Il licenziamento motivato dal superamento del periodo di comporto, mentre la lavoratrice è in gravidanza, deve ritenersi nullo.

Nota a Cass. (ord.) 7 maggio 2025, n. 12060

Francesco Belmonte

Il superamento del limite massimo di assenze consentite nel caso di malattia non esclude l’operare del divieto di licenziamento di cui all’art. 54, D.LGS. n. 151/2001, ove risulti lo stato di gravidanza della lavoratrice.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione (7 maggio 2025, n. 12060), in relazione al licenziamento intimato ad una dipendente per superamento del periodo di comporto mentre era in stato di gravidanza.

In linea con le statuizioni dei giudici di merito (App. Catanzaro n. 245/2022), la Suprema Corte ha ribadito la vincolatività della disciplina dettata dall’art. 54 citato, di carattere speciale rispetto a quella sancita dall’art. 2110 c.c. in tema di comporto, e confermato la nullità del recesso, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria c.d. piena.

In particolare, per la Cassazione, il divieto di licenziamento, contenuto nel T.U. sulla genitorialità, introduce una deroga all’intera disciplina limitativa dei licenziamenti, con le sole eccezioni elencate nel terzo comma (quali: colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa; cessazione totale dell’attività aziendale; scadenza del termine apposto al contratto; esito negativo del periodo di prova) «e la deroga introdotta è collegata espressamente “allo stato oggettivo di gravidanza”, espressione che rende irrilevante non solo la condizione soggettiva di conoscenza o non conoscenza dello stato di gravidanza da parte della lavoratrice e del datore di lavoro ma anche tutti gli altri elementi che possono avere rilievo ordinariamente ai fini della estinzione del rapporto di lavoro, come il giustificato motivo oggettivo, illeciti disciplinari inidonei ad integrare una “colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”, ed anche il superamento del periodo di comporto».

Per la Corte, inoltre, “nessun rilievo può attribuirsi al riferimento tuttora contenuto nell’art. 2110 c.c. anche alla gravidanza, dato il carattere certamente prevalente della disciplina dettata a tutela della maternità con una normativa di carattere specifico e temporalmente successiva, analogamente a quanto accaduto in materia di infortuni e malattie professionali”.

 

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE ORDINANZA 7 maggio 2025, n. 12060

Svolgimento del processo

1.La Corte d’Appello di Catanzaro ha dichiarato inammissibile l’appello della … Srl, confermando la sentenza di primo grado che aveva giudicato nullo il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato alla dipendente A.A. il 9 marzo 2019, epoca in cui la stessa era in stato di gravidanza.

2. La Corte territoriale ha preliminarmente respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dalla lavoratrice appellata sul rilievo della intervenuta estinzione della società in quanto incorporata dalla … Srl

Ha accertato che la … non era stata incorporata dalla … ma si era realizzata solo una cessione di azienda.

Nel merito, sul presupposto dello stato di gravidanza della lavoratrice all’epoca del licenziamento e della vincolatività della disciplina dettata dall’art. 54 del D.Lgs. 151 del 2001, di carattere speciale rispetto a quella dettata dall’art. 2110 c.c. in tema di comporto, ha confermato la statuizione di nullità del recesso, con applicazione della tutela reintegratoria piena.

3. Avverso la sentenza … Srl ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati da memoria. A.A. ha resistito con controricorso.

4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

Motivi della decisione

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per illogicità e contraddittorietà tra motivazione e dispositivo, in violazione dell’art. 132 c.p.c. comma 2 n. 4 c.p.c., per avere la Corte d’Appello respinto l’eccezione preliminare di controparte di inammissibilità dell’appello, riconoscendo la legittimazione processuale di … Srl e poi, nel dispositivo, dichiarato inammissibile l’appello così mostrando di accogliere la suddetta eccezione.

6. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2110 c.c. per avere la Corte d’Appello considerato prevalente la disciplina antidiscriminatoria di cui all’art. 54 del D.Lgs. 151 del 2001 rispetto a quella dettata dall’art. 2110 c.c. sul superamento del periodo di comporto.

7. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda concernente il calcolo del periodo di comporto.

8. Il primo motivo di ricorso è infondato.

9. È stato costantemente affermato da questa Corte che il principio, vigente nel rito del lavoro, della non integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, presuppone la effettiva carenza nell’uno di statuizioni rinvenibili formalmente solo nell’altra, vale a dire una sostanziale inconciliabilità fra i due termini del raffronto, da risolversi necessariamente a favore del primo, per l’effetto di cristallizzazione del decisum che si correla alla lettura del dispositivo in udienza;

mentre tale principio non è invocato a proposito quante volte la motivazione si limiti alla mera esplicitazione di statuizioni già sostanzialmente argomentabili dalla struttura logico-semantica del dispositivo sicché in questi casi non si pongono preclusioni di sorta all’operatività dell’altro principio per cui la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione, le cui enunciazioni, se dirette univocamente all’esame di una questione dedotta in causa, incidono sul momento precettivo e vanno considerate come integrative del contenuto formale del dispositivo, con la conseguenza che il giudicato risulta simmetricamente esteso (Cass., S.U. n. 1481 del 1997; Cass. n. 14935 del 2000; n. 16079 del 2003; n. 6635 del 2004; n. 14499 del 2014).

10. Nel caso in esame, dalla consentita integrazione del dispositivo con la motivazione, discende che la statuizione adottata dai giudici di appello deve intendersi di rigetto nel merito dell’impugnazione per infondatezza dei motivi, come espressamente statuito a p. 3, par. 5 della motivazione.

11. Il secondo motivo di ricorso è parimenti è infondato.

12. L’art. 54 del D.Lgs. 151 del 2001 stabilisce, al comma 1, che “Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino”.

Il comma 2 aggiunge che “Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano”.

Il terzo comma enumera le specifiche e tassative eccezioni in presenza delle quali il divieto di licenziamento non opera.

13. Il divieto di licenziamento dettato dalle disposizioni appena citate a tutela della maternità introduce una deroga alla intera disciplina limitativa dei licenziamenti, con le sole eccezioni elencate nel terzo comma dell’art. 54 cit., e la deroga introdotta è collegata espressamente “allo stato oggettivo di gravidanza”, espressione che rende irrilevante non solo la condizione soggettiva di conoscenza o non conoscenza dello stato di gravidanza da parte della lavoratrice e del datore di lavoro ma anche tutti gli altri elementi che possono avere rilievo ordinariamente ai fini della estinzione del rapporto di lavoro, come il giustificato motivo oggettivo, illeciti disciplinari inidonei ad integrare una “colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”, ed anche il superamento del periodo di comporto.

14. Nessun rilievo può attribuirsi al riferimento tuttora contenuto nell’art. 2110 c.c. anche alla gravidanza, dato il carattere certamente prevalente della disciplina dettata a tutela della maternità con una normativa di carattere specifico e temporalmente successiva, analogamente a quanto accaduto in materia di infortuni e malattie professionali.

15. Il superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia non esclude l’operare del divieto di licenziamento di cui al citato art. 54 ove risulti lo stato di gravidanza della lavoratrice, rimanendo intatte le esigenze di protezione poste a base del divieto in parola, volto a consentire che l’esperienza della maternità non sia intaccata dalle preoccupazioni connesse alla perdita del posto di lavoro.

16. Il terzo motivo di ricorso è assorbito poiché non trova applicazione la disciplina sul comporto.

17. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.

18. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

19. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. …antistataria.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.

Ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003 e successive modifiche, in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di A.A.

Comporto e tutela della lavoratrice madre
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