L’esercizio del diritto di critica deve rispettare i principi di continenza formale, di continenza sostanziale e di pertinenza.
Nota a Cass. (ord.) 12 febbraio 2025, n. 3627
Maria Novella Bettini
La mail inviata dal dipendente, cardiochirurgo straniero, al primario, e per conoscenza ai colleghi, per denunciare l’emarginazione a cui lo ha costretto il responsabile del reparto dal suo arrivo, rientra nel diritto di critica per quanto aspra. È quanto stabilisce la Corte di Cassazione (ord.) 12 febbraio 2025, n. 3627, in relazione ad una lettera critica inviata da un dirigente medico al Direttore di Dipartimento.
Il testo della mail contenente la critica
“Gent.le Prof…., Le scrivo ancora, ma questa volta davanti ai colleghi. Alcuni di loro mi conoscono da circa venti anni, molti di loro hanno investito su di me affidandomi pazienti e credendo nella mia abilità operatoria. Da marzo, da quando Lei è stato nominato Direttore del Dipartimento di Cardiochirurgia, Lei mi ha escluso totalmente dall’attività chirurgica. Questa esclusione dalla sala operatoria è nota a tutti e si può verificare facilmente con la consultazione della mia attività prima e dopo la Sua nomina. In questi mesi ho cercato più volte di contattarLa per cercare di capire le motivazioni di questa sua scelta e per cercare di trovare una soluzione ma Lei si è sempre sottratto. Se la mia colpa è stata la richiesta di un inquadramento adeguato, dato dalla mia esperienza di 27 anni di chirurgia in vari ambiti, allora questa non deve essere considerata una colpa, tutt’altro, è una richiesta di uguaglianza, per arrivare ad essere trattato come altri colleghi, senza che ci sia a mio discapito discriminazione alcuna. L’uguaglianza è nella mia coscienza, per quella sono emigrato, ho sofferto e per questo ho scelto la società che amo e la terra dove morirò, l’Italia caro Professore. Se la mia colpa è stata quella di lasciare nel 2014 la Sua unità CH2 credo che quella questione sia ormai storia remota e non vedo motivo per riservarmi tutto questo rancore. Dal mio ritorno al lavoro il 20 luglio, dopo essere stato costretto a consumare tutte le ferie maturate senza che mi sia stata concessa la possibilità di dilazionarle, non mi è stata più data l’opportunità di entrare in sala operatoria (salvo qualche sporadica occasione) anzi i pazienti che si sono rivolti a me personalmente sono stati affidati da Lei ad altri colleghi. Voglio anche io tornare a fare il mio lavoro come lo facevo fino a marzo scorso e mi aspetto un futuro e delle adeguate aspettative. Il mobbing che sto subendo dal Suo inspiegabile comportamento sta stravolgendo non solo la mia vita professionale, per la quale ho fatto sacrifici e ho dato tutto me stesso, ma anche la vita dei miei figli e dei miei familiari rimasti in Siria. In una società civile, eticamente sviluppata come la nostra, il mobbing è rimasto l’unica violenza invisibile contro l’uomo. La situazione dura da ormai troppo tempo, sto pagando ingiustamente una colpa che non conosco e che Lei non vuole rendermi nota. Mi sono chiesto quasi quotidianamente quali semafori rossi io possa aver attraversato per meritarmi un trattamento lavorativo di questo tipo. Se Lei ritiene di conoscere la risposta Le chiedo di rendermela nota così da mettermi l’anima in pace. Caro Professore, per favore, tolga il Suo ginocchio dal mio collo. Come Lei, dovrei poter respirare anche io. In attesa di un Suo cortese riscontro Le porgo cordiali saluti” (la frase “per favore tolga il ginocchio dal mio collo”, richiama la morte di George Floyd a seguito di un arresto negli Stati Uniti nel maggio 2020).
Nella fattispecie, i giudici di appello, in difformità rispetto al Tribunale, hanno ritenuto che la mail in questione avesse rilievo disciplinare in quanto eccedente i limiti di continenza formale e di pertinenza, che delimitano il legittimo esercizio del diritto di critica. Nondimeno essi hanno applicato la tutela indennitaria prevista dall’art. 18, co. 5, Stat. Lav., giudicando la sanzione espulsiva sproporzionata per: la limitata intensità dell’elemento soggettivo; la divulgazione della lettera limitata al personale medico e non estesa agli altri dipendenti della struttura oppure a terzi estranei; l’assenza di precedenti disciplinari in un rapporto di durata decennale. Nel dettaglio, la Corte d’Appello ha escluso che la lettera in questione violasse i limiti di continenza sostanziale ma ha ritenuto superati i limiti della continenza formale a causa della frase conclusiva contenuta nella lettera, la quale avrebbe finito per “sovrapporre alla figura del datore di lavoro l’immagine di un gravissimo abuso di potere, connotato da volontà di discriminazione razziale”. Ha infine negato, quanto al requisito di pertinenza, che “la generalizzata diffusione della propria accusa all’operato del datore di lavoro (…) risponde(sse) ad un interesse collettivo” poiché se anche “riferita, in senso lato, a problemi scaturiti dalla strategia di gestione del personale da parte dell’azienda, è lo stesso A.A. che li presenta come problemi che concernevano solo ed esclusivamente la sua persona, e non la generalità del reparto”.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, analizza il tema del diritto di critica del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro ripercorrendo taluni principi consolidati (v. Cass. 1379/2019).
Tale diritto, come noto, trova fondamento negli artt.:
– 21 Cost., che riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione;
– 10 della Cedu, ai sensi del quale “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione”;
– 1, Stat. Lav., il quale afferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo.
I giudici ribadiscono il concetto secondo cui: “Il diritto di critica si esercita attraverso la esternazione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, per sua natura, è frutto di un’interpretazione soggettiva e personale di fatti e comportamenti. La manifestazione del pensiero in chiave critica reca con sé, di regola, un giudizio negativo, di disapprovazione dei comportamenti altrui o di dissenso rispetto alle opinioni altrui e possiede, quindi, una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione. Come si è osservato, qualunque critica rivolta ad una persona è idonea ad incidere sulla sua reputazione e, tuttavia, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (v. Cass. n. 38215/2021 e n. 1434/2015). La necessità di un contemperamento del diritto di critica con il diritto, di pari rilevanza costituzionale, all’onore e alla reputazione, impone l’osservanza di determinati limiti”.
Secondo la giurisprudenza consolidata, il diritto di critica va esercitato nel rispetto:
1) della continenza formale (correttezza e misura del linguaggio adoperato): l’esposizione della critica deve cioè avvenire nel rispetto dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui. È possibile utilizzare espressioni di qualsiasi tipo purché siano “strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato” (v. Cass. n. 12522/2016; Cass. n. 1434/2015 e Cass. n. 12420/2008). Quando la critica non sia in alcun modo “collegata e funzionale” allo scopo per cui è mossa l’offesa è “gratuita”. Il limite di continenza espressiva può dirsi “esemplificativamente superato ove si attribuiscano all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira” (così Cass. n. 1379/2019, cit.). Pertanto, secondo l’ordinanza in esame, dal momento che la critica è “per definizione espressione di dissenso, disapprovazione, di giudizi negativi sull’altrui operato, la offensività di una singola parola o di una specifica frase, estrapolata peraltro da un intero contesto, in tanto può oltrepassare la barriera della continenza formale in quanto sia veicolata con epiteti volgari, disonorevoli o infamanti oppure qualora non abbia alcun nesso con la disapprovazione espressa e motivata e si risolva pertanto in una aggressione gratuita e fine a sé stessa dell’altrui reputazione”;
2) della continenza sostanziale (veridicità dei fatti, intesa in senso non assoluto ma soggettivo). In altre parole, la continenza sostanziale esige che, laddove “la critica consista in un giudizio su fatti o condotte ascritti alla persona criticata, questi fatti siano veri, anche solo putativamente, e cioè sulla base di un’incolpevole convinzione del dichiarante” (v. Cass. n. 38215/2021, cit. e Cass. n. 25420/2017);
3) del requisito di pertinenza, “intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione“ (fra le tante, v. Cass. n. 18176/2018; Cass. n. 5523/2016, in q. sito con nota di F. ALBINIANO; Cass. n. 21362/2013). “Nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti al contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità” (così Cass. n. 1379/2019, cit.).
In sintesi, secondo la Cassazione, l’esercizio del diritto di critica è legittimo qualora il prestatore (anche nell’ipotesi di denuncia in sede penale, la cui legittimazione si fonda sugli artt. 24, co.1, e 21, co.1, Cost.) si limiti a “difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa (v. Cass. n. 21649/2016, in q. sito con nota di M. SANTUCCI e Cass. n. 16000/2009). In tale ottica risulta valorizzata anche la finalizzazione della critica a sollecitare l’attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all’interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità” (v. Cass. n. 21649/ 2016, cit.).
La Corte cassa la sentenza della Corte d’Appello (con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione) in quanto la stessa non ha correttamente applicato i criteri per la verifica del legittimo esercizio del diritto di critica sotto il profilo della continenza formale ed ha “segmentato l’indagine sulla pertinenza, là dove avrebbe dovuto procedere ad una valutazione unitaria e complessiva della inerenza delle critiche e delle modalità di diffusione delle stesse alle condizioni di lavoro, ai rapporti nei luoghi di lavoro, ai modi di esercizio dell’attività imprenditoriale e alle loro ricadute sulle condizioni di vita e di lavoro delle persone dei lavoratori”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 12 febbraio 2025, n. 3627
Svolgimento del processo
Rilevato che:
1.La Corte d’Appello di Milano ha accolto in parte l’appello del CENTRO CARDIOLOGICO MONZINO Spa e, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato a A.A. il 22.10.2020 ed aveva applicato la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, St. lav. come novellato nel 2012), ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del recesso e condannato la società al pagamento dell’indennità risarcitoria liquidata in misura pari a diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ai sensi dell’art. 18, comma 5 cit.
2. La Corte territoriale ha premesso che con lettera del 13.10.2020 era stato contestato a A.A., cardiochirurgo dipendente della struttura, di avere, il 12 ottobre 2020, inviato all’indirizzo di posta elettronica del prof. Gianluca B.B. e, per conoscenza, a tutti i medici dell’istituto (n. 147), una e-mail del seguente tenore: “Gent.le Prof. B.B., Le scrivo ancora, ma questa volta davanti ai colleghi. Alcuni di loro mi conoscono da circa venti anni, molti di loro hanno investito su di me affidandomi pazienti e credendo nella mia abilità operatoria. Da marzo, da quando lei è stato nominato Direttore del Dipartimento di Cardiochirurgia, Lei mi ha escluso totalmente dall’attività chirurgica. Questa esclusione dalla sala operatoria è nota a tutti e si può verificare facilmente con la consultazione della mia attività prima e dopo la Sua nomina. In questi mesi ho cercato più volte di contattarla per cercare di capire le motivazioni di questa sua scelta e per cercare di trovare una soluzione ma Lei si è sempre sottratto. Se la mia colpa è stata la richiesta di un inquadramento adeguato, dato dalla mia esperienza di 27 anni di chirurgia in vari ambiti, allora questa non deve essere considerata una colpa, tutt’altro, è una richiesta di uguaglianza, per arrivare ad essere trattato come altri colleghi, senza che ci sia a mio discapito discriminazione alcuna. L’uguaglianza è nella mia coscienza, per quella sono emigrato, ho sofferto e per questo ho scelto la società che amo e la terra dove morirò, l’Italia caro Professore. Se la mia colpa è stata quella di lasciare nel 2014 la Sua unità CH2 credo che quella questione sia ormai storia remota e non vedo motivo per riservarmi tutto questo rancore. Dal mio ritorno al lavoro il 20 luglio, dopo essere stato costretto a consumare tutte le ferie maturate senza che mi sia stata concessa la possibilità di dilazionarle, non mi è stata più data l’opportunità di entrare in sala operatoria (salvo qualche sporadica occasione) anzi i pazienti che si sono rivolti a me personalmente sono stati affidati da Lei ad altri colleghi. Voglio anche io tornare a fare il mio lavoro come lo facevo fino a marzo scorso e mi aspetto un futuro e delle adeguate aspettative. Il mobbing che sto subendo dal Suo inspiegabile comportamento sta stravolgendo non solo la mia vita professionale, per la quale ho fatto sacrifici e ho dato tutto me stesso, ma anche la vita dei miei figli e dei miei familiari rimasti in Siria. In una società civile, eticamente sviluppata come la nostra, il mobbing è rimasto l’unica violenza invisibile contro l’uomo. La situazione dura da ormai troppo tempo, sto pagando ingiustamente una colpa che non conosco e che Lei non vuole rendermi nota. Mi sono chiesto quasi quotidianamente quali semafori rossi io possa aver attraversato per meritarmi un trattamento lavorativo di questo tipo. Se Lei ritiene di conoscere la risposta Le chiedo di rendermela nota così da mettermi l’anima in pace. Caro Professore, per favore, tolga il Suo ginocchio dal mio collo. Come Lei, dovrei poter respirare anche io. In attesa di un Suo cortese riscontro Le porgo cordiali saluti”.
3. I giudici di appello, in difformità rispetto al Tribunale, hanno ritenuto che la comunicazione effettuata dal A.A. al prof. B.B. e a tutti i medici dipendenti della Monzino eccedesse i limiti di continenza formale e di pertinenza, che delimitano il legittimo esercizio del diritto di critica, ed avesse pertanto rilievo disciplinare. Hanno, tuttavia, giudicato la sanzione espulsiva sproporzionata per la limitata intensità dell’elemento soggettivo, per essere stata la divulgazione della lettera limitata al personale medico e non estesa agli altri dipendenti della struttura oppure a terzi estranei, per l’assenza di precedenti disciplinari in un rapporto di durata decennale; hanno quindi applicato la tutela indennitaria prevista dall’art. 18, quinto comma.
4. Avverso la sentenza Samer A.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Il CENTRO CARDIOLOGICO MONZINO Spa ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
5. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.
Motivi della decisione
Considerato che:
6. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., falsa applicazione dall’art. 1St. Lav.e dell’art. 2105 c.c. in relazione all’art. 10 CEDU e all’art. 21 Cost., per avere la Corte d’Appello giudicato disciplinarmente rilevante la condotta del lavoratore sebbene la stessa non avesse travalicato i limiti di continenza formale e di pertinenza del diritto di critica. Il ricorrente censura la decisione di secondo grado per avere erroneamente inteso l’espressione “tolga il suo ginocchio dal mio collo, come lei dovrei poter respirare anch’io” come evocativa dell’episodio di cronaca relativo a George Floyd, così leggendo la critica al professor B.B. come avente una connotazione razziale. Sottolinea come detto episodio di cronaca non è mai citato, nominato o richiamato nel corpo della lettera e come anzi la uguaglianza di trattamento sia invocata, non per ragioni afferenti alla razza o alla nazionalità, ma unicamente al fine di perorare un inquadramento professionale adeguato. Argomenta che il giudice di primo grado aveva correttamente letto l’espressione in esame dal punto di vista della vittima di un abuso di potere e non come riferita all’autore di tale abuso. Assume, quanto al requisito della pertinenza, l’esistenza di un astratto interesse della platea dei medici a conoscere il messaggio inviato da un collega al primario, attinente a profili gestionali e organizzativi del rapporto di lavoro, messaggio col quale l’attuale ricorrente mirava ad accendere un faro sulla propria condizione di disagio per cercare conforto o aiuto nei colleghi, dato che le legittime istanze e richieste dal medesimo avanzate alla direzione aziendale erano rimaste tutte senza risposta.
7. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dall’art. 1St. Lav.e dell’art. 2105 c.c., nonché vizio di motivazione, per avere la Corte d’Appello inspiegabilmente considerato superato il limite della pertinenza del diritto di critica in ragione della pregressa assistenza di un legale in favore del lavoratore.
8. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., falsa applicazione dall’art. 18, commi 4 e 5, St. Lav.come novellato nel 2012, dell’art. 2106c.c., del c.c.n.l. Sanità privata, per non avere la Corte d’Appello sussunto la condotta contestata nelle previsioni contrattuali punite con misure conservative, con applicazione della tutela reintegratoria.
9. I primi due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente per connessione logica, sono fondati.
10. Sul tema del diritto di critica del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro la giurisprudenza di legittimità ha affermato principi ormai consolidati (v. da ultimo Cass. 1379 del 2019con ampi riferimenti ai precedenti).
11. Il diritto di critica trova fondamento nella nostra Costituzione, che all’art. 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, e nell’art. 10della Cedu che ribadisce come “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione”. L’art. 1dello Statuto dei lavoratori riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo.
12. Il diritto di critica si esercita attraverso la esternazione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, per sua natura, è frutto di un’interpretazione soggettiva e personale di fatti e comportamenti. La manifestazione del pensiero in chiave critica reca con sé, di regola, un giudizio negativo, di disapprovazione dei comportamenti altrui o di dissenso rispetto alle opinioni altrui e possiede, quindi, una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione. Come si è osservato, qualunque critica rivolta ad una persona è idonea ad incidere sulla sua reputazione e, tuttavia, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (v. Cass. n. 12420 del 2008; n. 1434 del 2015; n. 38215 del 2021). La necessità di un contemperamento del diritto di critica con il diritto, di pari rilevanza costituzionale, all’onore e alla reputazione, impone l’osservanza di determinati limiti.
13. La giurisprudenza ha individuato i limiti del legittimo esercizio del diritto di critica nella continenza formale e sostanziale, legati rispettivamente alla correttezza e misura del linguaggio adoperato e alla veridicità dei fatti, intesa in senso non assoluto ma soggettivo, nonché nel requisito di pertinenza, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione (v. Cass. n. 21362 del 2013; n. 29008 del 2008; n. 23798 del 2007; n. 11220 del 2004; più recentemente, Cass. n. 5523 del 2016; n. 19092 del 2018; n. 14527 del 2018; n. 18176 del 2018).
14. Sul versante della continenza formale si è specificato che l’esposizione della critica deve avvenire nel rispetto dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui. Possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (v. Cass. n. 12420 del 2008; n. 1434 del 2015; n. 12522 del 2016). L’offesa è “gratuita” quando non sia in alcun modo collegata e funzionale allo scopo per cui la critica è mossa. Con specifico riferimento al rapporto di lavoro si è affermato che il limite di continenza espressiva può dirsi “esemplificativamente superato ove si attribuiscano all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira” (così Cass. n. 1379 del 2019 cit.).
15. Il limite della continenza sostanziale esige che, quando la critica consista in un giudizio su fatti o condotte ascritti alla persona criticata, questi fatti siano veri, anche solo putativamente, e cioè sulla base di un’incolpevole convinzione del dichiarante (v. Cass. n. 7847 del 2011; n. 25420 del 2017; n. 38215 del 2021).
16. Sotto il profilo della pertinenza, si è osservato che la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela. Nell’ambito del diritto di cronaca tale requisito viene definito continenza materiale, parametrata all’interesse pubblico alla diffusione dell’informazione. Nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti al contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità (così Cass. n. 1379 del 2019 cit.).
17. Proprio in tema di esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro questa Corte ne ha affermato la legittimità ove il prestatore (anche nel caso in cui il suo comportamento si traduca in una denuncia in sede penale, la cui legittimazione si fonda sugli articoli 24, primo comma e 21, primo comma, della Costituzione) si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa (v. Cass. n. 29008 del 2008; n. 16000 del 2009; n. 21649 del 2016). In tale ottica si è valorizzata anche la finalizzazione della critica a sollecitare l’attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all’interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità (v. Cass. n. 21649 del 2016 cit.).
18. La Corte d’Appello ha escluso che la lettera in questione violasse i limiti di continenza sostanziale riconoscendo che “dette opinioni sono il frutto della legittima personale valutazione del lavoratore di alcuni fatti storicamente veri, verificatisi dopo la nomina di B.B. a responsabile del dipartimento di chirurgia cardiovascolare (…); fatti storicamente veri che nell’opinione del lavoratore tradirebbero un intento punitivo del datore di lavoro nei suoi confronti” (sentenza, p. 11). Ha invece ritenuto superati i limiti della continenza formale a causa della frase conclusiva contenuta nella lettera (“Caro Professore, per favore, tolga il Suo ginocchio dal mio collo. Come Lei, dovrei poter respirare anche io”) per “l’equiparazione che il reclamato fa tra la propria persona e quella di George Floyd (…) finendo per sovrapporre alla figura del datore di lavoro l’immagine di un gravissimo abuso di potere, connotato da volontà di discriminazione razziale”. Ha infine negato, quanto al requisito di pertinenza, che “la generalizzata diffusione della propria accusa all’operato del datore di lavoro (…) risponde(sse) ad un interesse collettivo” poiché se anche “riferita, in senso lato, a problemi scaturiti dalla strategia di gestione del personale da parte dell’azienda, è lo stesso A.A. che li presenta come problemi che concernevano solo ed esclusivamente la sua persona, e non la generalità del reparto” (sentenza, p. 12-13).
19. Deve premettersi che il giudizio di fatto sulla compatibilità di una determinata espressione con i limiti di continenza formale o sostanziale o con il canone di pertinenza non è suscettibile di censura in sede di legittimità (v. per tutte Cass. n. 1379 del 2019) mentre è certamente consentito a questa Corte esaminare il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto attraverso la verifica del rispetto, da parte dei giudici di appello, dei criteri in forza dei quali il diritto di critica possa dirsi legittimamente esercitato. Nel caso di specie tali criteri non risultano correttamente applicati.
20. La sentenza impugnata ha ravvisato un eccesso, rispetto al limite della continenza formale, in una unica espressione contenuta nella lettera del dott. A.A., intesa come evocativa di un episodio di cronaca, teatro e simbolo di discriminazione razziale, ed ha concluso che, nonostante la correttezza espositiva, quella frase fosse “gravemente offensiva” nei confronti del superiore e del datore di lavoro destinatario.
21. Posto che, come detto, la critica è per definizione espressione di dissenso, disapprovazione, di giudizi negativi sull’altrui operato, la offensività di una singola parola o di una specifica frase, estrapolata peraltro da un intero contesto, in tanto può oltrepassare la barriera della continenza formale in quanto sia veicolata con epiteti volgari, disonorevoli o infamanti oppure qualora non abbia alcun nesso con la disapprovazione espressa e motivata e si risolva pertanto in una aggressione gratuita e fine a sé stessa dell’altrui reputazione.
22. La Corte d’Appello non ha compiuto questa verifica ed ha giudicato esorbitante la frase in questione, nonostante la sua pacifica correttezza espositiva, pur avendo accertato in fatto che una delle critiche mosse dal A.A. aveva ad oggetto la condotta discriminatoria del prof. B.B. “implicitamente ribadita dal riferimento del A.A. alle proprie origini e alla propria storia personale” (sentenza, p. 12; v. anche lettera trascritta a p. 4 della sentenza ove si legge “Se la mia colpa è stata la richiesta di un inquadramento adeguato, dato dalla mia esperienza di 27 anni di chirurgia in vari ambiti, allora questa non deve essere considerata una colpa, tutt’altro, è una richiesta di uguaglianza, per arrivare ad essere trattato come altri colleghi, senza che ci sia a mio discapito discriminazione alcuna. L’uguaglianza è nella mia coscienza, per quella sono emigrato, ho sofferto e per questo ho scelto la società che amo e la terra dove morirò, l’Italia caro Professore”). La Corte d’Appello, partendo dalla appurata verità dei fatti storici e dalla correttezza espositiva della lettera, avrebbe dovuto procedere, per verificare il rispetto del limite di continenza formale, ad una più attenta analisi volta a stabilire se la frase a effetto inserita nella parte finale della lettera costituisse una espressione riassuntiva oppure figurata della ampia critica prima articolata, nei suoi plurimi profili, e dello stato d’animo descritto, anche con espliciti riferimenti ad una condizione di mobbing, o se invece veicolasse un’offesa autonoma, ultronea, in nessun modo agganciata alle rivendicazioni e al rammarico narrato e avente quale unico o prevalente scopo quello di colpire, in modo gratuito e in nessun modo circostanziato, l’operato del prof. B.B.. La Corte d’Appello non ha correttamente applicato i criteri per la verifica del legittimo esercizio del diritto di critica sotto il profilo della continenza formale e ciò determina l’accoglimento, per tale aspetto dei motivi di ricorso esaminati.
23. A conclusioni analoghe si giunge riguardo al canone di pertinenza, che la Corte d’Appello ha ritenuto non rispettato a causa della diffusione della lettera a tutti i medici della struttura. Tale conclusione rivela un errore di prospettiva da parte dei giudici di appello, per aver focalizzato la valutazione su un dato, l’esistenza di un interesse collettivo alla diffusione di una notizia o accadimento, che è proprio del diritto di cronaca, attribuendo allo stesso un ruolo dirimente. Come ribadito da questa Corte, nell’ambito del rapporto di lavoro il limite di pertinenza si misura sulla rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione (v. Cass. n. 1379 del 2019; n. 1173 del 1986). Il modo in cui la critica è veicolata può certamente avere rilievo nel giudizio di pertinenza, ma questo deve muoversi non secondo il punto di vista dell’interesse pubblico o collettivo a conoscere la notizia o l’accusa, bensì seguendo il focus della inerenza di quelle modalità all’interesse meritevole di tutela e, nella specie, alle problematiche lavorative esposte dal dott. A.A. nella lettera. Una lettera che esordisce con la premessa “Le scrivo ancora, ma questa volta davanti ai colleghi” e che in più punti chiama in causa i colleghi “che hanno investito su di me affidandomi pazienti e credendo nella mia abilità operatoria” e ai quali è ben nota “questa esclusione dalla sala operatoria”. A causa del descritto errore prospettico, la Corte di merito ha segmentato l’indagine sulla pertinenza, là dove avrebbe dovuto procedere ad una valutazione unitaria e complessiva della inerenza delle critiche e delle modalità di diffusione delle stesse alle condizioni di lavoro, ai rapporti nei luoghi di lavoro, ai modi di esercizio dell’attività imprenditoriale e alle loro ricadute sulle condizioni di vita e di lavoro delle persone dei lavoratori.
24. Per le ragioni fin qui esposte, accolti i primi due motivi di ricorso perché fondati e assorbito il terzo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’Appello, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, dichiara assorbito il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.