Il dirigente medico non può ottenere più della retribuzione mensile a lui spettante calcolata in misura onnicomprensiva, anche se, nell’ipotesi di assenza per ferie, malattie, festività, permessi, ecc. l’Asl calcoli il debito orario assoluto in 6 ore anziché in 6,20 ore (risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per 6 giorni), con la conseguenza che egli deve prestare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris pari a 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana.

Nota a Cass. 2 marzo 2025, n. 5501

Maria Novella Bettini

“Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro.

In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici”.

Il principio è ribadito dalla Corte di Cassazione 2 marzo 2025, n. 5501 (v. anche Cass. 10 settembre 2024, n. 24327, in q. sito con nota di M.N. BETTINI; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173; Cass. 5 agosto 2020, n, 16711; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942; Cass. S.U. n. 9146/2009).

Nella specie, la Corte chiarisce che secondo la contrattazione collettiva il sistema retributivo scelto per compensare l’attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), “depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative”.

Soprattutto dall’art. 14 del c.c.n.l. del 2005, in merito all’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che il diritto alla retribuzione del medico è stabilita su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, co. 3, del D.Lgs. n. 165/2001, per il quale “Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)”.

Tale retribuzione non è computata ad ore e il suo ammontare non ha nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro (tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto).

Pertanto, il dipendente che fornisca una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente.

La richiesta del medico non può pertanto essere ricollegata al superamento del limite di 38 ore che, “in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale”.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE 2 marzo 2025, n. 5501

Lavoro – Debito originario giornaliero – Differenze retributive – Dirigente medico – Onnicomprensività della retribuzione – Esatto adempimento – Responsabilità datoriale – Riposi e ferie – Accoglimento

Fatti di causa

1.Nell’originario ricorso al Tribunale di Benevento, M.R., dirigente medico di I livello in servizio presso la ASL di Avellino, UOC di emergenza sanitaria, P.O.S.(…) S.A.D.L., chiedeva l’accertamento dell’erroneo sistema di calcolo del cd. debito orario giornaliero adottato dall’ASL in occasione delle assenze per ferie, festività, permessi ecc.; in particolare, la dirigente esponeva che, contrariamente a quanto accadeva per i giorni di presenza in servizio, il turno di lavoro ‒ la cui durata era quantificata in 6 ore e 20 minuti al dì, per un totale di 38 ore settimanali ‒, veniva calcolato dalla ASL, nei giorni di assenza, nella più ridotta misura di sole 6 ore giornaliere, così determinando un maggiore debito orario e il conseguente onere di svolgimento di lavoro “supplementare” per il recupero dello stesso fino alle 38 ore settimanali, donde, per tal guisa, il diritto a pretenderne la relativa remunerazione.

In ragione di tanto, il dirigente medico chiedeva dichiararsi l’illegittimità del sistema di calcolo adoperato dall’ASL e condannarsi la stessa al pagamento delle relative differenze retributive per il periodo 1.1.2013/30.09.2017.

2. Il Tribunale, ritenendo che il debito orario giornaliero andasse quantificato, anche nei giorni di assenza, nella misura di 6 ore e 20 minuti, accoglieva il ricorso e, per l’effetto, condannava la ASL al pagamento delle differenze retributive.

3. La Corte partenopea, pur convenendo che non poteva invocarsi il concetto di “lavoro straordinario” in quanto escluso dall’art. 65 c.c.n.l. 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica, rigettava l’appello della ASL di Avellino sul presupposto che, nella fattispecie, si versasse nella diversa ipotesi in cui il dirigente, non vedendosi computate correttamente le ore lavorative nei giorni di legittima assenza, finiva con l’avere un debito orario inesistente che lo costringeva a rendere una prestazione eccedente rispetto a quella (38 ore settimanali) che avrebbe espletato qualora non si fosse assentato per ferie, festività, permessi ecc.

4. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la ASL di Avellino con unico motivo, cui si oppone con controricorso il lavoratore.

Ragioni della decisione

1.Con unico articolato motivo si denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione agli artt. 24 del d.lgs. n. 165/2001 e all’art. 14 del c.c.n.l. dell’Area dirigenza medica del 3.11.2005; contraddittorietà e carenza di motivazione in relazione alla qualificazione del titolo di condanna al pagamento- illogicità della motivazione- violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 cpc.

La ASL osserva che nella vigenza del principio di onnicomprensività della retribuzione, al dirigente medico non può essere in ogni caso concessa alcuna remunerazione di orario eccedente quello contrattualmente previsto anche se, come nella specie, derivante da un erroneo calcolo del “debito orario” giornaliero.

La Corte partenopea era incorsa in errore perché, da un lato, aveva correttamente ritenuto non potesse venire in considerazione il concetto di lavoro straordinario ma, dall’altro, in contraddizione rispetto alle premesse, aveva rilevato che il lavoro eccedentario (rispetto alle 38 ore settimanali), svolto a causa dell’erroneo computo delle ore di assenza (per ferie, permessi ecc.), dovesse essere comunque remunerato, ciò in violazione del principio di onnicomprensività della retribuzione.

2. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dai controricorrenti in relazione alla violazione dell’art. 366, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per violazione del principio di autosufficienza.

2.1 Il principio di specificità del ricorso per cassazione, secondo cui il giudice di legittimità deve essere messo nelle condizioni di comprendere l’oggetto della controversia e il contenuto delle censure senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa, deve essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa S. ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Cass. n. 8117/2022); il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. consiste in un’esposizione che deve garantire a questa Corte di avere una chiara e completa cognizione non solo del fatto sostanziale che ha originato la controversia, ma anche del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la sentenza impugnata (Cass., Sez. U. 28 novembre 2018, n. 30754, che richiama Cass. n. 21396/2018).

Ne deriva che il ricorrente ha l’onere di operare una sintesi funzionale alla piena valutazione dei motivi in base alla sola lettura del ricorso, al fine di consentire alla Corte (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la testuale riproduzione dei quali in tutto o in parte è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto (Cass. n.24340/2018).

Rileva il Collegio che il ricorso è stato redatto nel rispetto di tali principi, in quanto ha chiarito l’oggetto delle doglianze mosse all’iter argomentativo della sentenza impugnata ed ha sinteticamente svolto la narrativa della vicenda processuale senza riprodurre il testo integrale degli atti del giudizio di merito; l’inserimento di alcuni stralci dei medesimi è stato effettuato nell’ambito di una sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata.

3. Ciò posto, il motivo di ricorso è fondato, in ragione dei principi già enunciati da questa Corte.

3.1 La questione controversa riguarda i criteri di calcolo del debito orario giornaliero dei medici turnisti il cui orario di lavoro è articolato su sei giorni per 38 ore settimanali contrattuali.

Nell’ipotesi di assenza del medico per ferie, malattie, festività, permessi, ecc., l’ASL calcola il debito orario assolto di diritto in 6 ore, anziché in 6,20 ore: risultato che, invece, si otterrebbe frazionando le 38 ore di debito orario settimanale per i sei giorni lavorativi.

Ne consegue che il dirigente medico, per assolvere al debito orario settimanale, deve fare non già le ordinarie 38 ore contrattuali, ma un quid pluris parametrato al numero di assenze di servizio (i.e., 20 minuti in più per ogni legittima assenza registrata nel corso della settimana) che, in quanto orario indebitamente computato, andrebbe (a suo dire) retribuito a parte.

3.2. Secondo il medico, la regola dell’orario giornaliero di ore 6,20 vale sia per l’orario assolto effettivamente sia per il servizio figurativo, legato alle assenze legittime, perché altrimenti si crea «un indebito aumento della prestazione lavorativa» (p. 22 ricorso per cassazione), mentre la ASL obietta che la “flessibilità” oraria comporta l’inutilità di un approccio che mira a determinare la durata media della giornata lavorativa, aspetto che non influisce sulla dinamica salariale del dirigente medico, il quale comunque ha fruito per intero delle sue giornate di assenza.

3.3. Il tema del contendere sta, allora, nel vedere (da un lato) se il calcolo del debito orario è stato condotto correttamente dall’Azienda, nel rapporto tra ore assolte di diritto per assenze e ore assolte per turni di lavoro, e (dall’altro) se quel criterio di calcolo, seppure erroneo, si sia in concreto tradotto in «un indebito aumento della prestazione lavorativa», da retribuire in termini di differenze retributive (così al 1° cpv. di p. 25 del ricorso per cassazione).

3.4 Sull’illegittimità del criterio di calcolo adottato dall’ASL nel periodo di causa c’è ormai, come rileva finanche il P.G. nella sua requisitoria, il giudicato interno, di cui dà atto la sentenza impugnata.

Lo stesso medico riferisce, peraltro, che «dopo diffide e ricorsi» la ASL avrebbe modificato il proprio orientamento «e, a decorrere da marzo 2019, ha quantificato correttamente la durata dei giorni di assenza».

Il dato è confermato anche dall’art. 24 (“Orario di lavoro dei dirigenti”) del c.c.n.l. 19.12.2019, Area Sanità, il quale dispone, al comma 7, che «Ai sensi di quanto disposto dalle disposizioni legislative vigenti, l’orario di lavoro è articolato su cinque o sei giorni, con orario convenzionale rispettivamente di sette ore e trentasei minuti e di sei ore e venti minuti».

3.5 Una previsione contrattuale (quest’ultima) che innova decisamente rispetto al precedente dettato del c.c.n.l. del 3.11.2005, applicabile ratione temporis, il quale si limita a stabilire (art. 14, comma 2) che l’orario di lavoro dei dirigenti medici è confermato in 38 ore settimanali.

3.6 L’indicazione in 38 ore dell’orario contrattuale settimanale, contenuta nella disciplina applicabile, senza specificazione dell’orario convenzionale giornaliero, ha indotto il giudice d’appello a negare le rivendicate differenze retributive, alla stregua del disposto di cui all’art. 24 d.lgs. n. 165/2001 secondo il quale la retribuzione remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti al dirigente, escludendo la fondatezza della pretesa di un compenso “aggiuntivo” fondata sulla parametrazione oraria della retribuzione.

3.7. Un approdo che può essere condiviso, pur con le precisazioni di cui si dirà.

4. Nel caso di specie, si rileva che l’art. 17, comma 2, c.c.n.l. del 5.12.1996 per l’area della dirigenza medica e veterinaria – parte normativa quadriennio 1994-97 e parte economica biennio 1994-95 ‒ determina l’orario dei dirigenti medici in 38 ore settimanali, ma l’art. 65, comma 3, secondo periodo, dispone che «la retribuzione di risultato compensa anche l’eventuale superamento dell’orario di lavoro di cui agli artt. 17 e 18 per il raggiungimento dell’obiettivo assegnato».

Se corrisposto il trattamento accessorio costituito dalla retribuzione di risultato (art. 63 c.c.n.l. cit.) non è possibile, quindi, la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario, poiché la complessiva prestazione del dirigente deve essere svolta al fine di conseguire gli obiettivi propri e immancabili dell’incarico affidatogli.

Già in epoca risalente le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9146) avevano affermato tale regola generale, negando fosse possibile la distinzione tra il superamento dell’orario di lavoro preordinato al raggiungimento dei risultati assegnati e quello imposto da esigenze del servizio ordinario.

4.1 In più recenti arresti (Cass. 22 marzo 2017, n. 7348; Cass. 28 marzo 2017, n. 7921; Cass. 26 aprile 2017, n. 10322; Cass. 2 luglio 2018, n. 17260; Cass. 11 luglio 2018, n. 18271; Cass. 8 novembre 2019, n. 28942), relativi ai contratti collettivi del 5.12.1996 e 8.6.2000, la Suprema Corte ha ribadito che l’eccedentarietà oraria non è mai suscettibile di autonoma remunerazione.

Ai principi affermati nelle decisioni di questa Corte innanzi richiamate è stata data continuità con successive pronunce (Cass. 5 agosto 2020, n. 16711; Cass. 7 agosto 2020, n. 16855; Cass. 4 gennaio 2023, n. 173), integralmente condivise dal Collegio, che hanno tenuto conto delle ulteriori disposizioni contenute nel c.c.n.l. del 31.11.2005, le quali non hanno innovato rispetto alla disciplina dettata dai contratti collettivi del 1996 e del 2000 (v. Cass. n. 28787/2017, Cass. n. 8958/2012).

4.2 Questo indirizzo giurisprudenziale è del tutto rispettoso del complessivo impianto della contrattazione collettiva in materia.

Infatti, l’art. 60 del c.c.n.l. del 3.11.2005 dispone che: «nelle parti non modificate o integrate o disapplicate dal presente contratto, restano confermate tutte le norme dei sotto elencati contratti ivi comprese in particolare le disposizioni riguardanti l’orario di lavoro e l’orario notturno nonché l’art. 62, comma 1 del c.c.n.l.» (tra i contratti elencati vi sono il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, quadriennio 1994-1997 per la parte normativa e primo biennio 1994 1995 per la parte economica, il c.c.n.l. del 5 dicembre 1996, relativo al II biennio economico 1996-1997, il c.c.n.l. 8 giugno 2000, quadriennio 1998 ‒ 2001 per la parte normativa e I e II biennio parte economica).

L’art. 14 del medesimo c.c.n.l. del 2005, dopo avere ribadito, al comma 1, che: «i dirigenti assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall’art. 6, comma 1 lett. B), in modo flessibile l’impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura cui sono preposti ed all’espletamento dell’incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi da realizzare», ha precisato che:

(i) «i volumi prestazionali richiesti all’equipe ed i relativi tempi di attesa massimi per la fruizione delle prestazioni stesse vengono definiti con le procedure dell’art. 65, comma 6 del c.c.n.l. 5 dicembre 1996 nell’assegnazione degli obiettivi annuali ai dirigenti di ciascuna unità operativa, stabilendo la previsione oraria per la realizzazione di detti programmi»;

(ii) «l’impegno di servizio necessario per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti l’orario dovuto di cui al comma 2 è negoziato con le procedure e per gli effetti dell’art. 65, comma 6 citato. In tale ambito vengono individuati anche gli strumenti orientati a ridurre le liste di attesa», prevedendo, al secondo comma, che: «L’orario di lavoro dei dirigenti di cui al comma 1 è confermato in 38 ore settimanali, al fine di assicurare il mantenimento del livello di efficienza raggiunto dai servizi sanitari e per favorire lo svolgimento delle attività gestionali e/o professionali, correlate all’incarico affidato e conseguente agli obiettivi di budget negoziati a livello aziendale, nonché quelle di didattica, ricerca ed aggiornamento», ed al sesto comma che: «Ove per il raggiungimento degli obiettivi prestazionali eccedenti quelli negoziati ai sensi dei commi 1 e 5, sia necessario un impegno aggiuntivo l’azienda, sulla base delle linee di indirizzo regionali di cui all’art. 9, comma 1, lettera g) ed ove ne ricorrano i requisiti e le condizioni, può concordare con l’equipe interessata l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 55, comma 2 del c.c.n.l. 8 giugno 2000 in base al regolamento adottato con le procedure dell’art. 4, comma 2, lett. G)».

4.3. L’interpretazione della contrattazione collettiva offre, dunque, una ricostruzione complessiva del sistema retributivo scelto per compensare l’attività dei dirigenti medici, anche non apicali (v. Cass. 4 giugno 2012, n. 8958; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21010), che depone in senso univoco per la non configurabilità del lavoro eccedentario da parte di tutti i dirigenti medici, in ragione della sussistenza di un regime orario flessibile delle loro prestazioni e di un sistema di retribuzione incentivante basato sulla valorizzazione degli obiettivi perseguiti, anziché sul computo del tempo impiegato per lo svolgimento delle prestazioni lavorative.

Soprattutto dal citato art. 14 del c.c.n.l. del 2005, che si occupa proprio dell’organizzazione dei turni di lavoro, si evince che questa disposizione non ha alcun legame con il diritto alla retribuzione del medico, la quale è stabilita, invece, su base mensile e in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, conformemente al disposto dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, per il quale «Il trattamento economico determinato ai sensi dei commi 1 e 2 remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal presente decreto, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (…)».

Tale retribuzione non è computata, allora, ad ore e il suo ammontare nulla ha a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro, tanto che copre pure il periodo legittimamente non destinato all’esecuzione della prestazione in senso stretto.

Pertanto, se il dipendente ha fornito una prestazione almeno pari a quella prevista nel contratto, egli non può ottenere, a titolo retributivo, un importo maggiore di quello spettante contrattualmente.

In particolare, una simile richiesta non può essere ricollegata al superamento del limite, sopra indicato, di 38 ore che, in realtà, rappresenta non un massimo, ma un minimo prestazionale.

4.4. Orbene, da tali premesse di carattere generale e dalla formulazione della domanda come diretta a ottenere esclusivamente la corresponsione di differenze retributive collegate a «un indebito aumento della prestazione lavorativa» discende, come logica conseguenza, l’irrilevanza delle difese formulate dalle parti al fine di valutare se fosse stata fornita o meno la prova dell’entità delle prestazioni lavorative espletate in esubero, per effetto dell’erroneo calcolo delle giornate di assenza, rispetto al limite orario di 38 ore settimanali.

4.5. Nella specie il dirigente medico, che non è revocato in dubbio abbia assolto a pieno al debito orario contrattuale, sostiene di essere stato costretto, per attingere alla soglia delle 38 ore settimanali, a protrarre i tempi della sua prestazione di lavoro a causa dell’erroneo conteggio del debito orario giornaliero per le assenze.

Quindi il problema non è il superamento delle 38 ore ma il numero di ore in più svolte per raggiungere tale soglia, al fine di godere di riposi, ferie etc.

Ed allora la stessa prospettazione della domanda come intesa ad ottenere l’esatto adempimento è infondata sol che si consideri che, come è pacifico, per le 38 ore contrattualmente previste, la controprestazione è regolarmente avvenuta.

Il problema potrebbe allora spostarsi dall’ambito del rapporto prestazione/controprestazione a quello, diverso, del mancato riposo nei periodi che hanno erroneamente concorso al raggiungimento della suddetta soglia oraria: in altre parole, per periodi che non erano necessari alla prestazione del medico ‒ intesa come insieme di debito orario e di risultati ‒ che dunque poteva riposare e non lo ha fatto, perché la ASL gli ha imposto erroneamente il lavoro al fine di raggiungere la soglia oraria minima di cui al c.c.n.l.

4.6 Tuttavia, la domanda proposta è quella di esatto adempimento e tale domanda non può condurre a ottenere nulla più che l’esatto adempimento della prestazione dovuta, ossia il pagamento della retribuzione mensile stabilita dalla contrattazione collettiva e, nella specie, pacificamente corrisposta.

Nella prospettazione del dirigente medico non si rinviene, invece, l’allegazione di altre circostanze di fatto ‒ come, ad es., la mancata concessione di riposi giornalieri, settimanali o compensativi e/o l’insorgenza di situazioni di stress e usura psico-fisica legate a tempi prolungati della prestazione ‒ che, in ipotesi, avrebbero potuto consentire al giudice del merito, nell’esercizio dei poteri di qualificazione della domanda a lui attribuiti, l’apprezzamento in ordine a diverse forme di tutela.

L’ordinamento non è in sé privo di rimedi di efficacia dissuasiva, pur nella varia modulazione dei relativi regimi.

4.7 Neppure vengono in rilievo una superfluità delle ore svolte in più rispetto al raggiungimento dei risultati propri del medico o una questione di superamento dei limiti di tollerabilità oraria del lavoro, per la quale, in termini generali, non sono esclusi la responsabilità datoriale e gli effetti dissuasivi ad essa riconnessi, rispetto ai comportamenti illeciti in tal senso, sia in relazione al superamento di specifici limiti (Cass. n. 173/2023, cit.; Cass. 16855/2020, cit.; Cass. 10 maggio 2019, n. 12538, con riferimento agli straordinari; in riferimento ai riposi: Cass. 14 luglio 2015, n. 14710; Cass. 20 agosto 2004, n. 16398, con danno ritenuto in re ipsa per la corrispondente violazione), sia allorquando le prestazioni richieste o accettate dovessero risultare esorbitanti, per la misura del lavoro e l’inadeguatezza dei mezzi predisposti, rispetto alla normalità e dovessero illegittimamente sacrificare l’integrità psico-fisica o la personalità morale del dipendente, in violazione dell’art. 2087 cod. civ., quale espressione, ora, dei corrispondenti diritti costituzionalmente garantiti alla salute (art. 32) ed alla dignità del lavoro (artt. 2 e 35).

Queste ipotesi, tuttavia, in alcun modo si identificano con l’azione qui dispiegata e finalizzata solo al pagamento delle “differenze retributive” per le asserite prestazioni rese in esubero rispetto all’orario contrattuale (circostanza smentita dall’avvenuto pagamento delle prestazioni corrispondenti alle 38 ore settimanali), né (tali ipotesi) potrebbero in ogni caso dirsi integrate dal mero svolgimento di un numero più elevato di ore di lavoro (v. Cass. n. 7921/2017, cit.).

5. Tanto basta per l’accoglimento del ricorso; l’impugnata sentenza dev’essere pertanto cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito (art. 384 comma 2 cod. proc. civ.) con reiezione dell’originario ricorso del lavoratore in applicazione del seguente principio di diritto: «Il dirigente medico che eserciti un’azione di esatto adempimento non può ottenere nulla più della retribuzione mensile a lui spettante, la quale è stabilita, su base mensile e non oraria, in misura omnicomprensiva di tutte le prestazioni dal medesimo rese, senza che il suo ammontare abbia nulla a che vedere con il tempo effettivo dedicato al lavoro.

In particolare, egli non ha diritto ad essere compensato per il lavoro eccedente rispetto all’orario indicato dalla contrattazione collettiva, pure se esso sia dipeso dall’erroneo criterio di calcolo adottato dall’ASL per determinare il debito orario minimo assolto; in tale evenienza, potrà eventualmente far valere la responsabilità datoriale a titolo risarcitorio, ove abbia patito un pregiudizio concreto alla salute, alla personalità morale o al riposo, che dovrà specificamente allegare e provare, anche attraverso presunzioni semplici».

6. Per la novità e peculiarità della questione, oggetto, peraltro, di giudizi con alterni esiti dinanzi ai giudici del merito, si stima equo compensare interamente le spese del giudizio di legittimità.

 P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda del lavoratore; compensa le spese dell’intero processo.

Dirigente medico e onnicomprensività della retribuzione
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