Gli accessi abusivi, da parte del dipendente di una banca, ai conti correnti di diversi clienti tramite il programma informatico aziendale, senza alcuna legittima ragione di servizio, giustificano il licenziamento disciplinare del lavoratore.
Nota a Cass. 5 febbraio 2025, n. 2806
Paolo Pizzuti
La possibilità per un lavoratore impiegato presso un istituto bancario di utilizzare strumenti informatici per lo svolgimento di operazioni finanziarie non implica la facoltà di accedere indiscriminatamente alle banche dati, a meno che non sia strettamente necessario per l’esecuzione delle operazioni nell’interesse dell’istituto e della clientela. L’utilizzo di tali strumenti è concesso dalla banca ai propri dipendenti affinché operino in maniera lecita, senza sfruttare le potenzialità di accesso alle informazioni al di fuori delle strette esigenze lavorative. Pertanto, l’accesso abusivo ai conti correnti di clienti e colleghi senza ragioni di servizio, da parte di un dipendente di banca, configura una grave violazione dell’obbligo di fedeltà e riservatezza, oltre che del codice in materia di protezione dei dati personali, e legittima il licenziamento disciplinare del lavoratore.
È quanto afferma la Corte di Cassazione (5 febbraio 2025, n. 2806) in merito al licenziamento disciplinare intimato da una banca ad un lavoratore che aveva effettuato accessi abusivi ai conti correnti di diversi clienti tramite il programma informatico aziendale, senza alcuna legittima ragione di servizio. La Corte d’appello aveva escluso la rilevanza disciplinare di tali accessi, sottolineando che il dipendente era titolare delle credenziali e, pertanto, non potevano considerarsi abusivi. Inoltre, aveva evidenziato che gli accessi erano avvenuti in tempi brevissimi e non riguardavano la cosiddetta “lista movimenti”.
Nello specifico la Cassazione, rinviando alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione, per un nuovo giudizio, rileva che:
a) secondo la giurisprudenza consolidata, nel caso violazione di norme di legge o di doveri fondamentali di lealtà e riservatezza, il licenziamento per giusta causa può basarsi su violazioni del “minimo etico” e su condotte che ledano la fiducia del datore di lavoro, anche in assenza della previa affissione del codice disciplinare (v. Cass. n. 6893/2018);
b) sebbene la Corte territoriale abbia concluso che l’illecito “se vi è stato – deve essere considerato di particolare tenuità, con la conseguenza che la sanzione comminata, se fosse in sé legittima, risulterebbe del tutto spropositata”, nondimeno, in casi analoghi, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “l’accesso al sistema informatico aziendale non può essere considerato lieve quando realizzato per finalità personali o comunque non riconducibili a esigenze di servizio” (v. Cass. 34717/21; Cass. n.19588/2021 e Cass. n. 28928/2018). In particolare, diversamente da quanto deciso dalla Corte d’appello, “il fatto, nella sua materialità…, non può essere considerato lieve, allorché si concreti in una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal d.lgs. 196/2003 soprattutto da parte di coloro che operano all’interno dell’istituto”;
c) qualora la condotta del lavoratore costituisca violazione di norme di legge o di principi fondamentali di correttezza e buona fede, immediatamente percepibili dal dipendente come illeciti, la pubblicazione del codice disciplinare non è necessaria (v. fra tante, Cass. n. 6893/2018, cit.; Cass. n. 13906/2013). In questa circostanza, infatti, il lavoratore “non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere”. Sicché il datore di lavoro non è tenuto ad affiggere un codice disciplinare che sanzioni espressamente un comportamento evidentemente illecito;
d) con specifico riguardo al concetto di insubordinazione, nella fattispecie il lavoratore aveva espresso disponibilità allo spostamento e solo dopo la formalizzazione dell’ordine di trasferimento, si era opposto invocando la tutela della L. n. 104/1992. Tale “comportamento ha determinato un impatto negativo sull’organizzazione del servizio, in quanto la banca aveva già pianificato la ridistribuzione del personale sulla base della disponibilità espressa dal dipendente, riponendo il proprio affidamento sulla stessa”. L’insubordinazione, infatti, rileva laddove non si limiti al mero rifiuto di un ordine aziendale, ma comprenda “qualsiasi condotta che ostacoli l’esecuzione delle direttive aziendali e pregiudichi il regolare svolgimento del rapporto di lavoro” (v. Cass. n. 13411/2020 e Cass. n.7795/2017). E ciò si pone in contrasto con la decisione della Corte d’Appello;
e) tuttavia, il giudice territoriale ha escluso correttamente che la condotta del prestatore che aveva lasciato l’anziano padre per breve tempo in macchina per effettuare un prelievo e alcune operazioni al proprio pc, costituisse un abuso del permesso ex art. 33 L. n. 104/1992. Il Tribunale ha, infatti, richiamato il concetto di “assistenza”, “che non implica necessariamente un controllo costante ed esclusivo del familiare disabile, potendo includere anche attività indirettamente collegate alle sue esigenze, come il disbrigo di commissioni per suo conto o la gestione di necessità quotidiane” (v. Cass. n. 19580/2019; Cass. n. 9217/2016);
f) va altresì escluso l’abuso del diritto (che si verifica quando il nesso tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile manca del tutto, cfr. Cass. n. 19580/2019) poiché il lavoratore si era allontanato solo per pochi minuti per eseguire un’operazione bancaria, senza che vi fosse un utilizzo distorto del permesso finalizzato a soddisfare esigenze personali non connesse all’assistenza.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 5 febbraio 2025, n. 2806
– Violazioni del minimo etico e licenziamento per giusta causa: non è necessario il codice etico se si tratta di violazioni di legge
Rilevato che
1.La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza n. 39/2022, ha rigettato sia il reclamo principale proposto dalla Banca (OMISSIS) S.P.A. che il reclamo incidentale avanzato dal sig. S.O.C. avverso la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato dalla banca al lavoratore con lettera del 10 marzo 2017, sulla base di diverse contestazioni (la violazione della normativa della privacy per presunti accessi abusivi ai conti correnti di varie persone tramite il programma informatico aziendale, senza legittime ragioni di servizio; l’abuso di un permesso ex L. 104/1990; l’essersi il lavoratore opposto all’ordine di trasferimento presso un’altra filiale, in ragione della propria intrasferibilità ai sensi della cit. legge 104, trasferimento al quale, precedentemente, aveva dato il proprio consenso sia pure subordinandolo alla conservazione delle dotazioni informatiche) disponendo la reintegrazione di quest’ultimo nel posto di lavoro e il risarcimento dei danni.
2. Con riguardo al reclamo principale, la Corte territoriale ha ritenuto disciplinarmente irrilevanti i fatti relativi al mancato accesso del lavoratore agli uffici di Pordenone oggetto della contestazione del 26 gennaio 2017; infondato l’addebito contenuto nella contestazione del 13 febbraio 2017 riguardante l’asserito utilizzo improprio del permesso ex art. 33 della L. 104/92; insussistente l’illecito di trattamento indebito dei dati personali ai sensi dell’art. 167 del D.lgs. 196/03.
3. Quanto al reclamo incidentale, la Corte d’Appello ha escluso la natura discriminatoria, mobbizzante o ritorsiva del comportamento datoriale e ha confermato la correttezza della tutela reintegratoria attenuata applicata dal Tribunale.
4. Per la cassazione della predetta sentenza propone ricorso la Banca con sei motivi, cui resiste con controricorso con ricorso incidentale il lavoratore con quattro motivi; quest’ultimo ha depositato memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
Considerato che
5. Con il primo motivo di ricorso principale, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119,2104,2105,2697,2727 e 2729 c.c., dell’art. 1 della legge 604/66, degli artt. 1, 2, 4,11,30 del d.lgs. 196/03 e dell’art. 18 della legge 300/70, nonché degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. Sostiene che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente escluso la rilevanza disciplinare dell’accesso ai conti correnti di terzi da parte del lavoratore, effettuato in assenza di ragioni di servizio, interpretando in modo scorretto il regime di tutela dei dati personali. Avrebbe altresì errato la Corte ritenendo la “particolare tenuità” della violazione e qualificandola come irrilevante sotto il profilo disciplinare.
6. Con il secondo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 300/70 in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello, ritenendo erroneamente che, anche per condotte come quelle contestate, violative dei principi fondamentali di etica e di norme inderogabili di legge, a presidio del rispetto della privacy dei clienti della banca, assumesse rilievo l’affissione del codice disciplinare.
7. Con il terzo motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., la ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione. In particolare, evidenzia che la Corte d’Appello non avrebbe considerato adeguatamente le differenze temporali e di contenuto tra i comportamenti oggetto di contestazione, e precedenti condotte analoghe realizzatesi anni prima, che la Banca non aveva sanzionato con il licenziamento ma con sanzioni conservative, trascurando che le condotte contestate al lavoratore si collocano in un contesto normativo e sociale di maggiore sensibilità al tema della privacy rispetto ai precedenti analoghi episodi.
8. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2729,2104 e 2119 c.c., nonché dell’art. 18 della legge 300/70, contestando la mancata valutazione da parte della Corte d’Appello di un quadro indiziario grave, preciso e concordante che avrebbe dimostrato la premeditazione del lavoratore nel rifiutare il trasferimento della propria postazione lavorativa. In particolare, assumerebbero rilievo a tal fine i seguenti fatti: l’avere, in un colloquio di fine 2016 il lavoratore vincolato il proprio consenso allo spostamento della postazione al trasferimento delle dotazioni aziendali – ottenendo così l’accordo dell’azienda, l’essere poi andato a visitare il nuovo ufficio, così confermando l’intesa raggiunta e, infine, in seguito alla notizia dell’imminente spostamento, l’avere ribadito la necessità del trasferimento delle dotazioni informatiche e richiesto la formalizzazione del provvedimento aziendale, salvo poi opporsi al trasferimento). La ricorrente, inoltre, si duole che la Corte di appello abbia errato nel ritenere la condotta non riconducibile alla nozione di insubordinazione.
9. Con il quinto motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., la ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti decisivi relativi al quadro indiziario precedentemente descritto, sostenendo che tale omissione abbia inciso sull’erronea qualificazione giuridica della condotta del lavoratore.
10. Con il sesto motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. Sostiene che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente dichiarato insussistente l’illecito utilizzo dei permessi ex art. 33 della legge 104/92, nonostante fosse emerso lo svolgimento di attività incompatibili con l’assistenza al padre disabile durante l’orario di utilizzo del permesso. In particolare il lavoratore, in data 27 gennaio 2017, mentre fruiva di un permesso ex art. 33 L. 104 del 1992, invece di assistere il padre (persona disabile in condizione di gravità) accedeva alla propria postazione di lavoro ed utilizzava il computer aziendale dalle ore 8,00 alle ore 9,00, con ciò effettuando attività all’evidenza incompatibili con l’assistenza del disabile.
11. Con il primo motivo di ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il controricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 ss., 2104,2697,2729 c.c., nonché degli artt. 115,112 e 132 c.p.c. e dello Statuto dei Lavoratori, denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. In particolare, sostiene che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente escluso la natura ritorsiva del licenziamento e la configurabilità della fattispecie del cd. mobbing, omettendo di considerare fatti rilevanti, mai contestati, che dimostrerebbero l’intento persecutorio e la natura discriminatoria della condotta datoriale.
12. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 ss., 2104,2697,2729 c.c., nonché degli artt. 115,112 e 132 c.p.c. e dello Statuto dei Lavoratori, denunciando l’omesso esame dei fatti decisivi, consistenti in un quadro indiziario che avrebbe dimostrato il cd. mobbing. Avrebbe errato la Corte d’Appello non valutando adeguatamente le prove da cui avrebbe potuto desumere l’esistenza di un disegno persecutorio, culminato nel licenziamento disciplinare.
13. Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il ricorrente incidentale lamenta la violazione e falsa applicazione delle stesse disposizioni normative richiamate nei primi due motivi, criticando l’esclusione della natura ritorsiva del licenziamento e la mancata configurazione del mobbing, quali erronee interpretazioni della normativa applicabile ai fatti rilevanti emersi nel corso del giudizio
14. Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il ricorrente incidentale denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. contestando la compensazione delle spese di lite operata dalla Corte d’Appello, ritenendola ingiustificata, in considerazione dell’esito del giudizio e della soccombenza della controparte.
15. Il ricorso principale è fondato quanto al primo, secondo e quarto motivo, il cui accoglimento determina l’assorbimento del terzo e del quinto motivo, per ragioni di ordine logico.
16. Il primo motivo di ricorso principale, con il quale la ricorrente si duole che la Corte d’Appello abbia erroneamente escluso la rilevanza disciplinare dell’accesso abusivo del dipendente alla banca dati aziendale, nonostante fosse emerso in giudizio che tali interrogazioni avessero riguardato conti correnti di soggetti estranei alla sfera di competenza lavorativa del dipendente e non fossero giustificate da alcuna necessità di servizio, è fondato.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa corte, il licenziamento per giusta causa può fondarsi su violazioni del “minimo etico” e su condotte che ledano la fiducia del datore di lavoro, anche in assenza della previa affissione del codice disciplinare, quando si tratta di violazione di norme di legge o di doveri fondamentali di lealtà e riservatezza (Cass. n. 6893/2018).
La Corte territoriale, per escludere la rilevanza del fatto, dopo aver evidenziato che il lavoratore fosse titolare delle credenziali, e che quindi, per tale ragione, gli accessi non fossero abusivi, e circoscritto la condotta rilevante alla consultazione di dati relativi a persone che non erano suoi clienti, ha valorizzato la circostanza che gli accessi fossero avvenuti in tempi brevissimi, che non vertevano sulla cd. lista movimenti e che, in altri casi, per analoghe condotte la banca non avesse irrogato la sanzione espulsiva, osservando pure che dalla documentazione fornita dalla banca non fosse emerso chiaramente cosa il lavoratore avesse effettivamente consultato. Sulla base di tali considerazioni la corte ha concluso, testualmente, che l’illecito “se vi è stato – deve essere considerato di particolare tenuità, con la conseguenza che la sanzione comminata, se fosse in sé legittima, risulterebbe del tutto spropositata.”
Tuttavia, in casi analoghi, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’accesso al sistema informatico aziendale, non può essere considerato lieve quando realizzato per finalità personali o comunque non riconducibili a esigenze di servizio (Cass. n. 28928/2018; Cass. n.19588/2021; Cass. 34717/21).
È evidente, peraltro, che il potere di disporre di strumenti informatici volti al compimento delle operazioni finanziarie del dipendente di un istituto bancario non è di certo sinonimo di accesso indiscriminato a banche dati al di fuori della stretta necessità di compiere tali operazioni nell’interesse dell’istituto e dei clienti. L’accesso, privo di causa, deve essere valutato dal giudice di merito, in relazione al rapporto fiduciario tra datore e prestatore di lavoro, che concede l’utilizzo di tali strumenti ai propri dipendenti affinché operino in maniera lecita durante la prestazione lavorativa, senza avvalersi delle potenzialità di conoscenza al di fuori delle strette esigenze lavorative. Dunque, il fatto, nella sua materialità (il cui accertamento rientra ovviamente nel giudizio di merito) non può essere considerato lieve, allorché si concreti in una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal d.lgs. 196/2003 soprattutto da parte di coloro che operano all’interno dell’istituto.
Ne consegue che la decisione della Corte d’Appello si pone in contrasto con i principi di diritto sopra richiamati con l’accoglimento del motivo in esame.
17. Anche il secondo motivo, con cui si lamenta la ritenuta necessità dell’affissione del codice disciplinare, anche per condotte come quelle in esame che confliggono con il minimo etico e norme di legge, è parimenti fondato.
Come da tempo ha affermato la costante giurisprudenza di questa corte, la pubblicazione del codice disciplinare non è necessaria quando la condotta del lavoratore costituisca violazione di norme di legge o di principi fondamentali di correttezza e buona fede, immediatamente percepibili dal dipendente come illeciti (tra le molte, Cass. 3 ottobre 2013, n. 13906; Cass. 3 ottobre 2003, n. 22626, Cass. n. 6893/2018), poiché, in tali evenienze, questi non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere.
Nel caso di specie, l’accesso abusivo ai conti correnti di clienti e colleghi senza ragioni di servizio configura una grave violazione dell’obbligo di fedeltà e riservatezza, oltre che del codice in materia di protezione dei dati personali. Pertanto, il datore di lavoro non era tenuto ad affiggere un codice disciplinare che sanzionasse espressamente un comportamento evidentemente illecito.
18. Pure il quarto motivo è fondato.
La Corte territoriale ha escluso che il comportamento del lavoratore, consistente nell’aver indotto il datore di lavoro a credere nella sua disponibilità a un trasferimento di postazione salvo poi opporsi a esso, costituisse una condotta insubordinata disciplinarmente rilevante.
Tale conclusione contrasta con il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’insubordinazione non si limita al mero rifiuto di un ordine aziendale, ma comprende qualsiasi condotta che ostacoli l’esecuzione delle direttive aziendali e pregiudichi il regolare svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. n.7795/2017; Cass. n. 13411/2020).
Nel caso di specie, è stato provato che il lavoratore aveva espresso disponibilità allo spostamento e che, solo dopo la formalizzazione dell’ordine di trasferimento, si era opposto invocando la tutela della L. 104/1992. Tale comportamento ha determinato un impatto negativo sull’organizzazione del servizio, in quanto la banca aveva già pianificato la ridistribuzione del personale sulla base della disponibilità espressa dal dipendente, riponendo il proprio affidamento sulla stessa.
Pertanto, la decisione della Corte d’Appello è viziata da una errata interpretazione dell’art. 2729 c.c., avendo escluso il rilievo probatorio degli elementi indiziari raccolti nel giudizio di merito.
19. Il sesto motivo di ricorso è invece infondato.
La Corte d’Appello ha correttamente escluso che il comportamento del lavoratore, che aveva lasciato l’anziano padre per breve tempo in macchina per effettuare un prelievo e alcune operazioni al proprio pc, costituisse un abuso del permesso ex art. 33 L. 104/1992, richiamando la nozione di “assistenza” accolta dalla giurisprudenza, che non implica necessariamente un controllo costante ed esclusivo del familiare disabile, potendo includere anche attività indirettamente collegate alle sue esigenze, come il disbrigo di commissioni per suo conto o la gestione di necessità quotidiane (Cass. n. 19580/2019; Cass. n. 9217/2016).
La corte, escludendo l’abuso del diritto (che si verifica quando il nesso tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile manca del tutto, cfr. Cass. n. 19580/2019) ha accertato che il lavoratore si era allontanato solo per pochi minuti per eseguire un’operazione bancaria, senza che vi fosse un utilizzo distorto del permesso finalizzato a soddisfare esigenze personali non connesse all’assistenza. In particolare ha chiarito che la prova testimoniale non avesse confermato che il lavoratore fosse rimasto in filiale per un’ora, dalle 8:00 alle 9:00 (come sostenuto dalla Banca), poiché erano emersi come unici dati certi che il lavoratore aveva eseguito un prelievo alla cassa alle 8:35 e aveva effettuato quattro accessi al sistema informatico tra le 8:34:32 e le 8:37:39, con una permanenza effettiva in filiale limitata a pochi minuti.
A fronte di tali valutazioni il motivo contrappone una propria versione valutativa delle prove rispetto a quella argomentata dal giudice di merito e non può essere sindacata in Cassazione salvo manifesta illogicità o omissione di fatti decisivi (Cass. SS.UU. n. 8053/2014; Cass. n. 19881/2014).
20. Il ricorso incidentale è inammissibile
Esaminando congiuntamente i primi tre motivi, emerge come il ricorrente abbia articolato una formulazione promiscua, con sovrapposizione di censure eterogenee, che non consente di individuare con chiarezza i singoli vizi denunciati, in violazione del principio di specificità richiesto dall’art. 360 c.p.c. (Cass. SS.UU. n. 26242/2014; Cass. n. 18202/2008; Cass. n.18421/2009). Inoltre, il ricorso non si confronta adeguatamente con le argomentazioni della Corte d’Appello, limitandosi a riproporre questioni già vagliate e disattese.
Per quanto concerne le doglianze relative all’asserito mobbing e alla natura ritorsiva del licenziamento, la Corte territoriale ha fornito una motivazione logica e dettagliata, esaminando puntualmente le risultanze istruttorie e rilevando l’assenza di elementi probatori a sostegno delle tesi difensive del lavoratore. In particolare, ha evidenziato che il quadro indiziario invocato dal ricorrente incidentale non integra gli estremi della condotta persecutoria richiesta per la configurazione del mobbing, trattandosi, nel massimo, di difficoltà relazionali o di disagi organizzativi privi di un intento vessatorio sistematico; l’asserito intento ritorsivo del licenziamento non è suffragato da alcun riscontro probatorio, risultando, invece, smentito da elementi oggettivi quali il lungo intervallo temporale tra le contestazioni disciplinari e le precedenti segnalazioni del lavoratore. In definitiva, il ricorso incidentale si traduce in una mera reiterazione delle argomentazioni già disattese nel giudizio di merito, senza evidenziare alcun vizio di motivazione rilevante ai fini dell’art. 360, n. 5, c.p.c.
Del pari inammissibile il quarto motivo del ricorso incidentale, avente a oggetto la compensazione delle spese legali disposta dalla Corte d’Appello, poiché volto a censurare una valutazione rimessa alla discrezionalità del giudice di merito “di motivare le ragioni per cui le spese legali debbano essere compensate tra le parti”; infatti deve ribadirsi che la denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91, comma 1, c.p.c., in questa sede di legittimità trova ingresso solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa (Cass. n. 18128 del 2020 e Cass. n. 26912 del 2020) e che la compensazione delle spese processuali, costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo ove la motivazione posta a fondamento della statuizione di compensazione risulti palesemente illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per la sua inconsistenza o evidente erroneità, il processo decisionale del giudice (v., per tutte, Cass. SS. UU. n. 20598 del 2008), mentre nella specie risulta che la Corte distrettuale ha ritenuto di dover compensare, peraltro in misura parziale, motivando sulla base della “parziale reciproca soccombenza”, ritenendo prevalente quella della Banca conformemente ai principi richiamati.
21. Pertanto la Corte accoglie il primo, secondo e quarto motivo del ricorso principale, rigettato il sesto e assorbiti il terzo e il quinto; dichiara inammissibile il ricorso incidentale, con la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvio alla Corte d’Appello di Trieste in diversa composizione, affinché riesamini il caso alla luce dei principi di diritto enunciati e provveda anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte accoglie il ricorso principale in relazione al primo, secondo e quarto motivo, rigettando il sesto e dichiarando assorbiti il terzo e quinto. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione, per nuovo giudizio, anche per le spese del giudizio di legittimità.