Per qualificare i proventi derivanti da carried interest come redditi di natura finanziaria, ove non ricorrano le condizioni previste dall’art. 60 del D.L. n. 50/2017, occorre che il diritto ai proventi sia postergato rispetto a tutti gli altri soci o partecipanti.
Nota a AdE Risp. 10 aprile 2025, n. 95
Francesco Palladino
L’Agenzia delle entrate, con la Risposta in oggetto, ha fornito taluni chiarimenti sul trattamento fiscale da riservare ai proventi derivanti dalle azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati di cui all’art. 60 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (c.d. Carried Interest), percepiti da coloro che intrattengono un rapporto di lavoro dipendente o assimilato con società, enti o società di gestione di fondi d’investimento.
Come noto, tali strumenti, la cui funzione è quella di fidelizzare il loro titolare e coinvolgerlo nella ripartizione dei rendimenti dell’impresa, accordano, tipicamente, una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quelli degli altri investitori, ma prevedono il rimborso dell’investimento solo una volta che la generalità dei soci abbia ottenuto il rimborso del capitale investito, oltre ad un rendimento adeguato.
Questi strumenti hanno tradizionalmente posto un problema circa l’esatta qualificazione reddituale da dare ai proventi che producono. Infatti, considerato il duplice ruolo rivestito dai loro titolari in seno alle società, vale a dire dipendente, per effetto dell’esistenza di un rapporto di lavoro (che li renderebbe titolari di un reddito di lavoro dipendente o assimilato) o azionista/quotista, per effetto della titolarità di tali strumenti (che li renderebbe titolari di reddito di capitale o diversi di natura finanziaria), si è a lungo discusso se, alla luce del principio di omnicomprensività del reddito da lavoro dipendente ex art. 51 TUIR, dovesse prevalere la qualificazione dei connessi proventi come redditi di lavoro, piuttosto che come redditi (di capitale o diversi) di natura finanziaria. In linea di principio, il predetto principio di omnicomprensività farebbe ricomprendere nell’alveo del reddito da lavoro dipendente ogni erogazione riconducibile al rapporto di lavoro (inclusi i compensi erogati in natura), tuttavia tale qualificazione comporterebbe una tassazione più onerosa. Si è così a lungo posto il problema circa quale delle due “anime” dovesse prevalere.
L’art. 60 del D.L. n. 50/2017 ha risolto la situazione prevedendo che detti proventi siano “in ogni caso” ricondotti nel novero dei redditi di natura finanziaria e siano, dunque, qualificati come di capitale (se si tratta dei proventi derivanti dall’incasso di cedole) o diversi (se si tratta dei proventi derivanti dalla loro negoziazione) e non già come redditi di lavoro dipendente, purché siano rispettate talune condizioni:
a) l’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e degli amministratori titolari dei titoli, comporta un esborso effettivo pari ad almeno l’1% dell’investimento complessivo effettuato dall’OICR o del patrimonio netto (capitale sociale più riserve) nel caso di società od enti;
b) i proventi dei titoli che assicurano diritti patrimoniali rafforzati maturano solo dopo che tutti i quotisti dell’OICR o i soci della società hanno percepito un ammontare pari al capitale investito e un rendimento minimo previsto nel regolamento dell’OICR o nello statuto della società (c.d. hurdle rate), ovvero, in caso di cambio di controllo (o di gestione), alla condizione che gli altri quotisti o soci abbiano realizzato, con la cessione, un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito ed al suddetto rendimento minimo;
c) i titoli con diritti patrimoniali rafforzati sono detenuti dai dipendenti e dagli amministratori (o dai loro eredi) per un periodo non inferiore a 5 anni o, qualora precedente, al cambio del controllo della società o del gestore per l’OICR.
Nel caso analizzato dall’Agenzia delle entrate, con la Risposta n. 95/2025, veniva in rilievo il requisito sub b). L’Amministrazione ha ritenuto che tale requisito non risultasse integrato in un caso in cui, come quello di specie, i proventi erano erogati senza l’effettivo percepimento prioritario del rendimento minimo da parte di tutti gli altri soci, ma solo in virtù di un ”provento implicito virtuale” dovuto alla positiva valorizzazione della società.
Nella vicenda alla base della Risposta in argomento era previsto che i proventi derivanti da taluni diritti patrimoniali rafforzati venissero pagati in assenza del (solo) requisito della postergazione rispetto alla (effettiva) remunerazione degli altri soci in misura pari al capitale investito e in assenza di un rendimento (c.d. hurdle rate) predeterminato, ma solo in presenza di una remunerazione virtuale.
La norma si riferisce, invece, alla ‘percezione’ di un rendimento minimo sicché essa stessa induce a ritenere non sufficiente la maturazione dell’hurdle rate per l’integrazione del requisito, ma a considerare necessaria l’erogazione agli altri investitori, costituendo la distribuzione differita del carried interest condizione di accesso alla presunzione legale di qualificazione del reddito.
Ricorrendo quindi l’ipotesi del riconoscimento di una remunerazione del rendimento minimo non effettiva, ma solo virtuale, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto non sussistenti indici per considerare i proventi percepiti dai titolari di tali strumenti quali redditi di capitale e li ha ricondotti al novero dei redditi di lavoro dipendente.