Nel caso di sequestro di prevenzione di un’azienda, l’amministratore giudiziario può procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro in base all’art. 56, D.LGS. n. 159/2011, senza applicare garanzie del licenziamento disciplinare, purché la risoluzione stessa contenga la specificazione dei motivi di recesso.
Nota a Cass. (ord.) 5 febbraio 2025, n. 2803
Francesca Albiniano
La Corte di Cassazione (ord. 5 febbraio 2025, n. 2803 – diff. da App. Palermo n. 112/2022; v. anche Cass. 21917/2024 e Cass. n. 26478/ 2018) rileva che, “in tema di sequestro di prevenzione delle aziende, la disciplina del d.lgs. n. 159 del 2011 è improntata alla salvaguardia dell’ordine pubblico e alla funzionale destinazione dell’azienda all’esercizio dell’impresa. A tal fine, l’amministratore giudiziario è tenuto a provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati, potendo procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro in forza della previsione dell’art. 56 del citato decreto, senza che trovino applicazione le garanzie proprie del licenziamento disciplinare, essendo tuttavia necessario che la risoluzione del rapporto contenga la specificazione dei motivi di recesso, in quanto principio generale in materia di licenziamenti”.
Infatti, rilevano i giudici, la decisione di risoluzione del rapporto non assume natura disciplinare in quanto espressione di un potere funzionale alla gestione del bene sequestrato ed alla tutela delle esigenze di ordine pubblico.
Diversamente dalla decisione della Corte distrettuale, che aveva riformato la prima decisione valorizzando la necessità dei requisiti richiesti dall’art. 35 del D.LGS. n. 159/2011 ai fini dell’applicazione dell’art. 56 della medesima normativa, la Cassazione precisa altresì che l’art. 35, co. 3, D.LGS. n. 159/2011 cit., disciplina esclusivamente le incompatibilità per la nomina dell’amministratore giudiziario e dei suoi collaboratori (“coadiutore o diretto collaboratore dell’amministratore giudiziario nell’attività di gestione”) “stabilendo che non possono essere nominati soggetti direttamente o indirettamente interessati alla gestione del patrimonio sequestrato, al fine di evitare conflitti di interesse e garantire l’imparzialità dell’amministrazione giudiziaria”.
La norma non concerne il personale dipendente dell’impresa sequestrata, il cui rapporto di lavoro resta regolato dalla disciplina generale del codice delle leggi antimafia, con specifico riferimento al citato art. 56, che stabilisce le regole per la prosecuzione o risoluzione dei rapporti pendenti.
In particolare, l’amministratore giudiziario può risolvere il rapporto di lavoro (su autorizzazione del giudice), senza seguire le garanzie procedimentali proprie del licenziamento disciplinare. Ciò, purché la decisione sia adeguatamente motivata con il richiamo alla misura adottata dall’autorità giudiziaria.
“Nel caso di specie, l’amministratore giudiziario aveva motivato il licenziamento con riferimento al provvedimento di sequestro che aveva attinto l’azienda, alla posizione di persona sottoposta a indagini del lavoratore, al suo ruolo di direttore tecnico e quindi alla possibilità che la sua permanenza in azienda pregiudicasse la gestione della stessa nel contesto della misura di prevenzione”.
Secondo i giudici detta motivazione appare sufficiente a giustificare il licenziamento, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità sopracitata.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 5 febbraio 2025, n. 2803
Lavoro – Licenziamento durante periodo di malattia – Decreto di sequestro preventivo – Accoglimento
Rilevato che
1.Con sentenza n. 112 del 2022, la Corte d’Appello di Palermo, in riforma della decisione del Tribunale di Agrigento, annullava il licenziamento intimato a D.S.P. dall’amministratore giudiziario della A. s.r.l., ordinandone la reintegrazione e la corresponsione dell’indennità risarcitoria.
Il ricorrente, direttore tecnico dell’azienda, aveva impugnato il licenziamento, dinanzi al Tribunale di Palermo, deducendo che fosse stato intimato durante il periodo di malattia e in violazione della normativa dell’art. 7 legge n. 300/70, per il solo fatto che egli risultava persona sottoposta alle indagini, per reati inerenti il traffico illecito di rifiuti.
Rappresentava, peraltro, che il Tribunale del Riesame di Palermo, giudicando in via cautelare, aveva escluso il fumus commissi delicti a suo carico e chiedeva in ogni caso di sospendere il giudizio in attesa della definizione di quello penale.
Il Tribunale del Riesame di Palermo, tuttavia, rigettava il ricorso, sul rilievo che il licenziamento fosse riconducibile alla disciplina speciale del cd. Codice Antimafia, di cui agli artt. 35, 41 e 56 del D. Lgs. n. 159/2001 (ndr artt. 35, 41 e 56 del D. Lgs. n. 159/2011) applicabile alla fattispecie a motivo del decreto di sequestro preventivo che in data 18.12.2017 aveva attinto la società datrice di lavoro, sottoponendola ad amministrazione giudiziaria, ex art. 12 sexies D.L. n. 306/1992, normativa speciale improntata alla salvaguardia dell’ordine pubblico che sottraeva il licenziamento alle garanzie procedimentali proprie del licenziamento disciplinare
Pertanto, non sarebbero stati rilevanti i fatti dedotti dal lavoratore, riferibili alla sua persona, quali l’assenza delle esigenze cautelari a suo carico, e il dissequestro dei suoi beni, poiché perdurava il sequestro dei beni aziendali.
2. Nel pronunciarsi sul gravame del sig. D.S., la Corte distrettuale per quanto qui rileva, ha riformato la prima decisione valorizzando la necessità dei requisiti richiesti dall’art. 35 del D. Lgs. n. 159/2011 ai fini dell’applicazione dell’art. 56 della medesima normativa, nonché la circostanza che la misura del sequestro preventivo per il reato di cui all’art. 260 del d.lgs. n. 152/2006, fosse stata revocata dal Tribunale per il Riesame con efficacia retroattiva.
3. Avverso la decisione di appello, la A. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, articolando tre motivi di doglianza, illustrati da memoria, cui ha resistito il D.S. con controricorso.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini previsti dall’art. 380-bis.1 c.p.c.
Considerato che
4. I motivi possono essere così sintetizzati.
4.1.- Con il primo motivo, la società deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 56, comma 1, e 35, comma 3, del d.lgs. n. 159/2011, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., censurando la decisione impugnata per aver erroneamente condizionato la legittimità del licenziamento alla sussistenza delle condizioni soggettive di cui all’art. 35, estendendone indebitamente l’ambito applicativo.
Specificamente, la ricorrente, richiamando la giurisprudenza di questa corte (Cass., n. 21166/2018; Cass., n. 32404/2018) evidenzia che la Corte d’Appello ha considerato necessaria la verifica dei requisiti di incompatibilità previsti dall’art. 35 per ritenere legittima la risoluzione del rapporto di lavoro, sebbene la norma riguardi esclusivamente la nomina dell’amministratore giudiziario e dei suoi collaboratori, mentre l’unica norma rilevante è l’art. 56 del d.lgs. n. 159/2011 che consente la risoluzione del rapporto di lavoro da parte dell’amministratore giudiziario senza che sia necessario il rispetto delle garanzie procedimentali del licenziamento disciplinare, purché sia indicata la motivazione del recesso.
Avrebbe errato, deduce la ricorrente, la Corte di appello nel ritenere la revoca del provvedimento di sequestro condizione rilevante, poiché il recesso si fondava sull’oggettiva incompatibilità tra il ruolo del lavoratore e la sua posizione di persona sottoposta a indagini, come già evidenziato nel parere del PM e nel provvedimento autorizzativo del GIP.
4.2.-Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 3, commi 1 e 2, d.lgs. n. 23/2015, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui, dichiarata l’illegittimità del licenziamento, ha applicato la tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015.
I giudici di appello hanno ritenuto “insussistente il fatto” giustificativo del licenziamento, qualificandolo come fattispecie giuridica complessa, ai sensi dell’art. 3, comma 2.
Tuttavia, tale qualificazione sarebbe errata, in quanto il licenziamento non rientrava nell’ambito disciplinare, ma si fondava su ragioni di ordine pubblico connesse allo status di persona sottoposta a indagini e alla posizione di direttore tecnico del lavoratore.
La ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 12174/2019), secondo cui il “fatto” rilevante ai fini della reintegra non può essere inteso in modo estensivo, includendo ipotesi non riconducibili al rapporto disciplinare.
In ogni caso, anche volendo ammettere l’illegittimità del licenziamento, i giudici avrebbero dovuto applicare la tutela indennitaria di cui al comma 1 dello stesso articolo, considerando il limite massimo di dodici mensilità.
4.3.- Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 91, comma 1, e 92, comma 2, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in cui sarebbe incorso il giudice di appello, nel regolare le spese di lite, ponendole interamente a carico della società.
Così facendo, la corte di merito, avrebbe omesso di considerare la novità della questione e l’assenza di un orientamento giurisprudenziale univoco in materia.
Inoltre, l’infondatezza delle pretese del lavoratore, valutata in primo grado, avrebbe giustificato, quantomeno, una compensazione integrale delle spese ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c.
5. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Questa Corte ha da tempo chiarito che, in materia di sequestro di prevenzione delle aziende, la disciplina del d.lgs. n. 159 del 2011 è improntata alla salvaguardia dell’ordine pubblico e alla funzionale destinazione dell’azienda all’esercizio dell’impresa.
A tal fine, l’amministratore giudiziario è tenuto a provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati, potendo procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro in forza della previsione dell’art. 56 del citato decreto, senza che trovino applicazione le garanzie proprie del licenziamento disciplinare, essendo tuttavia necessario che la risoluzione del rapporto contenga la specificazione dei motivi di recesso, in quanto principio generale in materia di licenziamenti (Cass. 21917 del 2024, Cass. n. 14467 del 2015; Cass. n. 15041 del 2015; Cass. n. 10439 del 2017; Cass. n. 26478 del 2018).
Ed infatti, la decisione di risoluzione del rapporto non assume natura disciplinare, risultando espressione di un potere funzionale alla gestione del bene sequestrato e alla tutela delle esigenze di ordine pubblico.
L’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 159/2011 disciplina esclusivamente le incompatibilità per la nomina dell’amministratore giudiziario e dei suoi collaboratori (“coadiutore o diretto collaboratore dell’amministratore giudiziario nell’attività di gestione”) stabilendo che non possono essere nominati soggetti direttamente o indirettamente interessati alla gestione del patrimonio sequestrato, al fine di evitare conflitti di interesse e garantire l’imparzialità dell’amministrazione giudiziaria.
Tale previsione normativa non riguarda il personale dipendente dell’impresa sequestrata, il cui rapporto di lavoro resta regolato dalla disciplina generale del codice delle leggi antimafia, con specifico riferimento all’art. 56, che detta le regole per la prosecuzione o risoluzione dei rapporti pendenti.
L’amministratore giudiziario ha il potere di risolvere il rapporto di lavoro su autorizzazione del giudice, senza dover seguire le garanzie procedimentali proprie del licenziamento disciplinare, purché la decisione sia adeguatamente motivata con il richiamo alla misura adottata dall’autorità giudiziaria.
Nel caso di specie, l’amministratore giudiziario aveva motivato il licenziamento con riferimento al provvedimento di sequestro che aveva attinto l’azienda, alla posizione di persona sottoposta a indagini del lavoratore, al suo ruolo di direttore tecnico e quindi alla possibilità che la sua permanenza in azienda pregiudicasse la gestione della stessa nel contesto della misura di prevenzione.
Tale motivazione è sufficiente a giustificare il licenziamento, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata.
Alla luce di tali principi, il primo motivo di ricorso deve ritenersi fondato, con assorbimento degli ulteriori due motivi, dovendo il giudice del rinvio valutare la legittimità del licenziamento alla luce della corretta interpretazione dell’art. 56.
La sentenza deve essere perciò cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello per nuovo giudizio in conformità ai principi esposti e la regolazione delle spese, incluse quelle del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso;
dichiara assorbiti il secondo e il terzo motivo;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto;
rinvia alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.