparabile all’omesso deposito, così imponendo il rinvio dell’udienza.
5. Con il secondo motivo, la società H. S.r.l. deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 653 c.p.p. (sugli effetti del giudicato penale nei giudizi civili o amministrativi).
La ricorrente sostiene che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente applicato la disposizione dell’art. 653 c.p.p., considerando vincolante, ai fini del giudizio disciplinare, la sentenza penale di assoluzione del lavoratore B.L.
Ed infatti, secondo il dispositivo dell’art. 653 c.p.p., deduce la ricorrente, gli effetti vincolanti del giudicato penale riguardano solo i processi nella materia del pubblico impiego, mentre nel caso di specie, il rapporto di lavoro era di natura privatistica.
Osserva inoltre la ricorrente che, non essendosi costituita la società datoriale parte civile nel processo penale, la Corte d’Appello, invece di applicare gli effetti della sentenza penale assolutoria, avrebbe dovuto esaminare autonomamente le prove raccolte in sede disciplinare, poiché il procedimento disciplinare e il processo penale hanno criteri e finalità diversi.
6. Con il terzo motivo, la società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio.
La Corte d’Appello, nonostante la difesa avesse costantemente contestato l’importo indicato da controparte (euro 6.689,80), non avrebbe tenuto conto delle contestazioni recependo la quantificazione indicata dal lavoratore senza adeguata valutazione delle prove e delle buste paga prodotte dalla società, determinando così un danno economico significativo per la stessa.
7. Il primo motivo di ricorso, come formulato, è inammissibile.
Con tale motivo, infatti, deducendo il ricorrente un vizio di nullità afferente l’attività svolta nel processo ascrivibile al paradigma dell’error in procedendo ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., risulta inosservante del canone dell’autosufficienza del ricorso per cassazione di cui all’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., quale requisito di contenuto-forma nell’esposizione dei motivi di impugnazione che ne condiziona l’ammissibilità.
Il principio, riflesso della necessaria specificità, completezza, chiarezza e precisione dei motivi di impugnazione in sede di legittimità (ex multis Cass. n.18722 del 2016), ha trovato applicazione nella sua rigorosa estensione anche ai casi di motivi d’appello (Cass. n. 2143 del 2015; Cass. n. 12664 del 2012; Cass. n. 86 del 2012), di violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 8008 del 2014), di mancata pronuncia su motivi di gravame (Cass. n. 17049 del 2015; Cass. n. 26155 del 2014).
Né può soccorrere alla parte ricorrente la qualificazione giuridica del vizio lamentato come error in procedendo, in relazione al quale la Corte è anche “giudice del fatto”, con la possibilità di accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito.
Invero questa corte ha da tempo chiarito (cfr. Sez. L, Sentenza n. 15367 del 04/07/2014), nel solco della giurisprudenza relativa all’onere di specificazione dei motivi di ricorso cui è necessario il ricorrente adempia per non snaturare la funzione del giudice della legittimità, che nel caso siano dedotti “errores in procedendo”, “è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia (attesa) si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, “in primis”, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi”.
In altre parole, ove, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, di un’ipotesi di “error in procedendo” per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi. (Sez. L, Sentenza n. 15367 del 04/07/2014).
Nella specie, parte ricorrente ha omesso di trascrivere il contenuto degli atti che richiama, né di parte (memorie di c.d. “trattazione scritta” espunte o altri atti da cui emergesse, eventualmente, la richiesta di discussione orale; neppure risulta trascritto il provvedimento del giudice (di cui in sostanza si duole) impedendo così di esaminare la fondatezza dei rilievi essendo precluso alla Suprema Corte la disamina diretta degli atti processuali.
Tali atti solo genericamente richiamati e non compiutamente descritti non sono neppure “localizzati”, poiché risulta assente ogni indicazione descrittiva sulle modalità concrete della genesi del vizio processuale di cui ci duole, precludendo l’esame compiuto da parte di questa corte.
Il secondo motivo è fondato.
Deve ritenersi non pertinente il richiamo operato, dalla corte di appello, all’art. 653 c.p.p., che riguarda come evidenziato nel motivo di ricorso il rapporto di lavoro del dipendente pubblico (come si evince letteralmente dal dispositivo della norma che prevede, al primo comma “La sentenza penale irrevocabile di assoluzione (( . . . )) ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o (( non costituisce illecito penale ovvero )) che l’imputato non lo ha commesso”.
Come questa corte ha avuto modo di chiarire, giudicando in analoghe vicende (cf. Cass. 09454.23, Cass. civ., sez. lav., 8.8.2022, n. 24452) in relazione al procedimento civile riguardante un licenziamento disciplinare, deve essere applicato l’art. 654 c.p.p., che regola l’ “Efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi”.
Recita tale articolo: “Nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.
Questa Sezione, tuttavia, ha posto in luce che, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., nei giudizi civili o amministrativi non di danno, il giudicato penale di assoluzione non è opponibile a soggetti, che non abbiano partecipato al relativo processo (cfr. Cass. civ., sez. lav., 17.7.2020, n. 15344).
Risulta quindi costante l’insegnamento per cui la “sentenza penale” di assoluzione in seguito a dibattimento non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel caso in cui non ricorra, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale, “in quanto l’art. 653 comporta l’efficacia di giudicato di tale sentenza (quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso) solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al “giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità”. (Sez. L, Sentenza n. 10752 del 02/12/1996, n. 8896 del 1996, n. 10752 del 1996, 10521 del 1998, n. 1330 del 1999, n. 7250 del 1999).
Questo comporta che il giudice del lavoro adito con impugnativa del licenziamento, ove pure irrogato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale.
In ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della “ratio” degli artt. 2119 cod.civ. e 1 della legge 15 luglio 1966 n.604, e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali.
Pertanto nel caso di specie la sentenza impugnata deve essere cassata per nuovo giudizio conforme ai suddetti principi.
L’accoglimento del secondo motivo comporta l’assorbimento del terzo.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, dichiarando inammissibile il primo e assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.