La scelta datoriale di sopprimere un determinato posto di lavoro non è sindacabile dal giudice sotto il profilo della congruità ed opportunità. Il giudizio di esclusione della fungibilità con altro prestatore rispetto al dipendente licenziato non va effettuato con riguardo alla natura delle mansioni di fatto svolte ma con riguardo all’eventuale professionalità omogenea.
Nota a Cass. (ord.) 20 gennaio 2025, n. 1364
Flavia Durval
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “il datore di lavoro non è tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale per conservare il posto al lavoratore, ma deve dimostrare solo l’assenza di posti liberi compatibili con la professionalità del dipendente, non potendo il giudice, una volta emersa la prova della soppressione del posto, imporre al datore di mantenere una posizione di lavoro anche inferiore, poiché si sostituirebbe all’imprenditore nel compito di organizzazione aziendale che a lui compete”.
Questo, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (ord. 20 gennaio 2025, n.1364; conf. Cass. n. 23301/2018) in relazione ad una fattispecie in cui la Corte di Appello dell’Aquila aveva chiarito in maniera argomentata come: a) la professionalità del lavoratore ricorrente presentasse caratteri di unicità nel contesto aziendale (poiché il medesimo era stato assunto per le sue competenze relative al settore del Sud America e per le esigenze aziendali di espansione in quella zona geografica); b) non vi fossero posizioni simili disponibili, né poteva affermarsi l’omogeneità e fungibilità professionale con altri lavoratori del settore export.
I giudici hanno inoltre precisato che:
– “l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore deve necessariamente provare e il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non essendo sindacabile, sotto il profilo della congruità ed opportunità, la scelta datoriale di sopprimere un determinato posto di lavoro” (così, Cass. n. 9127/2018);
– nel caso di specie, non avendo l’azienda soppresso, ma diversamente distribuito la funzione svolta dal ricorrente, il giudizio di esclusione della fungibilità con altro prestatore non doveva essere svolto con riguardo alla natura delle mansioni di fatto svolte, ossia sulla modalità esecutiva, ma con riguardo all’eventuale professionalità omogenea (v. Cass. nn. 9127/2018, cit. e 25192/2016), peraltro esclusa poiché i due dipendenti avevano una qualifica e un inquadramento diversi. Infatti, dopo la soppressione del posto di lavoro del lavoratore licenziato, che era stabilmente ubicato all’estero, le sue mansioni erano state ridistribuite nell’ambito del settore di riferimento senza assumere altro personale, con l’affidamento di parte di esse al direttore della divisione Export, il quale le aveva svolte o direttamente o delegandole ad altri dipendenti gerarchicamente subordinati che operavano dalla sede di Pescara ma a mezzo di intermediari; inoltre, dalla documentazione prodotta era emerso che tutte le posizioni nelle aree compatibili con le competenze del ricorrente (come la Direzione Export e i Servizi Commerciali) fossero occupate al momento del licenziamento, e che dopo il licenziamento non fossero state effettuate assunzioni per la medesima qualifica;
– dal momento che, nella vicenda in esame, dopo il licenziamento, la società non aveva effettuato assunzioni per la stessa qualifica del ricorrente, ciò provava adeguatamente l’impossibilità di repêchage anche in via presuntiva e indiziaria, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 23789/2019 e Cass. n. 12974/2018);
– l’onere di ripescaggio del datore di lavoro si limita alla “dimostrazione dell’inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si spinge a dover creare posizioni nuove o adibire i lavoratori a mansioni diverse dalla professionalità di riferimento” (v. Cass. n. 31520/2019 e Cass. n. 239/2005).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 20 gennaio 2025, n. 1364
Rilevato che
1.La Corte di Appello dell’Aquila, con sentenza n. 914/15, ritenne non giustificato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in data 29 ottobre 2013 dalla F.lli De. di Sa.Fi. Spa a Pi.Pa.
I giudici di appello, pur riconoscendo che il posto di lavoro era stato effettivamente soppresso, ritennero che l’assunzione poche settimane prima del licenziamento di altro lavoratore con mansioni analoghe, comportando un aumento di organico, fosse in contrasto con la asserita volontà datoriale di riduzione dei costi. Pertanto, in applicazione della c.d. tutela indennitaria forte, la corte riconobbe al Pi.Pa. un risarcimento complessivo di Euro 86.832,36.
2. Sui ricorsi per cassazione proposti da entrambe le parti, questa Corte, con sentenza n. 9127 del 2018, cassò la sentenza impugnata in accoglimento del secondo motivo del ricorso incidentale della società, sulla base dell’osservazione per cui l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore deve necessariamente provare e il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non essendo sindacabile, sotto il profilo della congruità ed opportunità, la scelta datoriale di sopprimere un determinato posto di lavoro.
Dichiarò inammissibile per novità il primo motivo di ricorso incidentale della società sul mancato verificarsi della condizione cui sarebbe stata subordinata l’assunzione del Pi.Pa. Rigettò i primi tre motivi e il quinto motivo del ricorso principale del lavoratore, aventi ad oggetto il rigetto della riqualificazione del licenziamento come discriminatorio e/o ritorsivo, il rigetto dell’eccezione di nullità del licenziamento per assenza di motivazione e della violazione del principio di immodificabilità della contestazione, nonché il rigetto della domanda risarcitoria per perdita di chance.
Dichiarò assorbiti tutti i restanti motivi del ricorso principale: il quarto vertente sulla richiesta di applicazione di tutela reintegratoria sul presupposto (all’epoca ancora sub iudice) della manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo; il sesto e il settimo motivo sulla omessa pronuncia in ordine alla violazione dei criteri di selezione indicati dall’art. 5 legge n. 223 del 1991, anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. (e in via subordinata, sul difetto assoluto di motivazione con riguardo ad un capo di sentenza specificamente impugnato); l’ottavo e il nono motivo per omessa pronuncia sul motivo di impugnazione riguardante la violazione dell’obbligo di repêchage (e in via subordinata, sul difetto assoluto di motivazione con riguardo ad un capo di sentenza specificamente impugnato); il decimo e l’undicesimo motivo sulla regolazione delle spese, erroneamente dichiarate compensate.
3. Pronunciando in sede di rinvio, la Corte di appello dell’Aquila, con sentenza n. 647 del 2018, rigettò il reclamo proposto da Pi.Pa., confermando la pronuncia di illegittimità del licenziamento per sole violazioni procedimentali, con applicazione della tutela indennitaria di cui al sesto comma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, come novellato dalla legge n. 92 del 2012, con condanna del lavoratore alla restituzione del differenziale già erogato in esecuzione della originaria sentenza di appello poi cassata e pari ad Euro 38.250,16 lordi (pari al netto di Euro 29.485,59), maggiorata di interessi legali maturati dalla data del pagamento al saldo.
4. La Corte di Appello osservò che il ricorrente era stato assunto come “responsabile vendite Retail” per il mercato del Brasile e del Sud America con il compito di provvedere alla vendita diretta in loco dei prodotti commercializzati dalla società, operando da San Paolo del Brasile a diretto contatto con i clienti finali; che dopo il suo licenziamento tale compito venne svolto dal Direttore Ia.En. a distanza, cioè dalla sede di Pescara, avvalendosi di intermediari; che erano state dimostrate in giudizio sia l’effettività della soppressione della posizione organizzativa rivestita dal Pi.Pa., sia l’assegnazione di parte delle relative mansioni al direttore della divisione export Ia..
La corte, in relazione alla prova del repêchage e sulla dedotta violazione del criterio comparativo di cui all’art. 5 legge n. 223/91, evidenziò che il Pi.Pa. non aveva allegato nulla circa l’esistenza di altre sedi o altri posti rimasti liberi in posizioni e mansioni professionalmente affini o anche inferiori; né aveva contestato il documento di parte opposta secondo cui vi era una stabile occupazione, nei settori “servizi commerciali” e “direzione export”, di tutte le posizioni organizzative ivi presenti; che l’assunzione, poche settimane prima del licenziamento, di Nu.Da., lavoratore con analogo curriculum, comparabile profilo professionale ed equivalenti mansioni di vendita all’estero di prodotti della De., riguardava diverse aree geografiche e differenti modalità di attuazione; e che la posizione del Pi.Pa. non fosse comparabile con quella di altri lavoratori, per quanto qui rileva non del Nu.Da., che era stato assunto per mansioni intrinsecamente diverse. La corte osservò, che, d’altra parte, una volta che il datore sia addivenuto alla determinazione di sopprimere una ben individuata posizione organizzativa, non avente equipollenti nell’organico aziendale, non appaiono sussistenti margini per potere individuare posizioni organizzative alternative dove collocare il dipendente in esubero e che il Pi.Pa. non aveva specificamente allegato concrete circostanze atte a dimostrare l’esistenza, nell’ambito della struttura organizzativa aziendale, di ulteriori posti di lavoro effettivamente disponibili, per mansioni equivalenti e compatibili con la sua professionalità.
La Corte pose in rilievo che, tenuto conto del differente ruolo ricoperto dal Pi.Pa. e dal Nu.Da. e della conseguente infungibilità delle rispettive posizioni lavorative, non poteva essere accolto neppure l’ulteriore motivo secondo cui, quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, ai fini del controllo della conformità della scelta dei lavoratori ai principi di buona fede e correttezza di cui all’art. 1175 cod. civ., non essendo utilizzabile il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né quello della impossibilità di repêchage (appunto per essere le posizioni equivalenti), ben può farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, all’art. 5 della legge n. 223 del 1991, dettato per i licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione in via analogica il criterio dei carichi di famiglia e dell’anzianità.
Pertanto la Corte, riconoscendo la sussistenza del giustificato motivo oggettivo e fermo il giudizio espresso in primo grado in ordine alla violazione della procedura di cui all’art. 7 legge n. 300 del 1970, come novellato dalla legge n. 92 del 2012, ritenne il licenziamento illegittimo solo sotto il profilo procedurale, con la conseguente tutela di cui al comma 6 dell’art. 18 della stessa legge, ossia con applicazione della indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
5. Sul ricorso per cassazione proposto da Pi.Pa., questa Corte, con sentenza 4673/2021, in accoglimento di entrambi i motivi di ricorso, cassò la sentenza, ritenendo che avesse errato la Corte di Appello dell’Aquila nella parte in cui aveva posto a carico del lavoratore gli oneri di allegazione di circostanze atte a dimostrare l’esistenza nella struttura organizzativa di posti di lavoro effettivamente disponibili, in contrasto con la giurisprudenza di legittimità secondo cui tale onere grava sul datore di lavoro (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792del 2017; v. pure, tra le più recenti, Cass. n. 24195 del 2020), nonché nella parte in cui aveva ritenuto infungibile la posizione del ricorrente con altri lavoratori, facendo coincidere l’equivalenza con l’identità delle modalità esecutive delle mansioni, in violazione dei criteri interpretativi desumibili dall’art. 2103 cod. civ.
In particolare questa Corte evidenziò, sotto il primo profilo, che incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.
Sotto il secondo profilo la Corte evidenziò, richiamando precedente orientamento (cfr. Cass. n. 25192 del 2016) che – non essendo stata soppressa, ma diversamente distribuita – la funzione svolta dal Pi.Pa., il giudizio di esclusione della fungibilità non doveva essere svolto, come era accaduto, con riguardo alla natura delle mansioni di fatto svolte, ma con riguardo all’eventuale professionalità omogenea.
Pertanto la seconda sentenza della Corte di Appello dell’Aquila fu cassata affinché la corte procedesse al riesame del merito delle questioni accolte.
6. La Corte d’Appello dell’Aquila, con una terza sentenza sulla vicenda processuale in esame, la n. 258/2021, preliminarmente ha circoscritto l’oggetto del proprio giudizio sul corretto accertamento della legittimità del licenziamento al solo riparto degli oneri probatori circa l’impossibilità del repêchage, ossia del reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, anche inferiori (in tal caso previo suo consenso) purché compatibili con le sue competenze professionali, chiarendo che su tutti gli altri aspetti integrativi della fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo era calato il giudicato.
In particolare la Corte ha indagato se la De. avesse dimostrato l’impossibilità di riassegnare il Pi.Pa. ad altre posizioni all’interno dell’azienda, ritenendo che, dalla documentazione prodotta, sarebbe emerso che tutte le posizioni nelle aree compatibili con le sue competenze (come la Direzione Export e i Servizi Commerciali) erano occupate al momento del licenziamento.
La Corte ha ritenuto dimostrato, da parte della società, che dopo il licenziamento non erano state effettuate assunzioni per la stessa qualifica del Pi.Pa. (giacché Nu.Da., sulla base dei documenti, come emergeva anche dalle sentenze precedenti, era stato assunto prima del licenziamento in esame, cfr. pag. 15 sentenza impugnata) e che, pertanto, l’impossibilità di repêchage fosse adeguatamente provata, anche in via presuntiva e indiziaria, come stabilito dalla giurisprudenza (Cass. Sez. Lav. n. 23789/2019, Cass. Sez. Lav. n. 12974/2018), atteso che sia in generale che con riferimento al settore export (considerando che le competenze professionali del Pi.Pa. erano relative solo alla vendita) non vi era vacanza di posti equivalenti al momento del licenziamento.
Con riguardo poi al secondo aspetto del giudizio di rinvio, ossia quello relativo alla scelta del lavoratore da licenziare e alla comparazione da svolgersi in relazione alla professionalità omogenea e non soltanto rispetto alle mansioni di fatto svolte, la Corte, dopo aver circoscritto il proprio esame alla comparazione con la sola professionalità del Nu.Da. (come richiesto dal Pi.Pa. nel terzo motivo del ricorso in riassunzione), ha escluso l’omogeneità delle rispettive professionalità, evidenziando che i due dipendenti avevano una qualifica e un inquadramento diversi (Nu.Da. era quadro, qualifica superiore e superiore retribuzione rispetto al Pi.Pa., che era impiegato di primo livello) e che la professionalità del Pi.Pa. (che si occupava di vendite a dettaglio nel “Mercato Brasile e Sud America”) era certamente diversa da quella del Nu.Da., che si occupava di vendita tramite intermediari nei paesi “del Medio ed Estremo Oriente”, poiché la professionalità richiesta a chi si relaziona direttamente con i rivenditori sul luogo della vendita, sia dal punto di vista della capacità linguistica, che della conoscenza di usi e costumi, etc., è diversa da chi, dall’Italia, commercializzi tramite intermediari (come confermato proprio dal fatto che il Pi.Pa. “fu assunto proprio perché c’era bisogno di una persona sul posto in Sud America”), e svolgeva mansioni diverse, legate al mercato del Medio ed Estremo Oriente.
Pertanto la Corte d’Appello ha respinto l’appello originario del Pi.Pa., ribadendo quindi la tutela accordata dal Tribunale di Chieti in primo grado, con l’applicazione della indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
7. Per la cassazione della predetta sentenza propone ricorso Pi.Pa., con tre motivi, cui resiste con controricorso F.lli De. Spa; entrambe le parti hanno depositato memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
Considerato che
8. Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 384 c.p.c. in relazione agli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., per elusione e violazione del principio fissato nella sentenza rescindente, nonché del giudicato interno. In particolare, sostiene che la Corte d’Appello, nel giudizio di rinvio, avrebbe ecceduto dai confini imposti dalla sentenza di cassazione n. 9127/2018, emessa nel primo giudizio di legittimità, la quale aveva cassato con rinvio la sentenza precedente solo limitatamente alla questione della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. La Corte d’Appello avrebbe erroneamente riconsiderato questioni già oggetto di giudicato, relative a fatti accertati dalla sentenza cassata, come le circostanze temporali dell’assunzione del dipendente Nu.Da., che nel primo giudizio di appello erano state ricostruite diversamente e rilevavano, nella prospettazione del ricorrente, rispetto alla illegittimità del recesso, nonché come le circostanze relative ai criteri selettivi, ove la Corte di Appello avrebbe ribadito ragioni della precedente sentenza censurate dalla sentenza della Corte di Cassazione, e attinto acriticamente nuovi fatti non frutto dell’istruttoria, ma desunti dalla memoria della controparte.
9. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 della legge n. 604/66, in combinato disposto con l’art. 2103 c.c., con l’art. 5 del D.Lgs. n. 223/1991 e con gli artt. 1175 e 1375 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.; avrebbe errato la Corte di merito ritenendo che i criteri di scelta e di comparazione per valutare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento dovessero essere riferiti a lavoratori con mansioni identiche. Ed infatti, nella prospettazione del ricorrente, la comparazione avrebbe dovuto essere effettuata non sulla base delle modalità esecutive delle prestazioni, ma sulla base della professionalità posseduta dai lavoratori, non limitandosi alle sole mansioni concretamente svolte. In particolare, il Pi.Pa. avrebbe certamente avuto le capacità professionali per svolgere il lavoro svolto dal Nu.Da. (essendo irrilevante la circostanza per la quale il primo, che svolgeva vendita tramite intermediari, avrebbe svolto mansioni diverse dal secondo che svolgeva mansioni di vendita diretta. Ed infatti anche il primo tipo di vendita rientrava tra le mansioni contrattuali del Pi.Pa.).
10. Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell’art. 3 della legge n. 604/66in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere assolto l’onere probatorio a carico del datore di lavoro relativamente all’impossibilità di ricollocazione del lavoratore (c.d. obbligo di repêchage), senza richiedere che il datore di lavoro dimostrasse l’effettiva inesistenza di altre posizioni lavorative libere. In particolare, sostiene che la Corte d’Appello si sarebbe basata esclusivamente sulle dichiarazioni del datore di lavoro, senza esigere una prova completa circa l’impossibilità di ricollocazione, anche in mansioni inferiori o in altre sedi, comprese quelle estere, con una indebita limitazione dell’ambito di verifica.
11. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Dopo aver trascritto la motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente si duole del fatto che, essendosi la sentenza rescindente pronunciata esclusivamente per motivi di diritto, la Corte di Appello non avrebbe dovuto rivalutare i fatti e il materiale istruttorio e avrebbe violato il giudicato interno.
Il motivo, tuttavia, oltre ad essere formulato genericamente, non indicando in maniera adeguata in quali punti sarebbe stato violato il giudicato interno, risulta infondato, poiché la Corte di Appello, nella sentenza impugnata, ha svolto correttamente il giudizio di rinvio, provvedendo a rivalutare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rispetto ai due motivi accolti, senza porsi in contraddizione con le precedenti sentenze e i punti oggetto di giudicato.
La Corte di Cassazione, nella sentenza rescindente, come già chiarito era stata evocata con due motivi, in quanto, per un verso erroneamente la Corte d’Appello aveva posto a carico del lavoratore l’onere di allegare l’esistenza di posti di lavoro disponibili nell’organizzazione aziendale, mentre il relativo onere di dimostrare l’impossibilità del cosiddetto repêchage grava interamente sul datore di lavoro, per altro verso erroneamente la prima sentenza impugnata aveva giudicato sull’infungibilità delle mansioni del ricorrente, basandosi sulla loro specifica modalità esecutiva, mentre il criterio per stabilire l’infungibilità delle mansioni deve basarsi sulla professionalità complessiva del lavoratore.
La Corte di Appello nella sentenza impugnata si è conformata a tali indicazioni.
Ed infatti, dopo avere correttamente circoscritto l’oggetto del proprio giudizio sul corretto accertamento della legittimità del licenziamento con solo riferimento al riparto degli oneri probatori circa l’impossibilità del repêchage, ossia del reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, anche inferiori (in tal caso previo suo consenso) purché compatibili con le sue competenze professionali (chiarendo che su tutti gli altri aspetti integrativi della fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo fosse calato il giudicato), ha ritenuto che la prova dell’impossibilità di riassegnare il Pi.Pa. ad altre posizioni all’interno dell’azienda emergesse dal materiale acquisito, che ha attentamente valutato, ed ha proceduto alla corretta comparazione delle professionalità del ricorrente.
In particolare, sotto il primo profilo, ha analizzato la professionalità del Pi.Pa., esaminando la documentazione relativa alla sua assunzione, che rivelava come il lavoratore fosse stato individuato per aprire un ufficio di rappresentanza in Brasile, progetto poi abbandonato dopo aver preso atto dell’impossibilità da parte del Pi.Pa. di ottenere un visto permanente o una documentazione amministrativa che gli consentisse di permanere in Brasile a tempo indeterminato.
La Corte ha chiarito poi che le competenze professionali del ricorrente erano strettamente collegate alla commercializzazione dei prodotti De., e non si estendevano ad altre professionalità, e che pertanto non poteva essere considerato compatibile con nessuna delle altre attività societarie (passandole tutte in rassegna, dalla produzione al confezionamento della pasta, alla manutenzione delle macchine, alla logistica, alla direzione delle risorse umane, ai sistemi informativi, all’acquisto di materie prime, alle attività di ricerca e sviluppo qualità, etc.), ma solo a quella dei servizi commerciali e dell’export, rispetto ai quali ha circoscritto il giudizio di compatibilità.
La Corte ha poi ripercorso il materiale probatorio documentale acquisito e quello frutto della omessa contestazione sin dal giudizio di primo grado, evidenziando come fosse “del resto pacifico che, dopo la soppressione del posto di lavoro del Pi.Pa., che era stabilmente ubicato all’estero ed il suo licenziamento, le sue mansioni siano state ridistribuite nell’ambito del settore di riferimento senza assumere altro personale, con l’affidamento di parte di esse al direttore della divisione Export Ia.En., il quale le ha svolte o direttamente o delegandole ad altri dipendenti gerarchicamente subordinati, che operavano dalla sede di Pescara ma a mezzo di intermediari”; evidenziando, dunque, come dalla documentazione prodotta emergeva che tutte le posizioni nelle aree compatibili con le competenze del ricorrente (come la Direzione Export e i Servizi Commerciali) fossero occupate al momento del licenziamento, e che dopo il licenziamento non fossero state effettuate assunzioni per la sua stessa qualifica, ha ritenuto che l’impossibilità di repêchage fosse adeguatamente provata, anche in via presuntiva e indiziaria, trattandosi di prova negativa, conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza di questa corte (Cass. Sez. Lav. n. 23789/2019, Cass. Sez. Lav. n. 12974/2018).
L’aspetto relativo alle modalità temporali dell’assunzione del Nu.Da., che il ricorrente vorrebbe nuovamente porre in discussione, risultava pacifico già nelle fasi precedenti dell’annoso giudizio, ma la Corte lo ha analizzato ugualmente, dando conto di tutto il materiale documentale esaminato (“si consideri, infatti, che il Pi.Pa. è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo con lettera del 29.10.2013, mentre il Nu.Da. è stato assunto dalla De. con contratto del 25.3.2013 (doc. 6 fascicolo I grado società) ed ha assunto il servizio l’1.9.2013, sempre in epoca anteriore al licenziamento oggetto di causa, sicché sotto questo profilo non possono essere comparate le due posizioni, stante – va ribadito – l’assenza di una vacanza dell’organico alla data del licenziamento”.
Del resto, risultando passato in giudicato il profilo della soppressione del posto, gli unici aspetti che la Corte doveva valutare erano l’adempimento dell’onere probatorio rispetto al repêchage, riguardo al quale ovviamente era coinvolto un giudizio non solo di diritto ma anche di fatto, come correttamente svolto dalla Corte, nonché la comparazione del bagaglio professionale del ricorrente e del lavoratore da questi individuato, il Nu.Da., ai fini della verifica della correttezza della scelta imprenditoriale di licenziare il ricorrente piuttosto che il Nu.Da. stesso.
Anche sotto tale secondo profilo, la sentenza ha argomentato correttamente dai fatti e le prove acquisite e disponibili nel fascicolo, uniformandosi al principio di diritto fissato dalla Corte di Cassazione.
Ed infatti ha osservato come le professionalità dei due lavoratori non erano affatto omogenee, partendo già dal loro inquadramento, in quanto il Nu.Da. aveva una qualifica e un inquadramento superiore, nonché un trattamento economico superiore a quello di Pi.Pa., giacché il primo era quadro, il secondo impiegato di primo livello.
Del resto, a prescindere dalla differenza di inquadramento che avrebbe condotto, ove fosse stato licenziato il Nu.Da., a inquadrare il Pi.Pa. in mansioni superiori pur di mantenerlo in servizio, la professionalità del Pi.Pa. che si occupava di vendite a dettaglio nel “Mercato Brasile e Sud America” si apprezzava come differente rispetto quella del Nu.Da., che si occupava di vendita tramite intermediari nei paesi “del Medio ed Estremo Oriente”. La Corte, in particolare, aveva evidenziato come la professionalità richiesta a chi si relazioni direttamente con i rivenditori sul luogo della vendita sia dal punto di vista della capacità linguistica, che della conoscenza di usi e costumi etc., sia indubbiamente diversa da chi, dall’Italia, commercializzi tramite intermediari, richiamando come la scelta aziendale di assumere il Pi.Pa. coincideva con l’esigenza, poi abbandonata per le difficoltà oggettive del dipendente di ottenere le prescritte autorizzazioni, di collocare una persona sul posto in Brasile, mentre il Nu.Da. doveva organizzare e curare i rapporti con gli intermediari per il mercato del Medio ed Estremo Oriente.
Ha poi chiarito la Corte che “sia il Pi.Pa. che il Nu.Da. erano entrambi non coniugati e senza figli, militando a vantaggio del primo solo la superiore anzianità di servizio, che certamente non poteva costituire l’unico criterio di preferenza a suo favore in considerazione di tutti gli altri elementi già indicati (diverso inquadramento, specificità delle mansioni di assunzione; peculiarità della professionalità del Pi.Pa.; identica situazione nei carichi familiari).”
La corte, peraltro, ha richiamato la giurisprudenza citata dalla sentenza rescindente (Cass. Sez. lav. n. 25192/2016) per evidenziare come tale orientamento proprio chiarisca come, qualora si sia in presenza di personale omogeneo e fungibile, non necessariamente devono trovare applicazione tutti i criteri previsti dall’art. 5 della Legge n. 223/1991.
Né si può ritenere che la Corte abbia ecceduto i limiti del giudizio di rinvio. Poiché, come da tempo ha chiarito questa corte, il giudice di rinvio non è vincolato dai fatti ipotizzati o non accertati in precedenza. Ed infatti (Cass. S.U. n. 17779/2013; Cass. n. 26949/2020) il giudice di rinvio può procedere a una nuova valutazione dei fatti acquisiti, rispettando le indicazioni della sentenza rescindente, senza essere vincolato a ipotesi di fatto non definite.
12. Il secondo e il terzo motivo, relativi alla violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte in relazione all”art. 3 della Legge n. 604/1966in combinato disposto con l’art. 2103 c.c.e l’art. 1175 c.c., e all’art. 2697 c.c., nella valutazione dell’adempimento dell’obbligo datoriale di repêchage, possono essere esaminati congiuntamente per connessione e sono infondati.
Il ricorrente, sotto il primo profilo, sostiene che la Corte d’Appello avrebbe errato nel non considerare che l’obbligo di repêchage non si limitava ai ruoli identici a quelli occupati dal Pi.Pa. e che la Corte avrebbe dovuto estendere la valutazione anche a posizioni diverse, ma compatibili con la professionalità acquisita dal lavoratore; sotto il secondo profilo, poi, lamenta che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto assolto l’onere probatorio a carico della società in merito all’obbligo di repêchage, senza richiedere una prova completa dell’inesistenza di altre posizioni lavorative, anche in mansioni inferiori o all’estero.
Con entrambi i motivi il ricorrente, pur deducendo violazioni di legge, propone una lettura alternativa del materiale probatorio rispetto a quella fornita ragionatamente dalla Corte, e pertanto, come noto, in questa sede inammissibile.
La Corte ha valutato correttamente gli atti e applicato i principi dettati dalla pronuncia rescindente, affermando come, al momento del licenziamento, non vi erano altre posizioni vacanti o equivalenti disponibili in azienda. Questa corte ha chiarito da tempo (Cass. n. 23301/2018) che il datore di lavoro non è tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale per conservare il posto al lavoratore, ma deve dimostrare solo l’assenza di posti liberi compatibili con la professionalità del dipendente, non potendo il giudice, una volta emersa la prova della soppressione del posto, imporre al datore di mantenere una posizione di lavoro anche inferiore, poiché si sostituirebbe all’imprenditore nel compito di organizzazione aziendale che a lui compete.
La Corte di Appello ha chiarito in maniera argomentata come la professionalità del Pi.Pa. presentava caratteri di unicità nel contesto aziendale, essendo stato assunto, come visto, proprio per le sue competenze relative al settore del Sud America e per le esigenze aziendali di espansione in quella zona geografica, tanto desumendo dal materiale istruttorio. Ha quindi evidenziato come non vi fossero posizioni simili disponibili, come confermato dagli atti processuali, né, come visto, poteva affermarsi l’omogeneità e fungibilità professionale con altri lavoratori del settore export (segnatamente il Nu.Da. indicato dallo stesso ricorrente). Correttamente la sentenza di appello, nello svolgere la valutazione di compatibilità ha considerato, quindi, le posizioni del settore vendite, e ha spiegato la comparazione con il solo Nu.Da. sulla base del motivo di ricorso formulato dal ricorrente (circostanza rispetto alla quale il ricorso è carente di allegazioni specifiche). Questa corte, peraltro, ha chiarito come (cfr. Cass. n. 31520/2019) l’onere del datore di lavoro si limiti alla dimostrazione dell’inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si spinge a dover creare posizioni nuove o adibire i lavoratori a mansioni diverse dalla professionalità di riferimento (Cass. n. 239 del 2005; Cass. n. 11427/2000).
13. Il ricorso deve pertanto essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del D.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.