Le dichiarazioni pubbliche dell’imprenditore che affermi di preferire uomini o donne sopra i 40 anni per le posizioni apicali dell’azienda costituisce una discriminazione indiretta in danno del personale di sesso femminile, in quanto oggettivamente idonee a dissuadere le lavoratrici dall’accesso al lavoro e dal presentare le candidature per i ruoli manageriali.

Nota a Trib. Busto Arsizio 4 giugno 2024, R.G.n. 564/2022

Sonia Gioia

In materia di parità di trattamento sul luogo di impiego, la condotta del datore di lavoro che, nel corso di un evento pubblico, dichiari di “perseguire una politica di assegnazione nei posti manageriali e ‘importanti’ che privilegia gli uomini, limitando tali ruoli esclusivamente a donne oltre i quaranta anni perché libere da impegni familiari” costituisce una grave forma di discriminazione in ragione dell’età, del sesso, dello status e carichi familiari,  in violazione del generale principio di non discriminazione, sancito dall’art 2, Direttiva 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di accesso all’occupazione, sia privata sia pubblica”, attuata nel nostro ordinamento con D. LGS. 9 luglio 2003, n. 216) e dall’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, oltre che dei valori fondanti la Costituzione, dal momento che tali dichiarazioni, tenuto conto del contesto in cui sono proferite e dell’oggettiva percezione da parte del pubblico, sono di fatto idonee a disincentivare le lavoratrici dall’accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice della società.

Lo ha stabilito il Tribunale di Busto Arsizio 4 giugno 2024, R. G. n, 564/2022, investito della questione, ai sensi dell’art. 5, D.LGS. n. 216 cit., dall’Associazione Nazionale Lotta alle Discriminazioni (ANLoD), che lamentava il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dall’amministratrice delegata della società Betty Blue s.p.a. (la stilista Elisabetta Franchi) per aver dichiarato di preferire, per le posizioni apicali dell’azienda, personale di sesso maschile o donne che abbiano più di 40 anni di età.

La datrice di lavoro – nel corso di un evento mediatico dal titolo “Donne e moda” trasmesso in diretta streaming sui social network e alla presenza di importanti esponenti dello Stato, dell’industria dell’alta moda e del giornalismo – aveva dichiarato di “puntare”, nella scelta dei dirigenti e dei lavoratori assegnati alle posizioni apicali, su uomini o donne di età non inferiore ai 40 anni in quanto più stabili sul piano familiare e lavorativo (“se dovevano sposarsi, si sono già sposate, se dovevano far figli, li hanno già fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello e quindi diciamo che io le prendo che hanno fatto tutti i quattro giri di boa, quindi sono li belle tranquille con me al mio fianco e lavorano h 24” e “quando metti una donna in una carica importante, se è molto importante, poi non ti puoi permettere di non vederla arrivare per due anni perché quella posizione è scoperta”, alludendo ad un’eventuale maternità).

Al riguardo, il Tribunale ha rilevato che le dichiarazioni di un soggetto che, per la sua posizione, è in grado di incidere sui processi decisionali di un’azienda, sono idonee a determinare una discriminazione “in considerazione del pregiudizio, anche solo potenziale, che una categoria di soggetti potrebbe subire in termini di svantaggio o maggiore difficoltà, rispetto ad altri non facenti parte di quella categoria, nel reperire un bene della vita, quale l’occupazione” (Cass. S.U. 21 luglio 2021, n. 20819, annotata in q. sito da M.N. BETTINI; Cass. 15 dicembre 2020, n. 28646).

Ciò, dal momento che nella nozione di discriminazione vietata per ciò che attiene alle “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro”, in forma subordinata, autonoma o qualsiasi altra forma, “compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti livelli della gerarchia professionale”, contenuta all’art. 3, par. 1, lett. a), Dir. cit., vi rientrano, non solo le condotte materiali, ma  anche le dichiarazioni pubbliche relative ad una determinata politica assunzionale,  indipendentemente dal fatto che “il sistema di assunzioni in questione non si fondi su un’offerta pubblica o su una trattativa diretta a seguito di una procedura di selezione che presupponga la presentazione di candidature nonché una selezione di queste ultime in funzione dell’interesse che esse presentano per il datore di lavoro”.

Tuttavia, affinché dichiarazioni che suggeriscono l’esistenza di una politica assunzionale discriminatoria siano considerate lesive del principio di parità di trattamento è necessario che esse possano essere effettivamente ricondotte alla politica di assunzioni di un determinato datore di lavoro, il che impone che il collegamento che le stesse presentano con le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso tale imprenditore non sia meramente ipotetico.

L’esistenza di siffatto collegamento deve essere verificata dal giudice di merito nell’ambito di una valutazione globale delle circostanze caratterizzanti le dichiarazioni in questione, tenuto conto della natura e del contenuto delle affermazioni, del contesto in cui le stesse sono state proferite (in particolare, il loro carattere pubblico o privato, il fatto che siano state oggetto di diffusione tra il pubblico, mediante i media tradizionali o i social network) e, soprattutto, del ruolo che l’autore delle dichiarazioni riveste e della sua capacità di esercitare un’influenza determinante sulla politica assunzionale  (CGUE 23 aprile 2020, C-507/2018, in q. sito, con nota in di F. ALBINIANO, CGUE 25 aprile 2013, C-81/12; Cass. n. 28646 cit.).

Nel caso di specie, secondo il Tribunale, la condotta tenuta dall’imprenditrice costituisce una grave forma di discriminazione indiretta “multifattoriale e intersezionale”- “frutto di un pregiudizio che lede i minimali principi di dignità sociale e che risulta “inaccettabile” in una società moderna – in quanto oggettivamente idonea,  sia per il contesto in cui è stata posta in essere che per l’estrema diffusione, a dissuadere le giovani lavoratrici dall’accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice della società, relegandole a ruoli aziendali subalterni almeno fino agli “anta”.

Tali dichiarazioni costituiscono, in primo luogo, una discriminazione indiretta in ragione dell’età, vietata dall’art. 2, Dir. cit. e dall’art. 25, co. 2, D.LGS. 11 aprile 2006, n. 198 (c.d. Codice delle pari opportunità), dal momento che il requisito anagrafico – che nel caso dei manager, tenuto conto delle mansioni esercitate e del contesto in cui vengono espletate, non è un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa – non può costituire un fattore ostativo in sede di “accesso all’occupazione e al lavoro” o di “avanzamenti di carriera” (art. 3, co. 1, lett. a) e b), D.LGS. n. 216 cit.).

L’oggettiva discriminazione fondata sul requisito anagrafico si sovrappone, poi, ad altri fattori di pregiudizio, quali quelli per genere, impegni familiari e status: affermare di preferire, per le posizioni apicali dell’azienda, uomini o donne che abbiano più di quarant’anni costituisce, infatti, una grave negazione dei canoni di uguaglianza e di solidarietà sociale (artt. 2 e 3, Cost.), perché impedisce la realizzazione umana nel lavoro a chi ancora può avere figli, oltre a porsi in contrasto con l’art. 37 Cost., che tutela il lavoro della donna e la maternità e con l’art. 41 Cost., che vincola l’iniziativa privata economica al rispetto dell’utilità sociale.

Ciò, considerato che il diritto costituzionalmente garantito di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto o ogni altro mezzo di diffusione (art. 21 Cost.) non può essere esercitato in modo indiscriminato, né può di per sé legittimare la lesione di beni anch’essi di rilievo costituzionale e delle norme che ne fondano i presupposti giuridici, quali, nella specie, gli artt. 2, 3, 4, 35 37 Cost., che tutelano la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e protezione sociale.

Sulla base di tali considerazioni, il giudice ha dichiarato che le esternazioni pubbliche dell’amministratrice delegata, “del tutto corrispondenti a ciò che viene attuato nelle politiche occupazionali della società”, dove nei ruoli apicali sono assunte solo donne over 40, costituiscono una violazione del principio di parità di trattamento che incide sull’accesso e sullo sviluppo della carriera, precisando che le dichiarazioni rese, nei giorni successivi all’evento, a parziale rettifica delle precedenti (“riconosco di essermi espressa in modo inappropriato” “ma lavorare nel mondo della moda richiede (…) sacrifici che non tutte le donne possono affrontare, anche per l’impossibilità di molte di loro, pur volendo, di rientrare al lavoro dopo la maternità”) non sono idonee ad escludere la discriminazione, in quanto non è emersa “la chiara presa di distanza” dalle proprie precedenti esternazioni.

Conseguentemente, il Tribunale ha condannato l’azienda al risarcimento del danno in favore dell’associazione ricorrente e alla pubblicazione del dispositivo della pronuncia su un quotidiano nazionale, ordinando, altresì, di promuovere “un consapevole abbandono dei pregiudizi di età, genere, carichi e impegni familiari nelle fasi di selezione del personale per le posizioni di vertice”, con adozione di un piano di formazione aziendale sulle politiche discriminatorie.

Sentenza 

Dichiarare di preferire dipendenti uomini o donne over 40 per le posizioni dirigenziali è discriminatorio
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