In caso di nullità, si applica la tutela reintegratoria attenuata ex art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015.
Nota a App. Roma 27 gennaio 2025, n. 138
Fabrizio Girolami
Il patto di prova apposto al contratto (art. 2096 c.c.) assolve alla funzione di consentire alle parti la reciproca valutazione di convenienza del rapporto di lavoro e, come tale, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni oggetto dell’esperimento. In assenza di tale specifica indicazione, il patto è “nullo” e tale vizio, non estendendosi all’intero contratto di lavoro, determina l’automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio (c.d. nullità parziale ex art. 1419, co. 2, c.c.). In caso di recesso ad nutum intimato dal datore per mancato superamento della prova, qualora il patto sia nullo e, dunque, invalido, il fatto posto alla base del licenziamento è da ritenersi “insussistente” e, dunque, si sostanzia in un licenziamento pretestuoso, senza causa. Nel sistema normativo del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), come complessivamente delineato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 16.7.2024, n. 128, trova applicazione, a favore del lavoratore, non la “tutela generale indennitaria” (ex art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015), ma la “tutela reintegratoria attenuata” (ex art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015), con riconoscimento di un’indennità, da commisurarsi considerando l’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (detraendo dal “tetto massimo” delle 12 mensilità non l’intero importo percepito da un altro datore di lavoro, ma solamente quanto si sovrappone all’intero periodo di estromissione).
È il principio espresso dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 138 del 27 gennaio 2025 (R.G. n. 2175/2022), con riferimento a una controversia instaurata da un lavoratore che, licenziato ad nutum dalla propria società per asserito mancato superamento del patto di prova, aveva impugnato il recesso, deducendo la nullità del patto medesimo, in quanto la formulazione adottata nell’individuazione delle mansioni assegnate (“tecnico commerciale” con qualifica di quadro di 8° livello del C.C.N.L. metalmeccanici Confapi) era generica e inidonea a garantire un sufficiente grado di certezza in ordine alle mansioni assegnate e oggetto della prova, con richiesta di applicazione della tutela reintegratoria ex art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015.
La Corte romana, a parziale conferma della sentenza del Tribunale della stessa sede (Trib. Roma n. 1836/2022), ha rilevato, tra l’altro, quanto segue:
- secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. civ., ord. 6.3.2023, n. 6552; Cass. civ., 13.4.2017, n. 9597), il patto di prova apposto al contratto di lavoro deve risultare da “atto scritto” e deve contenere – se del caso ponendo riferimento, eventualmente, alle previsioni del contratto collettivo ove sul punto sufficientemente chiaro e preciso – anche la “specifica indicazione delle mansioni da espletarsi”; la relativa mancanza costituisce motivo di nullità del patto, con automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio, atteso che, da una parte, la possibilità per il lavoratore “di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini”, e, dall’altra, la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull’esito della prova, presuppongono che “questa debba effettuarsi in relazione a compiti esattamente identificati sin dall’inizio”;
- nel caso di specie, come già osservato dal Tribunale, il patto di prova contenuto nel contratto individuale di lavoro non era specifico e, dunque, affetto da nullità, in quanto il riferimento operato nel contratto individuale alla sola qualifica di inquadramento è – di per sé e in difetto di altre specificazioni – inidoneo “a consentire la identificazione ex ante delle mansioni di concreta adibizione del dipendente e quindi le attività lavorative oggetto della prova”;
- sull’individuazione delle tutele applicabili al lavoratore, deve ritenersi superato e non più condivisibile l’assunto della Cassazione (Cass. civ., 14.7.2023, n. 20239, in q. sito, con nota di F. IACOBONE), secondo cui il recesso ad nutum, intimato in assenza di valido patto di prova, equivarrebbe a un ordinario licenziamento – soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della “giusta causa” o del “giustificato motivo” -, il quale, nel regime introdotto dal D.Lgs. n. 23/2015, è assoggettato “alla regola generale della tutela indennitaria di cui all’art. 3, co. 1, del predetto d.lgs., non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi, di cui al successivo comma 2 del menzionato art. 3, nelle quali è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro”;
- tale affermazione va superata a seguito della sentenza n. 128/2024 della Corte Costituzionale, che, come noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non prevede che “la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage)”;
- orbene, nel caso di specie, in cui il licenziamento è fondato sull’asserito mancato superamento di un patto di prova nullo, il fatto posto alla base del licenziamento è da ritenersi “insussistente” e, in quanto tale, è da considerare “senza causa” (il licenziamento è, cioè, privo di una causa atta ex lege a giustificarlo, collidendo con il principio “della necessaria natura causale del recesso”), cui consegue, a favore del lavoratore, quale “unica tutela adeguata” secondo gli insegnamenti della citata sentenza n. 128/2024 della Consulta, “la tutela reintegratoria attenuata” (ex art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015);
- quanto all’indennità risarcitoria riconoscibile al lavoratore, secondo gli insegnamenti della Cassazione (Cass. civ. ord. 10.10.2024, n. 26446, in q. sito con nota di P. COTI), la determinazione della suddetta indennità deve avvenire considerando l’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, deducendo quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione a titolo di “aliunde perceptum” o “percipiendum”, senza dare rilievo alla collocazione temporale delle attività lavorative svolte nel corso del periodo di estromissione, fino a un massimo di 12 mensilità.