Nell’impiego pubblico contrattualizzato, l’art. 2103 c.c. non si applica alla dirigenza medica, poiché gli incarichi dirigenziali equivalenti esprimono la medesima professionalità. Il dirigente medico non ha diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli affidati ad altri dirigenti né a quelli da lui svolti in passato, purché non sia lasciato in sostanziale inattività né assegnato a funzioni estranee alle sue conoscenze specialistiche.
Nota a Cass. (ord.) 11 dicembre 2024, n. 31910
Maria Novella Bettini
La Corte di Cassazione (ord. 11 dicembre 2024, n. 31910) si pronuncia in merito al ricorso di un dirigente medico operante presso un ospedale che esponeva di aver subito un trattamento discriminatorio e vessatorio da parte dei responsabili dell’unità operativa complessa di chirurgia generale del P.O., in ragione: “i) della sistematica esclusione dalle liste dei chirurghi di sala operatoria dove veniva incluso saltuariamente e come secondo o terzo operatore; ii) dell’impiego come primo operatore soltanto in interventi chirurgici di scarsa o media difficoltà o in interventi di piccola chirurgia ambulatoriale; iii) dell’esclusione dalle liste operatorie nei giorni di programmazione straordinaria di interventi di elezione con assegnazione continua ad attività extra-operatorie nelle medesime giornate; iv) dell’assegnazione a turni di pronta disponibilità notturna come primo operatore in media una volta a mese e della costante assegnazione al turno di reperibilità pomeridiano dove di rado si verificavano interventi in urgenza; chiedeva, quindi, previo accertamento della condotta illecita e vessatoria da lui patita dal 2000 al 2008, nonché del demansionamento e della dequalificazione, l’immediata cessazione della stessa e la condanna della ASL al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non, da determinarsi in via equitativa”.;
Nel primo giudizio di merito, il Tribunale di Cassino ha accolto il ricorso dichiarando l’illegittimità del comportamento mobbizzante tenuto dalla AUSL di Frosinone nei confronti del ricorrente e condannando condanna la Ausl al risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione professionale subita dal ricorrente per effetto della accertata condotta dal 1.1.2000 al 14.09.2009 quantificato in via equitativa nella complessiva somma pari ad Euro 131.955,37 oltre accessori come per legge; condannava altresì la Ausl di Frosinone al risarcimento del danno non patrimoniale, per il medesimo periodo, quantificato in via equitativa nella complessiva somma pari ad Euro 13.195,53 oltre accessori come per legge decorrenti dalla data della pronuncia (importi poi corretti, con successiva ordinanza ex art. 288 cod. proc. civ., rispettivamente, in Euro 147.108,04 e Euro 14.710,80).
Successivamente in seguito al ricorso della Ausl di Frosinone, la Corte di appello di Roma (16 novembre 2019) ha riformato la sentenza dr primo grado, escludendo che vi fosse stata “una esclusione mirata del A.A. dagli interventi chirurgici, essendosi piuttosto verificata una distribuzione non paritaria degli stessi tra tutti i medici in servizio (avendo il primario sostanzialmente privilegiato nella programmazione degli interventi i componenti che avevano lavorato con lui nel reparto da cui proveniva, i.e. Ospedale (omissis) di S)”.
Nello specifico, la Corte ha rilevato una frequenza di interventi oscillante da un minimo di 4,90% a un massimo di 7.83%, percentuali che, “seppure inferiori a quelle dei medici provenienti dall’originaria equipe del primario, erano comunque in misura tale da escludere che il A.A. avesse eseguito un numero di interventi nettamente inferiore rispetto a quello che gli sarebbe spettato se gli interventi medesimi fossero stati ripartiti in modo paritario fra tutti i medici in servizio”. Sicché, secondo i giudici, non emergeva alcuna volontà di emarginazione del dirigente medico, ma “semmai di favoreggiamento di alcuni medici” né poteva configurarsi un demansionamento nell’assegnazione di altri compiti (ad es. di ambulatorio, guardia medica o turni di reperibilità) rientranti nel suo bagaglio di conoscenze specialistiche”.
Nel terzo giudizio, la Cassazione, ribadisce, in linea con la Corte distrettuale, che, nell’impiego pubblico contrattualizzato non trova applicazione per la dirigenza medica l’art. 2103 c.c., (v. Cass. n. 4986/18). Ciò, in quanto gli incarichi dirigenziali, sono ritenuti equivalenti dal legislatore, esprimendo la medesima professionalità. Pertanto, il dirigente medico non gode di un “diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli affidati ad altri dirigenti della medesima struttura né a quelli da lui svolti in passato, fermo restando che lo stesso non può essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto” (v. Cass. n. 12623/2022; e Cass. n. 22789/2013).
In particolare, nella fattispecie, rilevano i giudici, le opzioni aziendali erano state condizionate, da “una maggior fiducia, derivante da antica consuetudine professionale, nei confronti di alcuni dei medici del reparto, e non anche da volontà di mortificare la personalità” del ricorrente, il quale, “comunque impiegato in attività ambulatoriale, di guardia medica e anche chirurgica, non era rimasto in uno stato di inattività né assegnato a funzioni svilenti il suo bagaglio di conoscenze specialistiche”.
A fronte del rilievo da parte del medico secondo cui la Corte territoriale avrebbe ignorato la “misera e mortificante media annua rispettivamente di n. 1 intervento importante, di n. 20 interventi di media difficoltà e di n. 13 interventi semplici”, con un media di interventi di molto inferiore a quella generale di 87 pro capite contro i soli 37 pro capite del ricorrente”, la Cassazione ha ritenuto non invocabile il controllo sulla motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.) poiché “l’esame delle prove, la decisione sull’attendibilità e la concludenza delle stesse, la scelta fra le risultanze probatorie di quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione sono riservati al giudice del merito ed il giudice di legittimità non può effettuare una revisione del ragionamento decisorio, posto che il potere conferitogli dal legislatore si arresta qualora il fatto, nel senso sopra indicato, sia stato preso in esame e la motivazione sia priva di aspetti di incoerenza e di illogicità”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 11 dicembre 2024, n. 31910
Svolgimento del processo
1.il dr. A.A., medico chirurgo presso l’Ospedale (omissis) di S, esponeva di essere vittima di comportamenti discriminatori e vessatori da parte dei responsabili dell’unità operativa complessa di chirurgia generale del P.O., in ragione: i) della sistematica esclusione dalle liste dei chirurghi di sala operatoria dove veniva incluso saltuariamente e come secondo o terzo operatore; ii) dell’impiego come primo operatore soltanto in interventi chirurgici di scarsa o media difficoltà o in interventi di piccola chirurgia ambulatoriale; iii) dell’esclusione dalle liste operatorie nei giorni di programmazione straordinaria di interventi di elezione con assegnazione continua ad attività extra-operatorie nelle medesime giornate; iv) dell’assegnazione a turni di pronta disponibilità notturna come primo operatore in media una volta a mese e della costante assegnazione al turno di reperibilità pomeridiano dove di rado si verificavano interventi in urgenza; chiedeva, quindi, previo accertamento della condotta illecita e vessatoria da lui patita dal 2000 al 2008, nonché del demansionamento e della dequalificazione, l’immediata cessazione della stessa e la condanna della ASL al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non, da determinarsi in via equitativa;
2. con sentenza n. 288/2016 il Tribunale di Cassino così statuiva: “accoglie la domanda e, per l’effetto, accerta e dichiara l’illegittimità del comportamento mobbizzante tenuto dalla AUSL di Frosinone nei confronti del ricorrente a partire dal 1.1.2000; condanna la Ausl al risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione professionale subita dal ricorrente per effetto della accertata condotta dal 1.1.2000 al 14.09.2009 quantificato in via equitativa nella complessiva somma pari ad Euro 131.955,37 oltre accessori come per legge; condanna altresì la Ausl di Frosinone al risarcimento del danno non patrimoniale, per il medesimo periodo, quantificato in via equitativa nella complessiva somma pari ad Euro 13.195,53 oltre accessori come per legge decorrenti dalla data della presente pronuncia” (importi poi corretti, con successiva ordinanza ex art. 288 cod. proc. civ., rispettivamente, in Euro 147.108,04 e Euro 14.710,80);
3. avverso la citata sentenza la Ausl di Frosinone interponeva gravame dinanzi alla Corte di appello di Roma, la quale, con sentenza depositata il 16.11.19, riformava integralmente la sentenza di primo grado, respingendo tutte le richieste del A.A.;
4. la Corte di merito escludeva, sulla scorta delle risultanze istruttorie, che vi fosse stata “una esclusione mirata del A.A. dagli interventi chirurgici”, essendosi piuttosto verificata una distribuzione non paritaria degli stessi tra tutti i medici in servizio (avendo il primario sostanzialmente privilegiato nella programmazione degli interventi i componenti che avevano lavorato con lui nel reparto da cui proveniva, i.e. Ospedale (omissis) di S);
rilevava che i prospetti riepilogativi e le tabelle prodotte dal ricorrente attestavano una frequenza di interventi che oscillava negli anni da un minimo di 4,90% a un massimo di 7.83%, percentuali che, seppure inferiori a quelle dei medici provenienti dall’originaria equipe del primario, erano comunque in misura tale da escludere che il A.A. avesse “eseguito un numero di interventi nettamente inferiore rispetto a quello che gli sarebbe spettato se gli interventi medesimi fossero stati ripartiti in modo paritario fra tutti i medici in servizio”;
non emergeva una volontà di emarginazione del A.A. ma “semmai di favoreggiamento di alcuni medici” né poteva configurarsi un demansionamento nell’assegnazione di altri compiti (ad es. di ambulatorio, guardia medica o turni di reperibilità) rientranti nel suo bagaglio di conoscenze specialistiche;
5. avverso tale decisione il dirigente medico propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, illustrati da memoria, cui si oppone con controricorso – assistito da memoria – la Asl.
Motivi della decisione
1.con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2087 e 2103 comma 1 cod. civ., 63 D.P.R. 20.12.1979, n. 761, 15 D.Lgs. 30.12.1992, n. 502, 2 D.Lgs. 30.3.2001, n. 165, 7 e 17 del c.c.n.l. Area Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N. del 3.11.2005 e 7 c.c.n.l. Area Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N. del 17.10.2008;
evidenziato che lo stesso giudice d’appello ha ritenuto provata la sottoutilizzazione del ricorrente nonché la mancanza di trasparenza nella assegnazione degli incarichi, si assume che detti elementi dovevano portare a ritenere illecita la condotta e a ravvisare nei fatti quanto meno un demansionamento professionale;
si aggiunge che la liceità della condotta non poteva essere affermata comparando la posizione del A.A. con quella dei dirigenti parimenti demansionati; si rileva ancora che l’attività operatoria è il momento più qualificante del lavoro del chirurgo e ciò può essere ritenuto fatto notorio, con la conseguenza che non poteva essere esclusa l’ingiustificata mortificazione della professionalità del dirigente che dalla attività operatoria era stato arbitrariamente escluso; si richiama, infine, la giurisprudenza di questa Corte, sulla base della quale il giudice d’appello ha deciso la controversia, sostenendo che la Corte distrettuale non ha tenuto conto di tutti i principi in essa enunciati;
1.1 il motivo è inammissibile;
è utile rammentare, a riguardo, che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110);
nella specie, il ricorrente, pur denunciando nella rubrica la violazione di plurime disposizioni di legge e contrattuali, nella sostanza mira a censurare la ricostruzione fattuale compiuta dal giudice del merito che, preso atto dei principi enunciati, sulla base di quel quadro normativo, da Cass. n. 4986 del 2018, ha escluso che nel caso in esame ricorressero, in concreto, le condizioni richieste per la tutela risarcitoria;
richiamando sempre Cass. n. 4986/18 cit., la Corte distrettuale ha rilevato che nell’impiego pubblico contrattualizzato non trova applicazione per la dirigenza medica l’art. 2103 cod. civ., perché gli incarichi dirigenziali, in quanto ritenuti dal legislatore equivalenti esprimono la medesima professionalità, sicché il dirigente medico non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli affidati ad altri dirigenti della medesima struttura né a quelli da lui svolti in passato, fermo restando che lo stesso non può essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto” (Cass. 7.10.2013 n. 22789; v. altresì Cass. n. 12623 del 2022);
nella specie, le scelte aziendali erano state condizionate, secondo i giudici di secondo grado, da una maggior fiducia, derivante da antica consuetudine professionale, nei confronti di alcuni dei medici del reparto, e non anche da volontà di mortificare la personalità del A.A., che, comunque impiegato in attività ambulatoriale, di guardia medica e anche chirurgica, non era rimasto in uno stato di inattività né assegnato a funzioni svilenti il suo bagaglio di conoscenze specialistiche;
vero è che la motivazione si rivela in un singolo passaggio ambigua lì dove (v. pp. 10 – 11 sentenza impugnata), da un lato, ventila una possibile frizione con i principi di correttezza a buona fede e, dall’altro, esclude comunque il risarcimento del danno sulla base di considerazioni non lineari, che fanno leva sull’assenza di finalità vessatorie e di un apprezzabile sacrificio della posizione del A.A. comunque utilizzato, oltre che (sia pur con minor frequenza) in compiti di chirurgia, nei servizi ambulatoriali e di guardia medica, ma il ricorrente non formula, si noti, un’espressa censura ex artt. 132 e 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. di vizio di motivazione;
2. con il secondo motivo si lamenta l’omesso esame circa un fatto o punto decisivo della controversia oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’ art. 360 comma 1, n. 5, cod. proc. civ., rilevabile nel ragionamento e nell’iter logico-giuridico seguito dal giudice d’appello che non avrebbe considerato le risultanze dei registri di sala operatoria e delle tabelle riepilogative degli interventi chirurgici eseguiti dal ricorrente come primo e secondo operatore negli anni dal 2000 al 2009;
le tabelle allegate erano state definite dalla Corte territoriale “poco significative ai fini che ora interessano” con l’inconsistente spiegazione che non riportavano le percentuali degli interventi eseguiti da tutti gli altri medici in servizio; così opinando, la Corte territoriale avrebbe ignorato la “misera e mortificante media annua rispettivamente di n. 1 intervento importante, di n. 20 interventi di media difficoltà e di n. 13 interventi semplici”, con un media di interventi di molto inferiore a quella generale di 87 pro capite contro i soli 37 pro capite del ricorrente;
rileva ancora che il giudice d’appello avrebbe esaminato in modo parziale e circoscritto le risultanze della prova testi di primo grado che ripercorre analiticamente;
2.1 il motivo è inammissibile;
occorre evidenziare che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo risultante all’esito delle modifiche apportate dall’art. 2 del D.Lgs. 2.2.2006 n. 40, consente di denunciare in sede di legittimità l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, che si differenzia dal “punto” perché riguarda un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., (cioè costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo (in tal senso Cass. 8.9.2016 n. 17761);
conseguentemente, non si può invocare il controllo sulla motivazione, consentito dal richiamato art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per sollecitare la Corte ad un’autonoma propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, perché l’esame delle prove, la decisione sull’attendibilità e la concludenza delle stesse, la scelta fra le risultanze probatorie di quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione sono riservati al giudice del merito ed il giudice di legittimità non può effettuare una revisione del ragionamento decisorio, posto che il potere conferitogli dal legislatore si arresta qualora il fatto, nel senso sopra indicato, sia stato preso in esame e la motivazione sia priva di aspetti di incoerenza e di illogicità;
nella specie, la stessa formulazione del motivo lascia trapelare che il giudice d’appello ha preso in esame il fatto (frequenza e importanza degli interventi chirurgici) attribuendo ad esso una lettura differente rispetto a quella propugnata dal ricorrente, il che colloca la censura sul piano dell’apprezzamento fattuale rientrante nel dominio esclusivo del giudice del merito;
3. conclusivamente, il ricorso deve dichiararsi inammissibile, con addebito delle spese del giudizio di legittimità alla parte soccombente.
P.Q.M.
La Corte: dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in Euro. 5.000,00 per compensi, Euro. 200,00 per esborsi, oltre 15% di rimborso spese forfettario ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.