Riforma del lavoro pubblico: ricostruire la dimensione culturale e comportamentale del potere e della leadership. Parte seconda


Seconda parte: il “lato oscuro” 

 

Fabrizio Giorgilli*

Nota. Questo contributo, suddiviso in due parti, prosegue la riflessione iniziata con un intervento precedente pubblicato il 7 settembre 2021 con il titolo “Per una diversa concezione della Riforma delle PPAA”.

 

“Come ogni altro sistema, il potere può andare male” (Like any other system, power can go wrong).

Boulding K. E., 1990

 

  1. Ricostruzione dell’idea di potere: le forme maligne della leadership in ambito pubblico[1]

Nelle organizzazioni delle Pubbliche Amministrazioni e del lavoro sociale si ha da sempre un ancoraggio forte sul tema del comportamento etico declinato nel potere e nelle sue forme leaderistiche. Questo ancoraggio è rappresentato dall’articolo 54 della Costituzione Italiana. Un articolo di psicologia del comportamento che descrive, con il linguaggio del tempo, l’essenzialità del rapporto con l’uso dei poteri. Ci fermeremo però qui nell’analisi di questa norma unica nel panorama occidentale delle culture costituzionalistiche, rimandando ad un lavoro precedente già citato[2] nel quale si è proposta un’interpretazione in termini di comportamento etico organizzativo. In questo contributo è però importante ricordare il riferimento ispirativo principale al quale ogni operatore dei poteri pubblici deve far riferimento.

Detto ciò, sappiamo già che il concetto di leadership è strettamente intrecciato a quello di potere visto in precedenza.

Sappiamo anche da tempo che lo studio della leadership deve confrontarsi con situazioni organizzative, gruppali e socio-culturali molto diverse tra loro, che “sfidano ogni tentativo di teoria generale”.  Sin dalle ricerche sul “cervello sociale” (insieme delle capacità cognitive degli individui, che permettono il riconoscimento empatico e la formazione conseguente gruppale), la leadership è stata sempre considerata uno dei fenomeni sociali più osservato e meno compreso, ma sicuramente connesso alla motivazione, alla personalità, all’esperienza, al dominio.

L’etimologia ci conduce al verbo inglese “to lead” ed a quello latino “ducere”, ambedue riferibili alla capacità di guidare altri. Una capacità generalmente osservata sul piano meramente individuale (personalità peculiare, ascendente personale, potere personale) e con una debole attenzione ai followers (coloro che seguono), ossia al contesto relazionale e dei poteri agiti.

In ogni caso, pur nella assenza di un accordo tra le diverse visioni disciplinari circa la definizione della leadership, questa si può per alcuni accettabilmente definire come una relazione sociale espressa in setting decisionali riferibili a principi od a comportamenti.

Dunque, stiamo parlando della capacità di determinare un comportamento di gruppo influenzandone (influenza come essenza della leadership) il sistema di relazioni anche attraverso l’“uso creativo” dei poteri riferiti ad una funzione, collocando poi tale uso in un punto di equilibrio tra fiducia nelle proprie doti di giudizio (responsabile verso a se stesso) e dovere di risposta rispetto al gruppo/organizzazione (responsabilità). E’ qui la prima possibile distinzione con il concetto generale di potere: la leadership richiede una certa congruenza tra gli obiettivi del leader e coloro che vengono guidati. E questo ci introduce immediatamente anche ad uno possibile seconda differenza: la leadership guarda fondamentalmente “in basso”, mentre il potere include l’attenzione a tutte le direzionalità dei fattori influenzanti.

Sempre seguendo il criterio ispiratore del potere, possiamo osservare come da sempre la psicologia sociale si sia interessata alla motivazione che spinge l’individuo alla conquista del potere ed alle figure specifiche ad esso connesse nelle diverse organizzazioni. In esse, il potere appare intrinsecamente legato alla motivazione a salire più in alto possibile nella gerarchia o a fare di più e meglio degli altri per conquistare e mantenere una posizione di leadership. Il potere è un luogo privilegiato in cui l’identità personale si afferma. Il comportamento del leader, alcuni affermano, andrebbe letto attraverso il suo modo di concepirsi e di porsi, il suo essere in sé ed il suo essere con gli altri. Aristotelicamente possiamo dire che la carica rivela l’uomo (“Etica Nicomachea”): la natura relazionale del potere ha questa capacità di svelamento dell’identità, considerando che normalmente il potere è esercitato con tutto sè stesso. Ed ecco allora l’occasione per individuare anche una terza differenza tra potere e leadership: è solo nella ricerca su quest’ultima che enfatizza il tema degli “stili comportamentali”.

Mantiene in ogni caso il collegamento con il potere l’idea di essenza della leadership intravista attraverso la sua presunta capacità di sconfiggere la discrasia tra pensiero ed azione (“avrei potuto fare, ma…”). Il suo potere risiederebbe allora nell’intelligenza agita: si può avere autorità e non essere un leader (il cd. hidden leader, leader occulto). Il leader dovrebbe saper riconoscere l’occasione per governare il fato/fortuna. La leadership, suscitata dalle circostanze, è l’incarnazione di idee che si trasformano in azione.

E’ così essenziale analizzare le relazioni leader-altri, facendoci ispirare da un’affermazione di Bonhoeffer, per il quale ‘Le quantità si contendono lo spazio, le qualità si completano a vicenda’ (in “Resistenza e resa”), dove ‘contendere’ è relazione in concorrenza e ‘completare’ è relazione in collaborazione. Così, in particolare, il potere nei piccoli gruppi è studiato a partire dalla leadership: Lewin; Rogers; la psicoanalisi, attraverso il tema dell’inconscio gruppale che recupera il vissuto infantile di dipendenza. La dimensione gruppale ci aiuta a capire che il potere non è una realtà estrinseca alla persona ma solo un modo di essere di questa nei riguardi della realtà: non è il potere a cambiare le persone: esso ci fa esprimere meglio quanto siamo di fatto.

Tutto ciò anche considerando che molti hanno evidenziato la “natura ambigua del leader”: è il capo, incarnazione fisica del potere e, nello stesso tempo, sua emanazione (il potere come suo attributo); ma anche rappresentante designato, semplice facente-funzione in riferimento ad altro attore. Una natura alimentata anche da la sua ulteriore dimensione “immaginaria”, ossia su di una fede nelle capacità e possibilità di alcuni, alimentandone così la centralità (ed offuscando il pensiero critico o realista)

Se ci si sofferma sul punto di vista antropologico, la prima qualità da attribuire la leader è quella di rappresentanza di un’Istituzione, mediazione che coinvolge le dimensioni emotiva, cognitiva e fisica servendosi principalmente del linguaggio simbolico.

L’identità personale in riferimento alle Istituzioni, andrebbe sottoposta ad una misura, nel senso classico di “metron” (ordine secondo precise quantità istituzione a misura di persona umana). Il leader delle organizzazioni Istituzionali è quindi colui che ha il “senso della misura”, come “chiara cognizione di ciò cui uno è tenuto nei confronti di se e degli altri” (sia quelli in alto che quelli in basso).

Il potere, quindi, non è una mera capacità tecnica. Molti approcci al potere colgono invece solo gli aspetti tecnici e pratici, conseguenza di una specifica e dominante interpretazione del contributo machiavellico, tale da esiliare ogni sensibilità antropologica ed etica. Particolare, tra queste, la lettura giuridica: si pensa di poter comprendere le istituzioni attraverso la mera conoscenza delle norme che le regolano e delle tecniche usate per amministrarle. Il potere è invece esercitato da persone ed investe altre persone e le istituzioni non sono un dato ma si esprimono attraverso i comportamenti delle persone.

Diversi contributi hanno poi investigato il livello intrapersonale dove il potere si manifesta con: consapevolezza (stato della mente: intenzione, interesse) di poter realizzare il cambiamento desiderato; capacità di far accadere le cose; abilità di esprimere tutto il proprio potenziale utilizzando diverse possibili risorse a disposizione (ricchezza, violenza, informazione, conoscenza, prestigio, legittimità, affettività, ecc.).

Il tema della leadership, così strettamente interpretato attraverso gli occhiali del potere, ci impone anche di dare conto del profilo di “autorevolezza”. Questo profilo esprime un tratto di personalità e caratteristica del comportamento che rende un soggetto credibile e affidabile, a prescindere dal ruolo ricoperto; è prerogativa delle persone esperte sicure di sé e carismatiche, che godono della massima fiducia e rispetto da parte degli altri e per tali ragioni vengono scelte come guide nell’ambito delle organizzazioni. L’autorevolezza differisce così dall’autorità (relativa a specifico ruolo o carica istituzionale) perché si guadagna sul campo

Questi ed altri aspetti sono oggetto di una più generale attenzione in letteratura (sin dai primi anni 2000) al circuito virtuoso innescabile, in particolare nell’organizzazione pubblica, tra efficacia etica della leadership (effective ethical leadership), indagini organizzative sul clima o le consapevolezze etiche (ethical quality of organization) e la prevenzione economica in termini di corruzione, furto, truffa, abuso di potere. Un’attenzione che, evidentemente, dovrebbe permettere l’evidenza delle criticità nel comportamento etico, la competenza a leggere segnali predittivi circa i diversi tipi di “condotta non etica” (unethical conduct) o “cattiva condotta” (misconduct), con i relativi “rischi etici” (ethical risks). L’esito di tali indagini porta poi generalmente: alla considerazione strategica da assegnare agli interventi di coaching e formativi per migliorare la consapevolezza delle “capacità morali” (moral skills); alla costruzione di aggiornati profili comportamentali per la leadership etica.

 

3.1. La leadership maligna: caratteristiche tipiche per le organizzazioni pubbliche[3]

Nel linguaggio organizzativo è emerso timidamente negli ultimi anni il tema interpretativo della “cattiveria”, diversamente letta (dominio, non riconoscimento dell’altro come valore, assenza di cura, ecc.).

Un tema in parte rafforzato dall’immensa letteratura sul mobbing, fenomeno relazionale organizzativo (generalmente collocato nella famiglia dei comportamenti “controproduttivi” (Counterproductive Work Behavior–CWB, riferibili a tutti gli atti aggressivi, ostili, di sabotaggio, realizzazione di danno fisico o patrimoniale, disimpegno rispetto ai doveri professionali).

Quanto abbiamo affermato in precedenza si riferisce al “lato oscuro dell’organizzazione” (in letteratura, conosciuto come Dark Side of Organization). Appare, questo, infatti, lo spazio elettivo del comportamento soggettivo maligno, il suo brodo primordiale. Ciò non sminuisce però affatto la rilevanza che in questo sistema di dinamiche assume il tratto di personalità e/o l’”occasione comportamentale” capace di farlo emergere.[4]

Si può anche essere d’accordo con chi afferma che il potere non crea i propositi malvagi (“che vengono dal cuore”, Matteo 15,19) ma li favorisce, li mette a nudo. In particolare chi detiene il potere ha forti possibilità di mostrare le sue ombre: immaturità, superbia, avarizia, invidia, arroganza, ambizione sfrenata demagogia, populismo, falsità, vanagloria, abuso, narcisismo, sociopatia, cinismo, ipocrisia, ambiguità. Platone (“Repubblica” – 520d), l’ambizione è considerata un impedimento ad un sano esercizio del potere: il buon governante sarà colui che ‘non ne abbia affatto il desiderio’, al contrario di colui che è ‘smanioso di potere’.

Non è facile, per una cultura classica organizzativa, profondamente razionalistica e funzionale, accettare che il “lato oscuro” possa essere profondamente radicato in un luogo nascosto (inner darkness) della psiche individuale. Quell’”Ombra” parte indissolubile della nostra identità, generalmente rifiutata se non rimossa, che non vogliamo riconoscere consapevolmente e che il potere nelle organizzazioni pubbliche mette alla prova cruentemente. Alcuni studiosi propongono a tal proposito il concetto interpretativo dell’”innocenza violenta” (violent innocence) proprio per indicare questo processo di rimozione da parte dell’organizzazione tutta (“struttura dell’innocenza”, structure of innocence) finalizzato a nascondere e condonare i comportamenti maligni. Non a caso questo tema riceve da anni attenzione dalla psicoanalisi e dalla psicologia psicodinamica in generale, impegnando molti ricercatori, soprattutto dalla crisi etica (ethical crisis) e da quella finanziaria del primo decennio degli anni 2000, sull’analisi degli impatti dei comportamenti degli “psicopatici aziendali” (corporate psychopaths). Un impegno spesso teso a ribaltare le narrative classiche che, in una semplicistica ed opportunistica rimozione collettiva, tentano contemporaneamente di proporre due modalità interpretative: una prima centrata solo sul riconoscimento enfatizzato delle caratteristiche positive del leader, occultandone i deficit e le negatività; una seconda modalità con la quale si considera il comportamento patologico come ragionevole e spiegabile, perfino “funzionale”, producendo in tal modo forti ambiguità valoriali e spazi per la crescita di carriere o percorsi professionali profondamente immorali (immoral careers).

Altri contributi ancora hanno proposto il tema del cd. “comportamento scorretto organizzativo” (organizational misbehaviour) che si definisce, al di là dei già noti comportamenti critici dirigenziali come di quelli dell’area grigia degli affari, come “tutto ciò che fai al lavoro che non dovresti fare” (anything you do at work you are not supposed to do), ampliando in tal modo rispetto alla tipologia classica più restrittiva riferibile a qualsiasi azione espressa in violazione delle norme organizzative e/o sociali.

Non sfugge inoltre, in questa letteratura, la centralità del “profilo intenzionale” (individual intentionality) connesso alla motivazione a comportarsi male.

Ognuno di questi approcci, salvo nel caso dei contributi riferibili al “comportamento scorretto”, difficilmente riesce poi a porre la riflessione oltre l’euristica della funzionalità (razionalità utilitaristica, miglioramento della prestazione, “capire per gestire”) organizzativa, rinunciando così a porsi sul diverso piano valoriale ed etico, quale obiettivo in sè significativo per l’azione operativa stessa. Certamente risultano comunque utili perché propongono spunti ulteriori per la descrizione più completa possibile dei comportamenti maligni (in questo capitolo indagati sul piano soggettivo ed interpersonale) anche di riflesso sotto il profilo etico stesso. Un profilo questo ancor più centrale quando si fa riferimento alla natura pubblica di un’organizzazione, titolare in tal senso di uno spettro di funzioni, criteri operativi e di azione non relegato al solo spazio funzionale ed utilitaristico tipico del business privato.

D’altronde non bisogna sottovalutare, come ci ammoniva anni fa Giorgio Ruffolo, la forte tendenza, nelle società tradizionali, del potere a “degenerare in potenza ed onnipotenza”. Con l’irruzione dell’individualismo il potere si è trasformato ancor di più in potenza, anzi deve essere continuamente riformato per arginarla considerando che ai ruoli di potere rimane sempre il compito di governare il dinamismo del cambiamento continuo. Questa situazione, si è già accennato, determina un’indifferenza verso l’etica a favore della “professionalizzazione funzionalistica”: cinismo del potere burocratico indifferente a fini e principi in una falsa “neutralità”. Serve allora un “rientro morale” che scongiuri l’irresponsabilità e la dissoluzione delle solidarietà sociali.

Arrivati sin qui, prima di concludere la riflessione  con i contributi utili ai nostri fini, in campo filosofico e quelli riferibili al The Dark Side of personality (DSP), ricorderemo i profili essenziali della “personalità autoritaria” così come descritti da Theodor Ludwig Adorno (La personalità autoritaria, 1950)[5].

  • Convenzionalismo (adesione acritica e rigida ai valori dei dominanti).
  • Sottomissione conseguente ad autorità superiore (sottomissione acritica nei confronti dell’autorità morale idealizzata del gruppo di appartenenza), percepita come Super-Ego esterno a Sé, in continuità con processi patologici generalmente familiari. Meccanismo di compensazione della mancanza di identità personale. L’insicurezza produce in tal senso anche un desiderio smodato di possesso come surrogato di estensione dell’Ego.
  • Aggressività (essere sulla difensiva, condannare, rifiutare, punire persone che violano i valori dominanti). Spesso anche prive di scopo personale, come la collera cieca, l’irritazione collerica.
  • Superstizione e stereotopia (mistica del destino individuale, pensiero organizzato secondo categorie rigide ed immutabili). Rifiuto di ogni ambiguità ed incapacità nell’affrontare l’ambivalenza (piano emotivo).
  • Durezza (interesse per la dominazione-sottomissione, la relazione forte-debole e quella leader-gregario, identificazione personaggi di potere, disposizione a trattare con arroganza e con disprezzo gli inferiori gerarchici e tutti quelli privi di forza o di potere).
  • Distruttività e cinismo (ostilità generalizzata, svilimento dell’umano, negazione del principio di uguaglianza tra gli uomini).
  • Proiettività verso l’esterno di impulsi emotivi inconsci (“il mondo è cattivo e contro di me”).
  • L’”anti-intraccezione”, ossia il rifiuto del mondo emotivo con la connessa negazione della parte materna, l’opposizione generale alla dimensione soggettiva, a quella immaginativa e sentimentale ed agli individui portatori di emozioni positive. Si propone anche come “pseudo-virilità”, in quanto rifiuto dell’ammissione di ogni profilo di debolezza.

 

Da quanto si è detto emerge inoltre l’importanza del cd. autoritarismo cognitivo, necessario ad integrare la lettura psicoanalitica e psicodinamica, in particolare sottolineando il ruolo dei gruppi e dei contesti organizzativi.

 

3.2. La leadership maligna: il concetto filosofico di comportamento malefico[6]

Molte delle riflessioni che provengono dal campo filosofico si rivolgono al comportamento maligno in generale (the concept of evil). Rimangono comunque riconducibili utilmente al piano della soggettività del leader, con la consapevolezza sulla molteplicità delle forme e delle radici del male (evil can have many faces and roots).

La teoria della “carenza motivazionale” osserva l’assenza di barriere rispetto alla possibilità di danneggiare od umiliare gli altri.

Alcuni si focalizzano poi sul rapporto tra comportamento malefico e responsabilità. La domanda centrale sembra essere: “Cosa significa essere malvagio” (What does it mean to be evil?), indagata attraverso l’osservazione di come il male si trasformi in azione (how evil surface in action) Si è responsabili solo se si agisce volontariamente, prevedendo gli esiti della propria azione e senza alcuna giustificazione morale (azione imperdonabile).

Tradizionale è la distinzione tra “interiorismo motivazionale” (motivation internalism) e “esternalismo motivazionale” (motivation externalism), partendo dalla comune convinzione secondo la quale il comportamento delle persone appare guidato dai propri giudizi morali (moral judgments). Si tratta di esplorare se questi hanno efficacia motivazionale diretta o se la fonte sia esterna ad essi[7].

Altra distinzione interessante, che si intreccia con la precedente, è quella proposta tra “male perverso” (perverse evil) e “male puro” (pure evil), due categorie distinte ma complementari.

  1. Comportamento di male perverso (o strumentale). Indica la situazione nella quale i comportamenti malvagi sono espressi con apparente giustificazione morale. L’individuo può avere un codice morale distorto (concezione addomesticata di ciò che è “buono”) che gli permette di razionalizzare l’atto sotto forme moralmente giustificate. Allo stesso modo alcuni usano il termine “male corrotto” (corrupt evil) per descrivere agenti morali che colpevoli “scelgono il male” quando avrebbero potuto fare l’opposto.
  2. Comportamento di male puro. Indica l’esecuzione di atti malvagi fine a se stessi, L’agente è motivato a compiere il male come tale, scegliendo così di non compiere la possibilità alternativa del bene. Il male per amore del male (evil for evil’s sake) richiede un carattere con principi e determinazione specifici, presenti ad un preciso grado del suo sviluppo (come affermava anche Aristotele nella sua “Etica Nicomachea”). Gli agenti puramente malvagi non cercano, di conseguenza, di giustificarsi come buoni o giusti. Ci si ispira ad una razionalità pratica chiamata anche “motivazione del male in quanto malvagio” (evil-qua-evil motivation).

 

Esiste poi una letteratura filosofica abbondante sul “carattere ed il personaggio malvagio” (contemporary theories of evil character/personhood), che ha proposto diverse modalità descrittive (spesso anche integrate) di comportamenti tipici, sia in quanto azioni che in quanto sentimenti.

Secondo alcuni  autori, vanno sostenuti alcuni tratti di identificazione tra loro non in contraddizione.

  • Deficit di coscienza (deficiencies of conscience). Mancanza di coscienza pienamente attiva (lack a fully active conscience), in quanto assenza di impegno sincero per il bene (con i conseguenti atteggiamenti passivi) e coerente disinteresse per le proprie mancanze morali (colpa, vergogna, ecc.).
  • Malizia (malice). Profonda ostilità e mancanza di fiducia nei confronti degli altri, verso i quali ci si augura ogni tipo di disgrazia.
  • Malevolenza (malevolence). Atteggiamento di fondo e generale basato su “cattive intenzioni” (bad intentions) e “cattiva volontà” (ill will) verso il contesto sociale generale, il mondo diverso dal Sè. Esprime una radicale inimicizia verso il bene (a deep-seated enmity towards goodness) e verso ogni forma di impegno morale. “Male, sii il mio bene” (evil, be thou my good).

 

3.3. La leadership maligna: il soggetto da solo (“the Dark Side of personality”-DSP)[8]

Da tempo, la letteratura internazionale si interroga sulla percentuale di “fallimento manageriale” dove, a fronte di profili valutativi in ingresso altamente brillanti, si mostra una prevalente causa di “difetto di personalità” (overriding personality defect). In particolare, il “deragliamento” osservato (derailment), sarebbe riconducibile all’incapacità di gestire il proprio comportamento, come disposizione di personalità disfunzionale indicata appunto con l’espressione DSP (opposta a quella di “lato luminoso”, bright-side).[9] La rilevanza di tale attenzione nell’osservazione dei comportamenti disfunzionali è data dal fatto che questi sembrano avere effetti ben più forti e condizionanti di quelli positivi, suggerendo il vero e proprio principio comportamentale che “il male è più forte del bene” (bad is stronger than good).

Non esiste ancora un accordo generale sulla tassonomia comportamentale della DSP e molti si affidano ad una rilettura dell’ultima versione del DSM prodotto dalla Amercan Psychiatric Association. Delle psicopatologie parleremo in questo lavoro in un capitolo apposito di approfondimento. La ricerca si è da tempo incentrata su tratti stabili che sono legati a comportamenti eticamente, moralmente e socialmente discutibili (si veda il lavoro di Adorno qui trattato in un paragrafo specifico; o il lavoro di Eysenck sullo psicoticismo  negli anni ’70).

Nell’approccio categorico tradizionale in psicologia clinica, i modelli duraturi di comportamento socialmente ed eticamente ostile (aversive behavior) sono attribuiti a disturbi della personalità (in manifestazioni cd. subcliniche riferite ad accentuazioni della personalità/personality accentuations, ossia riferite a qualsiasi quadro patologico che non si manifesti con segni o sintomi, ma solo con alterazioni di esami laboratoriali o con evidenze raccolte con esami strumentali).

Molti vedono così, nella psicologia della personalità, questi tratti (spesso definiti come “tratti oscuri”, dark traits; tutti inseriti nel cd. Fattore Oscuro di Personalità – D, Dark Factor of Personality) come aspetti controproducenti della normale espressione della personalità sul posto di lavoro, ossia valori “estremi” (extreme extensions) nello spettro comportamentale dei tratti positivi (bright-side traits) ed in una logica di continuum. Estremi, evidentemente associabili, in eccesso o difetto (criterio del deragliamento), a comportamenti controproducenti (counterproductive behaviors). Così appaiono tali tutti quei processi che interferiscono con le relazioni sociali (mettendo a rischio quelle positive) e con la capacità di giudizio (ad esempio, le tendenze perfezionistiche del tratto DSP possono essere una versione estrema dell’attenzione al dettaglio associata ad un’elevata “Coscienziosità”)[10].

Queste “strategie imperfette” generalmente vengono quindi identificare, in generale, in una tendenza generale verso un comportamento manipolativo dell’attore finalizzato ad ottenere benefici per sé (status più elevato, guadagni monetari, appagamento del desiderio di potere/superiorità, piacere emotivo, ecc.) a breve termine, consapevolmente ignorando, attivamente accettando o determinando la dannosità (disutilità, disutility) per altri, con la contemporanea assunzione di credenze funzionali al proprio convincimento giustificativo. Convinzione giustificativa, implicita/inconsapevole od esplicita, ad esempio riferibile ad un senso di diritto, ad una sfiducia e cinismo generalizzati, ad uno sminuire altri o determinati gruppi dal punto di vista del loro valore sociale o professionale, al credere alla inevitabile naturalità del principio per il quale ogni persona generalmente pensi prima a sè stessa, ecc.). Convinzione, in generale, capace, in quanto tale, di preservare fluidamente un’immagine di sé positiva.

Il profilo manipolativo permetterebbe anche di affermare che l’idea di massimizzazione dell’utilità non implica necessariamente che gli individui ad alto contenuto di D non si comporteranno mai in modo cooperativo o di accettazione di uno svantaggio per sé: questo infatti potrà avvenire, ad esempio, quando la cooperazione apparirà loro utile per costruirsi una falsa reputazione positiva, evitare sanzioni, ottenere un proprio vantaggio personale; o quando il proprio svantaggio sia necessario per determinare la sofferenza altrui (ritenuta fonte di soddisfazione maggiore). C’è inoltre da osservare che gli individui ad alto valore D, nel cercare la propria utilità, perseguono comportamenti che possono influenzare negativamente gli altri, attivando in essi propositi di ritorsione, vendetta o comportamenti di rabbia.

Se replicate frequentemente, queste strategie comportamentali accentuerebbero poi la loro portata negativa e distruttiva.[11]

Questo approccio, alla fine, ha portato all’identificazione e alla selezione di nove tratti oscuri, tutti sicuramente interessanti nell’analisi delle leadership delle organizzazioni pubbliche e di lavoro sociale.

  1. Egoismo (egoism). Eccessiva preoccupazione per il proprio piacere o vantaggio a scapito del benessere della comunità. “Cerco di badare a me stesso prima, anche se ciò significa rendere le cose difficili agli altri”. Tendenza generale all’insaziabilità e al comportamento sconsiderato nel perseguimento di interessi personali (ad es. “Non importa quanto ho di qualcosa, voglio sempre di più”; “Dirò qualsiasi cosa per ottenere ciò che voglio”). Criterio: egocentrismo (self-centeredness).
  2. Machiavellismo (machiavellianism, spesso abbreviato “Mach”). Il fine giustifica i mezzi: prescindere dalle virtù, se questo consente di raggiungere il proprio fine. In caso di competizione si tende all’inganno. Uso strategico della manipolatività (manipulativeness): il miglior modo di relazionarsi con l’altro è attraverso l’adulazione ed il dire ciò che questo vuole sentirsi dire; spesso gli altri percepiscono la finzione. Insensibilità nell’espressione affettiva (distacco emotivo) e determinato orientamento al calcolo (strategic-calculating orientation) come atteggiamento cinico, tutto sostenuto da una forte ambizione. Si sa riconoscere la debolezza altrui per approfittarne. “Mi piace usare una manipolazione intelligente per ottenere ciò che voglio”. “Se esistono gli ingenui peggio per loro”. Criterio: nutrimento/uso (nurturance).
  3. Disimpegno morale (moral disengagement). Capacità cognitiva di disimpegnarci dalle nostre autosanzioni morali e di venire a patti con i nostri criteri morali, riuscendo a mantenere comunque un senso di integrità. Si è osservata una stretta correlazione con la “devianza” (già vista in un diverso capitolo): chi decide di metterein atto un comportamento disfunzionale tende a “liberarsi” dai vincoli etici richiesti dalle diverse regole organizzative. Criterio: identità morale interiorizzata (internalized moral identity).
  4. Narcisismo (narcisism). Centratura assoluta solo sul rinforzo del proprio Ego, con un grandioso senso di importanza personale. Fantasia di grande successo sfruttando situazioni e persone. Il narciso ignora i feedback valutativi ed è spesso vive emozioni di rabbia. Criterio: dominazione (dominance). In modo essenziale si potrebbe affermare che il leader con patologia narcisistica perde la cognizione della propria misura in riferimento al mandato ricevuto. Detenere il potere esalta il narcisismo e procura privilegi o vantaggi (psicologici e materiali) ben oltre la necessità funzionale: si tende così a conservarlo a tutti i costi. Si ha un’”affermazione smisurata di se”, una vera “idolatria di se stessi” (autoreferenzialità) sul piano fisico, cognitivo od emotivo. E’ ciò che Platone (“Repubblica”, libro IX) chiama “tirannia” in quanto assoggettamento agli istinti più perversi; mentre Agostino la definisce “passione per la gloria di se stessi ed il dominio” (“De civitate Dei”). Per Weber si parla di ‘autoincensamento puramente personale’. Bodei propone il concetto di “Io mongolfiera”, gonfio di sé (Agostino parla di sé come primo allievo della scuola di retorica con la gioia legata al gonfiarsi di vento. Certo, le posizioni di potere stimolano eccessivi processi narcisistici (su tale profilo si veda meglio oltre) e se i sistemi formativi e culturali non funzionano, l’Istituzione di fatto favorisce questo processo. Il narcisismo non solo danneggia l’equilibrio personale, ma inficia le relazioni del leader con gli altri e con l’organizzazione. Per alcuni si deve intendere un’aspirazione spasmodica di occupare posizioni di comando, di avere il controllo su cose e persone, possedere oggetti di status symbol superiore; una vera e propria ansia da prestazione (potere conquistato come ansiolitico). Ciò può evidenziare incertezza, insicurezza sulla propria identità e sul piano dell’autostima.
  5. Diritto psicologico (psychological entitlement). Senso stabile e pervasivo che si meriti di più e si abbia diritto a più degli altri. “Se sono sicuro di aver ragione su qualcosa, non perdo molto tempo ad ascoltare le argomentazioni degli altri”. Criterio: assunzione diretta della prospettiva (perspective taking).
  6. Psicopatia (psychopathy). Forte deficit affettivo (insensibilità) e di autocontrollo (impulsività). “Dirò qualsiasi cosa per ottenere ciò che voglio. Spesso dico e faccio cose senza considerare le conseguenze”. Mancanza di senso di colpa o rimorso. Criterio: impulsività (impulsivity). Le ricerche suggeriscono una correlazione forte con tattiche manipolative e comportamenti di bullismo sul lavoro. Centrale anche l’astuzia utilizzata per guadagnare spazi di potere “cattivo”.
  7. Sadismo (sadism). Comportamento crudele o umiliante nei confronti degli altri. Impegno ad infliggere intenzionalmente dolore o sofferenza fisica, sessuale o psicologica agli altri per affermare potere e dominio o per piacere e divertimento. “Fare del male alle persone sarebbe eccitante. Vedere le persone piangere non mi turba molto”. Criterio: insensibilità (insensitivity).
  8. Interesse personale (self-interest). Perseguimento di vantaggi/guadagni in domini sociali apprezzati (beni materiali, stato sociale, riconoscimenti, ecc.). Criterio: potere (per acquisire) (power).
  9. Disprezzo (spitefulness). Sulla base di un personale giudizio morale, si sceglie di danneggiare altri (in campo sociale, economico, fisico, ecc.) anche se ciò può comportare una sofferenza per sè. “A volte vale la pena soffrire un po’ da parte mia per vedere gli altri ricevere la punizione che meritano”. Criterio: aggressività (aggression)

 

Si è quindi osservato che D assume carattere predittivo nell’ambito del comportamento eticamente, moralmente e socialmente discutibile. In tal senso D appare correlato a bassa gradevolezza e bassa coscienziosità, indicando che gli individui ad alto contenuto di D sono caratterizzati da una mancanza di conformità, gentilezza e modestia, nonché da una maggiore impulsività, mancanza di rispetto della legge, rispetto delle regole e autocontrollo, specialmente quando hanno a che fare con gli altri.

Il tratto di psicopatia aggiunge, alla caratterizzazione D, elementi più caratterizzati ed evidenti di impulsività, aggressività e minore sensibilità verso gli altri.

Particolari studi hanno poi considerato, con esito positivo, la sostanziale convergenza tra i tratti oscuri (D) e le quattro principali istanze di “psicopatologia di ostilità sociale” (socially aversive psychopathology): narcisismo, antisocialità, tendenza paranoica, borderline. Tutte accomunate da un comune profilo di “antagonismo” (antagonism) o “dissocialità” (dissociality), in quanto tendenza verso comportamenti che mettono un individuo in contrasto con altre persone

Diverse ricerche sul campo hanno puntato su di una “miscela” di cinque fattori specifici capace, secondo i ricercatori, di contribuire a descrivere particolarmente bene i temi di D: l’insensibilità, l’inganno, il diritto narcisistico, il sadismo e la vendicatività.

Anche il locus of control[12] diviene possibile elemento predittivo di D, considerando che le persone con punteggi alti su D sembrerebbero tendenti ad impegnarsi in comportamenti sociali inadeguati con una mancanza di senso di colpa, che gli permette di negare la responsabilità delle proprie azioni e ad attribuirla a cause esterne.

E’ apparso evidente, da molte ricerche, il fatto che il tratto di “stabilità emotiva” (emotional stability) modererebbe l’effetto dei tratti del lato oscuro sugli eccessi comportamentali. La bassa stabilità emotiva, in particolare, interrompe le comunicazioni e la qualità delle relazioni, anche in termini gruppali. Tutto ciò considerando, in generale, che la leadership in sé è definibile come “processo intrinsecamente emotivo” (inherently emotional process) capace di condizionare i climi in senso tossico, attraverso un intenso contagio emotivo negativo.

 

  1. Conclusioni

Dunque, a parere di chi scrive, è oggi necessario passare attraverso le culture etico-comportamentali del potere per poter riprendere seriamente la strada di riforma delle Pubbliche Amministrazioni e del sistema generale dei servizi alla Comunità.

Abbiamo provato a farlo seguendo la mappa concettuale seguente:

D’altronde, non è un’idea originale visto che questo fu il percorso scelto proprio dai Costituenti.

Certamente ciò vuol dire oggi avere il coraggio di mettere a nudo i meccanismi contorti operativi che la dinamica del potere sottende. Servirebbe introdurre, nella stessa formazione della dirigenza e delle figure del funzionariato apicale, percorsi finalizzati a proporre consapevolezze “cliniche” dei comportamenti propri e presenti nelle organizzazioni pubbliche.

Servirà, infatti, tornare ad una visione vocazionale del lavoro pubblico e sociale, utilizzando tale visione sin dal momento del recruitment e dell’assunzione.

Diversamente si continuerà a sfornare riforme che, nel migliore dei casi, realizzeranno un ottimo pakaging senza rivedere il contenuto della scatola: un bel fiocco ma una rinnovata delusione all’apertura del pacco.

Si rinvia alla prima parte (Prima parte)

*Fabrizio Giorgilli è dirigente della Pubblica Amministrazione da oltre 20 anni. Insegna, come docente a contratto, nell’area disciplinare del comportamento organizzativo presso l’Università del Molise. Segue per l’AIDP Abruzzo-Molise le tematiche riferite al lavoro pubblico. Tra i suoi lavori pubblicati: Etica e virtù nel lavoro pubblico, Giappichelli, 2020; Valori, etica ed efficienza nelle organizzazioni pubbliche, Palinsesto, 2014; Rilevanze organizzative, Palinsesto, 2013; Il gruppo nelle organizzazioni (con F.P. Arcuri e C. Ciccia), Palinsesto, 2009; Quaderno di psicologia e comportamento organizzativo. Il sapere minimo, Editoriale Scientifica, 2008; Il lavoro di gruppo (con F.P. Arcuri), Pirola, 1993; Riforma radicale delle Pubbliche Amministrazioni e ruolo strategico dei comportamenti etici, in “Salvis Juribus”, dicembre 2021.

[1] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: Ardoino (2005); Barus-Michel-Enriquez, 2005; Battista (2011); Cavalli (1996); D’Ambrosio (2004); Feltham-Dryden (2008); Galimberti (2006); Hillman (2002); Kaptein e alt. (2005); Robbins-Judge (2018); Sciandura (2019); Stoppino (2004c); Vincent (2019).

[2] Giorgilli (2020), in particolare il paragrafo 4.2.3..

[3] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: AA.VV. (2005); Barus-Michel-Enriquez, 2005; Battista (2011); Buffa-Archimede (2003); Castiello d’Antonio (2000); D’Ambrosio (2004); Ducan (1975); Ferrarotti, 1980; Galimberti (2006); Galzarano (2015) con utile bibliografia; Linstead-Marechal-Griffin (2014); Roccato (2006); Ruffolo (1988); Stoppino M. (2004b).

[4] Si vedano, come testimonianza significativa i “Vizi capitali” proposti da Celli (2016), facilmente integrabili con quelli di Hillman (2002).

[5] Sul tema e sui suoi sviluppi a seguito del contributo di Adorno, si veda l’utile contributo di De Grada (2006). Assme un profilo autoritario la figura del “leader contro l’istituzione” nelle forme proposte da Barus-Michel-Enriquez (2005).

[6] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: Calder (2018); Ferguson, 2009; Haybron (1999).

[7] Sotto quest’ultimo profilo si osserva, a suo sostegno, il fenomeno dell’”amoralità”: l’amorale sembra abbastanza consapevole delle regole della società e di quelle morali in particolare, ma le ignora volontariamente: si ha conoscenza del giusto/ingiusto in senso razionale, senza esserne condizionati nei comportamenti conseguenti (inerzia motivazionale). Si riconosce, quindi, che ci sono agenti che soffrono di “debolezza di volontà” (cioè akrasia), non essendo influenzati dalla forza motivazionale dei propri giudizi morali.

[8] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: Alvinius-Fors Brandebo (2019); Bader M. e alt. (2021); Bonfá-Araujo B. e alt. (2021); Hilbig-Thielmann-Klein-Moshagen-Zettler (2021); Kaiser-Le Breton-Hogan (2015); Metin Camgöz- Ekmekci (2021); Moshagen-Hilbig (2018); Moshagen-Zettler-Hilbig (2019); Robbins-Judge (2018); Scandura (2019).

[9] Si veda, tra gli altri, l’utilissimo sito scientifico: www.darkfactor.org.

[10] Il profilo subclinico già citato dei tratti oscuri non deve far sottovalutare quanto questi siano associabili a un aumentato rischio di disadattamento, tra cui aggressività e delinquenza, deficit socioemotivi ed, appunto, difficoltà interpersonali. In alcuni casi è stata evidenziata anche la loro incidenza sulla sicurezza nei lluoghi di lavoro, con particolare evidenza per gli infortuni.

[11] Su questo specifico carattere, con riferimento a quanto già accennato nel capitolo precedente, si vedano gli interessanti lavori di Alvinius-Fors Brandebo (2019) e Metin Camgöz-Ekmekci (2021) sulla “leadership distruttiva”.

[12] Variabile psicologica che indica il grado e la modalità di percezione rispetto al “luogo” del controllo del proprio destino e gli eventi: LoC interno, se la persona tende ad attribuire i risultati/eventi (positive o negative) alle proprie azioni); LoC esterno, se invece l’attribuzione dei risultati/eventi è assegnata a circostanze che esulano dal proprio controllo.

Riforma del lavoro pubblico: ricostruire la dimensione culturale e comportamentale del potere e della leadership. Parte seconda

Pubblicato il 23 Maggio 2023 in

Riforma del lavoro pubblico: ricostruire la dimensione culturale e comportamentale del potere e della leadership. – Parte prima


Prima parte: un nuovo statuto etico. 

Fabrizio Giorgilli*

Nota. Questo contributo, suddiviso in due parti, prosegue la riflessione iniziata con un intervento precedente pubblicato il 7 settembre 2021 con il titolo “Per una diversa concezione della Riforma delle PPAA”.

 

“Forse nessun argomento nell’intero novero delle scienze sociali è più importante e al tempo stesso tanto seriamente trascurato quanto il ruolo del potere nella vita economica”

Melville J. U., 1971

“Degli infiniti desideri dell’uomo, i principali sono quelli di potere e di Gloria”

Norton W. W., 1938

“(…) la corruzione comincia non nel potere ma nel non conoscerlo”

Hillman J., 2002

“Il potere è la libertà di distruggere la libertà”

Sofsky W., 1994

 

 

  1. Elementi introduttivi: un nuovo statuto etico

L’intera nostra vita, dove sono i problemi, è vissuta dentro i “campi del potere” (gli altri, le Istituzioni, le città, il lavoro, i ruoli sociali, ecc.) e gli antropologi ci dicono che il potere è tutto dentro la nostra  ansiogena ricerca del controllo sulle risorse socialmente rilevanti, materiali o simboliche che esse siano.[1] Sappiamo anche che porsi il problema del potere significa essere consapevoli della sua irrisolvibilità: non c’è una formula che ne estingua la problematicità. Spesso esso sfugge alle categorizzazioni razionali.[2]

In questo contributo si affermerà, comunque, che il potere è il marcatore più importante del male in particolare nelle organizzazioni pubbliche o finalizzate al lavoro sociale. Il potere come evento distruttivo può incontrare essenzialmente solo l’attenzione in queste organizzazioni. Infatti, nel campo privato, come possiamo immaginare, salvo eccezioni culturali collegate ad una diversa idea di “profittabilità” (si veda l’emergente concezione dell’“economia civile”), la spinta deve essere sempre “positiva”. Qui guida l’obiettivo manageriale del ricavo, rispetto al quale il potere non può essere mai una criticità ma, al contrario, uno strumento di sua massimizzazione; mai una preoccupazione etica ma, ossessivamente, uno spazio per efficientismo comportamentale fino ai confini della manipolazione.

Senza dubbio, il potere nelle organizzazioni pubbliche è un luogo di forme mutevoli che ospita inevitabilmente espressioni plurime del male. Come ci ricorda Mancini[3], prima del male c’è il potere. Questo precede ogni possibile differenziazione tra bene e male, provvedendo ad organizzare gli spazi sociali, i punti di vista, il discorso legittimo. E’ un sistema senza soggetto che domina i soggetti, indicando lo spazio riconosciuto di senso e di valore. Usa la razionalità assoluta (o presunta tale) per bandire ogni forma di “sragione”. Abolisce il dialogo e sostituisce la Funzionalità (generalmente solo economica) all’Umanità. Il potere si manifesta come un “demone invisibile”[4] che condiziona le scelte ed alimenta le motivazioni (invadendo le regioni del sentimento), come “remunerazione fondamentale” rispetto alla paura della perdita ed al desiderio di controllo. Piú il potere è forte, piú agisce “silenziosamente”: se deve fare espresso riferimento a se stesso, risulta già indebolito.[5]

Dunque, il potere nello spazio organizzativo pubblico riesce facilmente a sintetizzare il plurale dei “luoghi” comportamentali del male, perché generalmente connaturato alla ragion d’essere dell’organizzazione pubblica e di lavoro sociale, al suo sistema di interrelazioni, importante e pervasivo, che si propone in diverse forme ed informa l’esistenza stessa di una comunità. Il potere burocratico è stretto nello spazio dove da un lato è marchiato socialmente come “brutta cosa” ma dall’altro lato è funzionale per l’azione delle Pubbliche Amministrazioni efficienti.[6]

D’altronde, fu Cox già nei primi anni 2000 a proporre esplicitamente il concetto di “male amministrativo” (administrative evil)[7], situandolo in particolare nello spazio “mascherato” e spesso inconsapevole degli esiti “cattivi” dell’applicazione tecnocratica della norma e delle regole. Saremmo di fronte ad uno svuotamento emotivo e sentimentale  (“perverso”) del funzionario pubblico.

Ci conforta in questa scelta euristica il percorso indicato da Norberto Bobbio quando giunse a spostare l’attenzione dallo Stato/diritto al potere (“priorità del potere”). Lo fece mentre cercava una risposta a “cosa c’è all’origine di un ordinamento?”: il potere “nudo” è sempre in agguato ed al diritto è assegnato comunque il compito di definirlo ed arginarlo. [8]

Tutto questo non ci esime certo dal ricordare, per completezza, l’esistenza di un significato anche positivo del potere, un profilo certamente anche benefico del potere (empowerment, ma non solo[9]), del quale però non si trova traccia forte nelle organizzazioni pubbliche. Prova ne sia il fallimento costante di tutte le riforme di sistema fin qui tentate, nessuna delle quali orientata ad un cambiamento dei comportamenti ed in particolare di quelli profondi ispirati da specifiche culture o convinzioni relative al potere ma, al contrario, acriticamente dipendente dai modelli manageriali privati.

Sappiamo che provare ad esplorare il male in queste arene organizzative è un impegno che sembra incontrare una sicura e diffusa esperienza in ognuno di noi in quanto operatori pubblici. Il difficile viene quando si deve dare un corpo, una descrizione riconoscibile, quando si prova a declinare tipologie comportamentali, ad individuarne la dimensione etica implicata o la virtù contrapposta; ostacolati in questo dal forte carattere dinamico e plurale delle manifestazioni.

La letteratura e la riflessione, specialmente in lingua italiana, è ancora oggi povera od addirittura distratta. La marca strettamente ed ideologicamente effcientista-manageriale mutuata acriticamente dal modello privato (si veda la stagione del New Public Management, sostenuta da un nutrito gruppo di amministrativisti, in parte poi pentiti) non ha permesso la nascita di un’attenzione autentica e concreta su questo tema. E tutto questo si propone amplificato, come si sa, in ambienti di lavoro pubblico e sociale. Si sconta la perdita di valore assegnato a quell’area di processi microscopici “simmeliani”, nei quali il male comportamentale si insinua anonimamente, si traveste spesso attraverso le ideologie della calcolabilità assoluta riduzionistica.[10] E’ appunto la frammentaria e complessa quotidianità delle organizzazioni che offre spazi di crescita e resistenza ai valori positivi, facilitando l’occultamento fino all’ultimo degli esiti dannosi e la mimetizzazione al contesto specifico.

Certamente, quando riferiamo il tema del potere alle organizzazioni pubbliche e del lavoro sociale, sono evidentemente implicati i profili costituzionali ed il concetto collegato di autorità (si vedano le note successive). E’ da questi che dobbiamo necessariamente partire, ossia dalla sua “messa in forma” amministrativa[11] che, sin dalle prime dottrine di epoca moderna e dall’opera fondativa di de Montesquieu (“Lo spirito delle leggi”, 1748), si è nutrita delle tradizioni giuridico-economiche dell’Ottocento e del Novecento. Un processo che viene da lontano, attraverso una prima fase nella quale s’incardinò nell’idea difensiva di obbligazione sociale (a tutela della pace e come prevenzione dalla ferinità delle relazioni conflittuali) ed in una successiva basata sulla “legittimazione” e “giustificazione” (dove il potere assunse significato solo attraverso altri concetti apparentemente di lessico opposto, come diritti, libertà, uguaglianza, persona, ecc.).[12] Partire dalla Costituzione vuol dire poi schierarsi tra coloro che pensano riformabile il lavoro pubblico in modo endogeno, ossia potendo attingere da valori peculiari, propri e, appunto già indicati dalla Costituzione senza dipendenza acritiche da modelli non compatibili ed anzi spesso distruttivi (come quelli aziendali e privatistici).

Il potere è stato così assunto, nella tradizione amministrativistica, come “unilaterale”, laddove le PPAA autorizzano, concedono e vincolano senza consenso anche se in base a tipizzazione espressa della legge (si possono esercitare solo i poteri di competenza e previsti nelle proprie attribuzioni). Comunque un potere, in epoca contemporanea, anche originato da accordi con il soggetto destinatario, sui contenuti della decisione che lo riguarda. Infine, è anche un potere, in casi specifici, discrezionale, ossia espresso in quanto facoltà di scelta tra diversi comportamenti leciti e comunque basata su valutazioni di opportunità circa le modalità più adatte nel perseguire il fine (una ponderazione comparativa di diversi interessi secondari in riferimento tutti ad uno primario). Questo potere trova il suo spazio riconoscibile nel provvedimento amministrativo, scaturente dal suo procedimento e vestito di inizialmente dal codice principale dell’“autoritatività” (capacità di definire rapporti sociali nei confini e secondo i principi stabiliti dalla norma attributiva della stessa capacità). Il procedimento amministrativo rappresenta così il mezzo per l’esercizio del potere discrezionale, valorizzando la funzione partecipativa e di trasparenza.

Nel momento in cui l’interesse protetto cambia soggettività collettiva, dallo Stato alla Comunità civica, la legittimazione si colloca allora nel binario, anche europeo, della governance pubblica e del bene comune. Il potere, in quanto qualità identitaria delle organizzazioni pubbliche contemporanee, oltrepassa così il confine originario ed angusto della mera distribuzione ed amministrazione, del profilo potente “catecontico” (dal greco katechon, contenere e comprendere in sé)[13] e si reinterpreta, sostenuto dai principi della Carta Costituzionale, attraverso il nuovo codice principale del “servizio” alla cittadinanza, a sua volta considerata attore del processo procedimentale amministrativo (la “demarchia” di Benvenuti, focalizzata sulla “garanzia di giustizia” in riferimento alle dinamiche scaturenti dalla pluralità degli interessi in quanto capaci di configurare possibili sintesi tra “possibilità e doverosità”) ispirato al criterio del “buon andamento” (articolo 97 della Costituzione), porta di ingresso per ogni riforma concreta delle organizzazioni pubbliche e di lavoro sociale.

Proveremo allora, nello spazio ristretto di questo contributo, ad abbozzare dei primi elementi identificativi della “belva” che cova dentro ogni organizzazione pubblica o del lavoro sociale, dove è attratta dalla possibilità di poter incontrare le sue nemesi ed i suoi avversari di sempre: le sensibilità etiche orientate al bene comune.

L’obiettivo di questo lavoro sarà quindi quello di esplorare la possibilità di una identificazione condivisibile del “male istituzionale” (pensando alle Istituzioni in quanto organizzazioni). Dunque, ricostruire la concezione del potere, un suo nuovo statuto professionale ed etico, è il primo passo per rifondare una nuova cultura organizzativa nelle Pubbliche Amministrazioni ed un diverso percorso di riforma. Si potrà però farlo utilmente se si parte dai suoi significati dannosi, malefici o, comunque, significativi come alert comportamentali. Solo una volta ricollocato il potere in questa sua dimensione destruens, sarà allora possibile una sua rilettura positiva collegata allo spazio di cambiamento (costruens) sostenuto dall’approccio dell’Etica delle Virtù.

Nel presente contributo ci dedicheremo alla prima delle due dimensioni[14] e ci faremo supportare nel percorso principalmente da una lettura multidisciplinare anche se particolarmente attenta ai profili psicosociali. Giungeremo così a concentrarci sulla sua forma organizzativa del potere più importante rappresentata dalla leadership. Una forma divenuta centrale per ogni progetto di riforma dei comportamenti nel lavoro pubblico, ma nei fatti tradotta con superficiali interventi di formazione della dirigenza e/o del funzionariato apicale, limitandosi finora a copiare il modello privatistico prima citato e con ogni evidenza inadeguato.

Sull’importanza della lettura psicosociale va spesa qualche ulteriore osservazione. Già nel suo lavoro storico, Ferrarotti[15] ci mette in guardia sul pericolo di oscillare tra “concezioni grezzamente economicistiche e oggettivistiche” e concezioni “puramente soggettive esposte al pericolo della psicologizzazione dei problemi”. Si tratta, secondo lo studioso, di ridare dialogo ai due aspetti collocandoli in interdipendenza e recuperando così anche il senso etico (“il potere come problema politico”), il senso del contesto storico-sociale, ma evitando il rischio di ridurre questo tema a “semplici problemi di tecniche ingegneristiche e di procedure amministrative” (“amministrazione razionale delle cose”).

D’altronde, l’importanza dell’idea culturale del potere si può facilmente verificare proprio attraverso la dimensione del “cambiamento” auspicato in queste organizzazioni, se è vero che questo ha maggiore possibilità di realizzazione se ispirato da un management capace di supporto materiale (gestione virtuosa delle risorse) ed immateriale (emotività e motivazione).[16] Una dimensione, quella del cambiamento, che rappresenta tutta la complessità non-lineare degli eventi possibili; che decreta inoltre l’inefficienza dell’approccio diretto e modellistico alla riforma dei poteri pubblici (con la tragedia dell’invaghimento per il modello privato) a vantaggio di uno “obliquo”[17]. Un approccio consapevole delle indeterminatezze dei sistemi complessi e, per questa ragione, ancor più orientato all’ancoraggio ai valori, all’etica dei comportamenti.

 

“Poche parole vengono usate così spesso e con così poco bisogno apparente di riflettere sul loro significato come «potere», e così è stato in ogni età dell’uomo. (…) Ma quasi nient’altro, in materia di potere, è semplice. Sottaciuta in quasi tutti i riferimenti al potere è la questione, per altro di non piccolo interesse, di come la volontà è imposta, di come l’acquiescenza degli altri viene conseguita.”

Galbraith J. K., 1983

 

“Un riferimento al potere non è quasi mai neutrale; poche parole provocano tanta ammirazione o, con altrettanta frequenza, sdegno.”

Galbraith J. K., 1983

 

  1. Ricostruzione dell’idea di potere: dalla parola alla fenomenologia

Il concetto di potere presenta una complessità estrema. In questo paragrafo si svolgerà un percorso preciso, rinunciando purtroppo ad approfondire due aspetti.

Il primo aspetto, è quello naturale della relazione stretta concettuale tra potere ed “autorità”[18]. Questa è sostanziata da un autore, che possiede il ruolo necessario per il fare, spesso in competizione con altri ma sempre in riferimento a fondamenti, fonti primarie (ordinamenti e sistemi di regole) che, in senso diacronico (tradizione) ed in modo formale (legalità), si siano costituite una propria legittimità (profilo razionale e giustificativo). Fa riferimento ad un elemento originario “altro” che ne costituisce con verticalità, stabilmente e continuativamente, il fondamento e ne garantisce la stabilità. Implica l’esistenza di un “ordine” governato da una auctoritas con proprio valore perenne e visibile e quindi legittimo. Si attribuisce potere, come gruppo sociale, ad un “ente personale o impersonale”.

Il secondo aspetto è riferibile alla necessità di cominciare ad avere in evidenza modelli di lettura del concetto di potere. Qui ne citeremo solo alcuni ritenuti utili ai nostri fini: la “regola del tre” e le “fonti del potere” di Galbraith; alcuni modelli della scienza sociale e dell’analisi culturale[19]; importanti approcci di psicologia sociale, con al centro le dinamiche gruppali ed organizzative[20]; Foucault[21]

 

2.1. Il lemma del potere[22]

In questa sezione del paragrafo si indagherà sulla dimensione etimologica del concetto di potere. Lo si farà nella consapevolezza di essere di fronte, come lo definì il già citato Ferrarotti[23], ad un “concetto-paravento”, occasione di “fraintendimenti memorabili” dovuti ad incertezza terminologica, ambiguità concettuale (“aurea di misteriosa ambiguità”) e uso acritico del termine. Si potrebbe persino affermare, secondo il sociologo italiano, che una definizione operativa del potere, ossia tale da venire utilmente usata nello studio sistematico del fenomeno, non possiamo ancora disporre, “sappiamo ancora troppo poco, ci muoviamo per lo più in base a impressioni o a principi di preferenza personali maldestramente coperti dal gergo scientifico”.[24]

Un sostantivo “polisemico”, che dipende dal contesto e dal punto di vista in cui ci si pone. Wrong[25] ci ricorda che il “potere” è sempre stata una di quelle parole che usano tutti senza necessariamente essere in grado di definirlo in modo soddisfacente. Il potere, afferma Lukes[26] nella sua “power radical view”, è reale ed efficace in una notevole varietà di modi, alcuni di loro indiretti e alcuni nascosti, immaginando un rapporto diretto tra minore accessibilità all’osservazione e sua maggiore forza esplicativa. Un concetto capace di evocare tanta libertà insieme ad altrettanta sventura.

Una parola di difficile definizione per l’uso esteso che se ne fa nella vita sociale attraverso molti sinonimi (forza, prestigio, autorità, dominio, influenza, coercizione, potenza)[27] che spesso ne estendono il concetto.[28] “Il potere del potere sembra principalmente fondarsi sul fatto che nessuno sa dire esattamente di cosa si tratti in realtà”, come affermava Luhmann sottolineando il carattere “oscuro” del concetto[29].

Sarà allora ancor più utile partire dalla significatività linguistica, dal lemma “potere”, con la consapevolezza dello stretto legame tra questa dimensione e quella culturale e/o dell’esperienza sociale.

La radice sanscrita, dunque, è , riferibile a “puri”, alla fonte di luce “purificatrice” (puras o pūrva). Tutto per dar conto del processo ritualistico che concedeva la purezza, governato dal sacerdote purificatore (pati, “colui che esercita la purificazione”) o padre (pitr). Il rito di purificazione abilitava il singolo ad entrare in contatto con il sacro, legittimando così l’esercizio del potere di intermediazione. Il verbo pā (pā, pāti), significava poi “proteggere”: chi era puro veniva “preservato” da ogni male. L’indoeuropeo pat venne ad indicare “avere potere”, “governare”. In greco trasformato in pot: omai ,”ottenere”, “acquisire”, “possedere”; pothéō, verbo indicante un desiderio particolarmente forte e ardente quale presupposto del potere, “desiderare”,“reclamare”,“esigere”; nella forma passiva come path, páthēma ossia “sofferenza ”, “disgrazia”. In latino trasformato nella forma attiva pot: possum, posse, “essere capace di”,”potere”;

potior,-iri, “diventare padrone di”, “possedere”; potis, “essere capace”, “si può”, “è possibile”; potens,-entis, “potente”; potentia, ae, “potenza”; potestas “autorità”, “capacità”, “potere politico”, “dominio”, “potere”.

Dunque, sempre rimanendo nella dimensione del lemma, il potere è: proprietà in base alla quale si è in grado, si ha motivo di compiere o meno qualcosa (“potere di”, facoltà, autorizzazione a, permesso di) senza avere ostacoli o temere conseguenze; proprietà non comune (dono, dote, facoltà, risorsa, virtù, talento); capacità di influire sul comportamento altrui (“potere su”); facoltà di imporre la propria volontà agli altri (autorità, dominio, egemonia, padronanza); possibilità di compiere azioni anche giuridicamente rilevanti (potestà); possibilità di provocare un determinato effetto (potere malefico, ecc); avere forza, efficacia, potenza di raggiungere determinati effetti; godere di notevole influenza, autorità, possedere ingenti mezzi. Più che il fare, la capacità di fare.

Se proviamo poi a leggere il potere secondo una logica linguistica analogica, scopriamo alcuni aspetti estremamente interessanti. Sia con riguardo alla personalità/desideri/emozioni/bisogni soggettivi (es: ambizioso, servile, prevaricatore, brama di, avidità, ecc.) che con riferimento alle tipologie o sistemi di attori (es: potere amministrativo; potere coercitivo; potere occulto; ecc.) o riguardo alle azioni (es: abusare, comandare, dominare, ecc.), si trovano raramente espressioni positive e “buone”. La cultura sociale nella quale viviamo ha registrato, nella maggior parte dei casi, manifestazioni negative e distruttive associabili all’uso del potere. E questo è già significativo.

 

“Intorno al concetto di potere imperversa ancora un certo caos teorico. All’ovvietà del fenomeno si contrappone una totale mancanza di chiarezza concettuale. (…) Va quindi messa a fuoco una forma base di potere (…). In tal modo si priverà il potere almeno del potere fondato sul fatto che non si sa esattamente cosa esso sia.”

Byung-Chul Han, 2019

 

2.2. Le fenomenologie del potere[30]

Ora dal lemma passiamo alle sostanzialità del potere[31]. Lo abbiamo già detto, il concetto si presta a profili mutevoli, vari e complessi. Ai nostri fini, ossia avendo in evidenza la dimensione del male, si proverà ad esplicitarli rispettando questa policromia attraverso una proposta di schema concettuale.

2.2.1. Le “caratteristiche proprie generali” tipiche di ogni potere.

Declineremo quelle importanti ai nostri fini.

  • Il potere è’ una risorsa fertile, capace di autoriprodursi.
  • Quello del potere è un gioco a somma zero: l’aumento per alcuni comporta la diminuzione per altri. Il potere è una risorsa scarsa. Domandarsi che cosa è il potere significa di fatto chiedersi chi lo detiene e chi no e, inoltre, da cosa o chi esso derivi. Il potere crea diverse forme di continuità, nel senso che mette in condizione Ego di “essere a proprio agio nell’Altro”, di “propagarsi in Alter” e percepire tale relazione come “proprio destino”. Produce una “continuità del sé”. Il potere, in quanto brama, è allora un fenomeno del continuum: offre a chi lo detiene un ampio “spazio del sé”, attraverso la costrizione o la libertà. Così la violenza e la libertà sono gli estremi della gamma del potere: la continuità forzata del sé è fragile per via di una mediazione assente; se la trasmissione si riduce a zero, ecco che il potere fa ricorso alla violenza, che riduce Alter in una condizione di estrema passività (non si verifica alcuna “continuità interiore”) e assenza di libertà Ego realizza in Alter le proprie decisioni. Il potere crea “spazi” per Ego che gli appartengono e nei quali, malgrado la presenza dell’Altro, riesce a essere come a casa. Se si perde il potere, il vissuto è quello di una “perdita totale di spazio”, una specie di morte.
  • Il potere permette di godere del “valore di deferenza”: si è presi in considerazione nelle condotte degli altri.
  • Il potere è “generativo”. Esprime, oltre l’idea di forza e quella di energia, la capacità di crescere sulla base di risorse che la collettività conferisce ad un dato soggetto al fine di conseguire benefici comuni. Questa caratteristica si differenzia da quella “distributiva” (a somma zero), che considera il potere come una grandezza finita, per cui tutto il potere che un certo soggetto possiede a un dato momento appare sottratto a un altro, e viceversa.
  • Il potere presenta una tradizionale “funzione integrativa”, con riferimento all’“insiemità” ed allo stare insieme in una società[32].
  • Il potere è la ‘definizione dell’essere’, ossia il tratto distintivo dell’esistenza collettiva ed individuale. Così per Platone (“Sofista”). Erich Fromm[33] colloca la ricerca del potere nella famiglia delle passioni. Queste, infatti, condizionate dal carattere (nelle sue strette relazioni con la cultura sociale di riferimento)[34], sono “risposte a ‘esigenze esistenziali’, radicate nelle condizioni stesse dell’esistenza umana”; ed in tal senso si differenzierebbero dagli “istitnti”, risposte invece alle esigenze fisiologiche dell’uomo. Fromm assume la convinzione, inoltre, che l’individuo non desidera solo ciò che gli è indispensabile per la sopravvivenza (“base materiale di una vita soddisfacente”), ma esprime un’“avidità” nel volere sempre di più, in un processo di insoddisfazione costante. Siamo così su di un piano culturale profondo, dovendo scegliere se modificare l’orientamento dal “controllo-proprietà-potere” (avere ed accumulare) a quello verso la “vita-essere-condividere”; e dovendo dare o meno valore alla partecipazione, responsabilità, cittadinanza. Queste “passioni del potere” si possono ricondurre alla triade piacere-dolore-desiderio. In esse si costruisce l’idea di Sè, dell’autoconservazione, della propria vita, delle cose da considerare come limiti o come potenziamenti. La crudeltà è “l’anima dannata del potere”. Il desiderio è il veicolo prevalente, nelle sue associazioni con il piacere o con la pena (produttrice forte di dopamina a fronte di stimoli avversivi o strategie per il suo evitamento), in tutte le forme possibili di potere a partire da quello nelle organizzazioni o riferibile al governo della società. Sappiamo quanto sia profonda questa dimensione, quanto la coppia desiderio/piacere si richiami a sistemi neurologici originari nei quali si realizza una forte associazione con il vissuto affettivo in modo precedente all’azione. Ulteriore grande origine delle passioni del potere è la paura, come già Machiavelli aveva capito. Il timore come generatore di preoccupazione, oggi leggibile secondo i codici dell’ansia, è certificatore dell’esserci, essere in azione nel suo accesso alla realtà. Se però ne è inibito il processo successivo di consapevolezza circa la propria responsabilità verso l’Altro, esso scatena un senso di potere nella forma di aggressione e annichilimento proprio dell’Altro.
  • Il potere possiede una delle semantiche più forti nella vita sociale. Il potere può legarsi al senso (ted. sinn). Mediante il suo potenziale semantico, esso s’inscrive in un orizzonte ermeneutico. Il potere è “eloquente”, ossia definisce il mondo (cose, eventi, ecc.) determinando gli obiettivi in logica di volontà di potenza. Il potente si manifesta con “un linguaggio di segni del piú forte”, un linguaggio “carente di mediazione” (cosa che conduce a uno spirito limitato e nevrotico). Una potenza “votata alla conquista dell’altro”. In tal modo, la “causalità” non potrebbe mai descriverlo e questo già solo considerando la sola vita organica, dove l’organismo non consente a uno stimolo esterno di esercitare un influsso su di sé senza intervenire ma reagisce in modo “indipendente”. Gioca un ruolo importante, sotto questo profilo semantico, il concetto di “abitudine (habitus)[35] Con tale concetto si fa riferimento ad un processo di interiorizzazione (adattamento preriflessivo ed assenso preconscio, con esiti comportamentali anche somatici) che stabilizza l’idea vissuta di potere agendo in particolare nella dimensione simbolica. Un potere assoluto sarebbe quello che non appare mai, che non fa mai riferimento a se stesso, anzi si fonde del tutto con l’ovvio risplendendo attraverso l’assenza. Qui il potere è libero nel senso che l’Altro vi si sottomette senza costrizione. L’abitudine ci introduce all’idea di intermediazione utilizzata da un potere che non opera contro le intenzioni dell’Altro, ma riesce a plasmare il futuro dell’Altro, senza bloccarlo. Ossia, tale potere influenza, rielabora o prepara il campo di azione di Alter affinché questi, in assenza di sanzioni o minacce, “scelga”ciò che è conforme al volere di Ego.

 

2.2.2. I profili relazionali del potere

Possiamo poi soffermarci sui profili più marcatamente relazionali implicati dal potere (prospettiva “relazionistica” del potere) che ne negano il carattere di mera “proprietà”. Un carattere, al centro della “prospettiva oggettivistica del potere”, per la quale il potere è “sostanza” o res; ossia un oggetto materialmente posseduto da determinati soggetti che se ne avvalgono per dominarne altri. Ma, come si è detto, l’oggettivazione è difficile e si può solo arrivare a concepire attraverso il concetto di forza (Machiavelli) che, in un modo surrettizio, ci riconduce alla relazione. Alcuni comunque, proprio recuperando il tema oggettuale, osservano come il potere può essere fonte di conflitto proprio per il fatto di essere “un bene di possesso, che dunque si può ‘avere’, come un qualsiasi bene materiale, o anche conquistare e perdere”.

In generale, il profilo relazionale è’ relativo ad effetti che riguardano persone. Il potere è una “relazione interpersonale” formale od informale. Una relazione triadica: chi lo esercita (il potere si trova al centro dei rapporti con il capo – Lacan); chi lo subisce; e l’area di attività rispetto alla quale è esercitato. La relazione di potere tra persone è il cd. “campo del potere”. Non vi è situazione di potere nell’isolamento relazionale. Se il potere è una relazione, allora la sua espressione più forte sarà quella simbolica. Questa, lo sappiamo attraverso Jung, ci conduce nel profondo dei comportamenti: il simbolo rivela celando e cela rilevando; è al centro della vita immaginativa ed onirica, mostrando i segreti dell’inconscio e con essi le motivazioni nascoste per le nostre azioni; può, come rivelazione del potere, fare del male o del bene alla relazione in base ai sistemi valoriali scelti.

Emerge immediatamente il concetto di “influenza” (ascendente): il potere come relazione consiste in un “rapporto che si manifesta in un’influenza”[36]. Si può non avere, facendolo venir meno, l’attitudine a farsi influenzare (e ciò dipende dalla scala di valori). L’influenza rappresenta l’insieme dei rapporti di potere poco strutturati e prevalentemente informali. Determina così una “dinamica relativamente instabile”, un gioco di forze nel quale evitare l’insubordinazione latente attraverso processi di sacralizzazione (intangibilità) e “manipolazione istituzionale”. Un certo uso del potere può ritenersi dipendente persino dal suo essere tenuto nascosto, dal non essere percepibile, in chi la subisce, la relazione di sottomissione[37].

Ricoeur ci propone, sempre sul piano relazionale, una distinzione del potere in termini di “riconoscimento” (potere di parlare, agire, raccontare, reagire, ecc.) e “misconoscimento” (potere su, come violenza, dominio, negazione dell’altro).[38] La prima, intesa negativamente (“non riconoscimento”) e la seconda, chiuderebbero la vittima in una realtà falsa di discriminazione, infliggendo gravi ferite alla personalità.

Prospettiva strumentale rispetto a quella di relazione è la prospettiva soggettivistica del potere che lo declina come qualità/capacità/facoltà soggettiva a produrre un mutamento (causa-effetto; realtà operante-realtà operata) su altri: un potere “relazione binomiale unidirezionale”. I giuristi traducono tale prospettiva come facoltà/capacità conferita ad un soggetto dalla legge di determinare le proprie relazioni legali nei confronti degli altri individui della collettività, differendo dal diritto perché non prevede la contemporanea presenza di doveri.

In senso politico/istituzionale il potere è sempre potere dell’uomo sull’uomo, ossia capacità di condizionare il comportamento di altri. Relazione fra individui, in taluni casi diretta e in taluni casi mediata da organizzazioni e istituzioni. Il rapporto tra regole e poteri è uno dei grandi problemi. Così il potere può essere usato per realizzare finalità nobili o meno. C’è però una differenza sostanziale tra potere e diritti: il primo è un fenomeno “discendente” tra chi può, che sta sopra, e chi deve, che sta sotto, presupponendo quindi la disuguaglianza. I diritti, invece presuppongono una relazione orizzontale, paritetica, fondata sul principio di eguaglianza. Il potere è concepito non come proprietà dell’individuo, ma appartenente a un gruppo fino a quando questo resta unito. Quando diciamo che un individuo “ha potere” ci riferiamo in realtà al fatto che a tale individuo è stata conferita da un certo numero di persone la facoltà di agire in loro nome.

Il potere può riferirsi alle caratteristiche personali del suo detentore (competenza, carisma, ecc.) o sul suo ruolo; può articolarsi su più ruoli (potere istituzionalizzato). Vengono in evidenza diversi atteggiamenti dai quali derivano le dinamiche del potere: percezioni o “immagini sociali” del potere; reputazione del potere; aspettative sui comportamenti futuri degli altri attori (cd. reazioni previste), fattore forte di conservazione del potere. Al di là dei mezzi, il potere è un “potenziale di intervento efficiente sugli altri” (comportamenti, esperienza, esistenza). In una relazione di collaborazione (dove Ego ha bisogno di Alter) nasce una dipendenza: Ego non può piú progettare ed agire senza tenere in considerazione Alter, che può cessare di collaborare. Paradossalmente, maggiore è la concentrazione del potere nelle mani di Ego, maggiore sarà la capacità condizionante di Alter, anche considerando che la complessità svuota l’impatto del comando e determina la “dispersione del potere”.

L’autonomia (ossia lo spazio di non congruenza degli interessi) è la ragione stessa del potere: solo se gli attori la posseggono, possono definirsi relazioni di potere.

L’organizzazione produce “posizioni di interdipendenza squilibrata e aperta”, nelle quali ogni partecipante necessita del contributo degli altri. Ma è l’autonomia a non renderlo automatico: è una buona volontà da ottenere attraverso un accordo (ricerca della congruenza tra interessi) nel quale mettere a disposizione delle risorse esercitando una dialettica dei poteri e ricercando per essi giustificazione/legittimità. Così il potere diviene il “meccanismo quotidiano e inevitabile che media e regola gli scambi di comportamento”. L’esistenza del potere come mezzo di scambio non ne fa automaticamente una molla per l’azione o un interesse che riveste la stessa importanza per tutti, ma un profilo strettamente connesso alla dipendenza/interdipendenza.

L’arena del potere è la situazione composta da coloro che domandano il potere o che fanno parte del campo del potere. In questa arena l’espressione patologica del potere è in gioco quando si confrontano due forze: la sua “concentrazione” (fattore malefico) o la costruzione di reti come sistemi di relazione aperti a più menti.

Il potere appare consistere nella negazione dell’autonomia necessaria alla riflessione (autonomy required for reflection). Secondo Michel Foucault “l’esercizio del potere è sempre associato ad una certa economia dei discorsi di verità”. Si è soggetti alla produzione di verità attraverso il potere e questo può essere esercitato solo attraverso di essa.

Il potere cattivo si situa, nelle organizzazioni di servizio pubblico, negli spazi lasciati liberi dalla contrapposizione tra interessi personali e valore del bene comune. La soddisfazione ed il senso di potenza nel determinare i destini dell’altro grazie al potere di governo della risposta al suo bisogno. Quanto il potere cattivo può sorgere da una interpretazione (costruita su codici culturali) ed una ricerca patologica della reputazione? Come il desiderio di immortalità dell’anima può alimentare un narcisismo estremo, capace di soffocare un desiderio sano di proposta agli altri di un Sé “onorevole”? Quanto il bisogno di “fama” (concetto latino di reputazione) può indurre a comportamenti malvagi nella gestione del potere pubblico?

Appare evidente che il potere, quando fenomeno dell’interiorità e della soggettività, è “ipsocentrico” (vi è ipseità e volontà rivolta al Sé, la soggettività si propone come costitutiva del potere). Nell’ipseità ciascun luogo di potere punta a se stesso, afferma se stesso. Generalmente la potenza concessa al Sé ha esito in un’assoluta immunità. Al potere in quanto tale manca l’apertura all’alterità. L’eticizzazione del potere richiede così che esso dia spazio non solo all’Uno ma anche al molteplice. Tende invece alla ripetizione del sé e dello stesso.

2.2.3. La dimensione operativa del potere

Il potere che in questa nostra riflessione interessa è sicuramente anche quello del “fare” (realizzare, ottenere, rapporto con scopi/fini) di individui o gruppi. Il potere, in tal senso, è la partecipazione ad una presa di decisione sui valori che condizionano condotte specifiche utilizzando anche sanzioni. Queste gli conferiscono le caratteristiche di una forma specifica di influenza (si veda sopra) capace cioè di controllo (cd. potere forte, di minaccia, capacità di arrecare danno immateriale/materiale) e/o di imposizione di una propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva/passiva di un altro soggetto/gruppo. Il soggetto con il potere, per raggiungere i suoi scopi, controlla risorse che sono necessarie all’altro e che potrebbe però utilizzare solo se si conforma al volere del primo (“potere di disposizione”).

Uno dei criteri più ovvi sotto il profilo del “fare”, appare quello dell’impatto che il potere ha sugli “interessi” degli agenti coinvolti, intendendo per interessi ciò che è importante per un agente, individuale o collettivo. Così, nel confrontare il potere degli agenti su ambiti, o insiemi di questioni, differenti, introduciamo inevitabilmente delle valutazioni relative alla misura e al modo in cui il potere di tali agenti favorisce i loro interessi e, cosa ancora più importante, investe gli interessi di altri. Di norma, si presuppone che il potere sia funzionale agli interessi di chi lo detiene Ma a prescindere da questo assunto, è l’impatto del potere sugli interessi di altri a fornire il criterio in base al quale valutarne la relativa estensione Per questa ragione le comparazioni del potere che comportano una valutazione dell’impatto che esso ha sugli interessi degli agenti non possono mai evitare giudizi morali e politici controvertibili

La “portata o raggio d’azione” del potere” identifica ciò che un agente è in grado di fare esclusivamente nelle condizioni esistenti (“dipendente dal contesto” od ableness), oppure in una varietà di circostanze alternative (“trascendente il contesto” o capacity)? Nel primo caso, A è potente se può produrre gli effetti desiderati solo quando le circostanze presenti lo mettono in condizione di farlo (ad esempio, una particolare contingenza economico-sociale può dare valore ad una specifica azione organizzativa). Si fa riferimento, dunque, a ciò che un agente è in grado di fare in un determinato luogo e in un determinato momento, date le condizioni esistenti in quel luogo e in quel momento. Nel secondo caso, A è potente se può ottenere i risultati voluti in una varietà di possibili circostanze. Siamo di fronte ad una capacità che un individuo è in grado di dispiegare in un’ampia gamma di contesti (standard). In questa idea del “raggio di azione” si colloca la “decisione” che libera potere ed è potere. Il termine latino (caedo-caedere) rimanda al percuotere, rompere, tagliare; dal sanscrito khidati (schiacciare, apiattire) e kheda (martello). La decisione crea (attraverso il “taglio”), permettendo di uscire dall’indecisione ma anche potendo creare, nella scelta, un conflitto.

Spesso il potere è associato al criterio, diabolico nella sua fruibilità, dell’“efficienza”: analisi funzionale e cinica dei costi-benefici, anche fino a premiare socialmente la capacità di far fare ad altri. Si cerca il controllo assoluto delle condizioni per la massima redditività delle operazioni. Efficienza per chi ha il potere e non per il destinatario delle azioni da esso scaturenti. Serve allora una libertà come potere senza impedimenti. Un’ossessione priva di consapevolezza della dimensione sensibile ed emotiva; fine a se stessa perché funziona; espressione di un potere auto centrato attraverso  un fare che richiede di conseguenza di annullare la riflessione sui fini (dimensione etica). Una “libidine di potenza” per ottenere il massimo pagando il minimo.

Particolare la lettura del potere come “veto”, potenza della negazione, frustrazione della volontà degli altri (dal latino vetare, proibire).Per Freud la negazione è una repressione, rompe le relazioni, rifiuta la cooperazione. Il veto “ferma e tiene sotto” (subordina). Per Kant, invece, i giudizi negativi impediscono l’errore (profilo di purismo)

Un potere del fare con natura negativa e distruttiva che, nelle organizzazioni pubbliche, annichilisce l’idea opposta del “buon servizio”, idea che non guadagna, non conquista, ma protegge, sostiene, cura. Un tale potere rifiuta ogni mediazione, scambio, distribuzione, negando il riconoscimento tra persone ed esaltando il guadagno nella transazione. Rifiuta l’interdipendenza positiva ed esalta l’autonomia chiusa nell’illusione dell’autosufficienza. Priva l’”ufficio” (ossia il potere che spetta ad una persona perché titolare di una posizione) del carattere di servizio, rileggendolo attraverso quello del “prestigio” in quanto ricerca dei soli “ornamenti” (segni, simboli esteriori) dell’ufficio stesso. In tal modo si eccitano e giustificano vanità narcisistiche indebolendo il valore delle responsabilità. E’ il prestigium (inganno, illusione, trucco), coerente con la mera esibizione del potere, una scomposta e compulsiva manifestazione di potenza finalizzata a richiamare l’attenzione su di sé autocelebrandosi. Una maschera che non permette di costruire reputazione.

2.2.4. L’istiuzionalizzazione del potere

Sarà a questo punto utile affidarsi al concetto euristico di “Istituzione”[39] Un paradigma funzionale ad una analisi che possa spaziare tra visioni ampie antropologico-culturali e focalizzazioni più specifiche nonché strutturate in campo strettamente organizzativo. Le organizzazioni in quanto istituzioni sono infatti “ambiti privilegiati” di esercizio del potere, necessario loro per avere legittimità (senso, densità storica e possibilità di sviluppo) ed alimentare lo stesso profilo istituzionale come faccia invisibile dell’organizzazione. L’Istituzione per alcuni si può definire come “gruppo sociale legittimato da un’autorità”, ossia essa nascerebbe grazie ad un potere che la concretizza e si articola esprimendo suoi rappresentanti.[40] L’Istituzione, infatti, deve essere interiorizzata nei comportamenti concreti, nelle regole quotidiane delle organizzazioni.[41] Osserva perfino un grande biologo affacciato ai temi sociali, il fatto che le Istituzioni siano “manifestazioni e materializzazioni del potere”.[42]. Etimologicamente, la derivazione della parola “istituzione” è dal latino “institutio”, sostantivo derivato dal verbo instituere (“in” e statuere) che indica il “porre dentro”, “stabilire”, “istituire”; e quindi con il richiamo conseguente alla regola ed all’ordine, a loro volta connessi, nella radice latina, all’idea di formazione della persona. L’istituzione, attraverso i ruoli sociali e le norme, definisce il comportamento corretto ed atteso orientato al soddisfacimento del bisogno sociale.”(…)[43]

Ruoli, norme, valori e pratiche sociali (di azione, cognitive o rappresentazioni sociali), veicolano e strutturano le Istituzioni. Queste, infatti, si propongono come spazio organizzato e cooperativo dove esprimere il comportamento sociale (positivo o malefico), a garanzia degli scopi ed il loro trascendimento rispetto alle generazioni.

Dunque, per Istituzione si dovrebbe ai nostri fini intendere quel complesso di valori, norme, consuetudini che con varia efficacia definiscono e regolano durevolmente, in modo indipendente dall’identità delle singole persone, e di solito al di là della durata della vita di queste: i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di un determinato gruppo di soggetti la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante; i rapporti che un insieme non determinabile di altri soggetti hanno ed avranno a vario titolo con tale gruppo senza farne parte.[44]

Durkheim già ci avvertiva sul fatto che le Istituzioni trattano, appunto, di “credenze e modi di condotta sociali”, assegnando alla sociologia il compito di studiarne le dinamiche. Un’Istituzione, in quanto tale insieme di valori, si propone con forte significato simbolico e nello stesso tempo pratico, potendo essere manifestata tanto dai significati veicolati attraverso il linguaggio come dal semplice gesto di una stretta di mano.[45]

Le Istituzioni agiscono, in definitiva, sul piano dei poteri (azione sociale) in rapporto con la cognizione (sapere sociale) e l’affettività (emozione sociale), scaturendo da un interesse condiviso e duraturo finalizzato ad assicurare un grado specifico di cooperazione. Le Istituzioni, di fatto, sono create dal singolo individuo ma, a loro volta ne condizionano i processi di formazione socio-cognitiva. Sono il luogo dove si definisce il “comune destino”, la “comune accettazione” che ogni individuo porta con sé in ogni momento della sua vita. Questo processo di appartenenza alimenta e garantisce il conferimento di identità: l’Istituzione semina nella coscienza (a livello emotivo-cognitivo) e raccoglie senso del bene comune; si propone come l’occasione per strutturare l’idea di “prossimità in comunità” (incontro con le persone che si collocano accanto a noi); e dove questo no avviene si attivano i processi di potere espressi dai free-rider. Siamo in un luogo dove ci è richiesto di habitare et diligere (Agostino): esserci con tutto se stessi, mettersi in gioco nel legame e nell’amore verso gli altri.

E proprio la dimensione cooperativa, nella sua possibile violabilità, ad assumere un rilievo forte per i processi comportamentali malefici nelle organizzazioni ed in particolare in quelle del lavoro pubblico sociale. Infatti, in alcune istituzioni la cooperazione è organizzata in modo piuttosto debole, ed è solo questione di tempo prima che le risorse vengano dissipate da persone avide e corrotte. Il segreto sembra essere nel modo in cui vengono progettate le istituzioni, rispetto all’allocazione dell’autorità, alla definizione delle risorse comuni ed ai meccanismi utili ad indurre gli individui a partecipare all’attività di sorveglianza responsabile. Così, si potrà definire “benigna” un’istituzione che consente ai membri della comunità di cooperare in modo che ciascuno realizzi il proprio vantaggio; mentre sarà “perversa” quella con regole che favoriscono gli interessi a breve termine di pochi a scapito dei beni comuni. In generale, si può affermare che le istituzioni saranno buone o cattive a seconda che riescano o meno a strutturare le interazioni umane in modo da ridurre i conflitti di interesse.[46]

Il processo di istituzionalizzazione del potere, in generale, lo perpetua e ne permette l’autoriproduzione, principalmente attraverso tre fattori[47]:

  • i meccanismi di controllo sulle risorse organizzative principali (“agglutinazione”), per rafforzare il potere già posseduto:
  • i modi e le forme culturali di fare le cose, gestire relazioni e di prendere le decisioni, con al centro la funzione del linguaggio e dei simboli;
  • i processi giuridico-formali necessari a stabilire le regole formali.

 

L’istituzione, confortati dalla psicoanalisi delle organizzazioni, si propone allora principalmente come il “regno del non-detto e del non dicibile”, ponendo la loro influenza in riferimento alle funzioni assicurative finalizzate alla gestione delle ambiguità (fissità o cambiamento?) e dei sensi di colpa, ponendo in secondo piano le classiche e formali frontiere dell’efficienza-risultato.

Il profilo malefico del potere può dunque facilmente insinuarsi nell’esigenza inconscia di difesa dalle angosce psicotiche, di garanzia della reciprocità affettiva e di regolazione dell’aggressività, anche fino ad accettare l’alienazione della persona nei processi decisionali[48] per vestirla come “agente razionale” (che massimizza la propria utilità). L’uso cattivo del potere tende allora a depotenziare, di contro, tutti gli aspetti positivi dell’istituzione[49]: offrire uno spazio protetto per le sperimentazioni comportamentali individuali o gruppali in considerazione delle dinamiche pulsionali e desiderative che portano ad una costruzione ulteriore del Sè; attivare una possibile protezione dalle spinte distruttive dell’egoismo e delle emozioni quando ispirate da poteri bramati perché realizzazione del proprio interesse personale (la “ruggine delle società” di cui parlava Tocqueville riferendosi all’”individualismo” insano). Tutto ciò ha effetti generazionali, assumendo il dato evidente che l’istituzione è qualcosa che esiste già prima, che ha memoria, potendo così agire con i suoi schemi comportamentali fortemente condizionanti (cd. etichettamento e/o denominazione) sul piano della cognizione sociale (rapporto tra mente individuale e mente sociale).[50] L’uso negativo del potere può alterare in tal modo la stessa idea, socialmente costruita, di “carattere pubblico”, allontanandola dall’impianto etico voluto dal Patto Costituzionale.

2.2.5. Fenomenologie critiche del potere[51]

Serve, nella ricostruzione che si sta operando, rimettere in ordine alcune accezioni critiche e patologiche del potere, in parte anche evocate.

  • Incertezza. Capacità (con risorse tangibili e non) di scelta/volontà libera, fare o non fare, a fronte di condizioni di incertezza per la risoluzione di problemi. Si può rispondere alle incertezze provocando nuove condizioni di incertezza. Gli attori in grado di controllare l’incertezza (competenza), anche parzialmente, traggono vantaggi (insostuibilità) e si impongono sugli altri o sanno trattare con gli altri. Incertezza e problema per tali attori sono fonte di potere. Il potere, innescando il processo, domina sull’accaduto, ma le relazioni causali in ottica sistemica possono a loro volta presentare un’eccessiva complessità a partire dai comportamenti attesi di altri soggetti (un tempo dati per prevedibili).
  • Divario di potere. Si palesa come rischio a fronte delle istanze individualistiche immediate ed originarie, desideri ed aspettative anche in contrasto con l’etica pubblica e le solidarietà (“forma corrosiva di narcisismo ed egoismo”, “forme di aggressività narcisistica”). Il potere ha bisogno dei tempi di mediazione (consenso e cambiamento competenze adatte).
  • Dominio. Il dominio è una proprietà strutturale della relazione di potere, in quanto riflette l’asimmetria delle risorse. Gli studi organizzativi hanno espresso ostracismo nei confronti del tema potere, perchè in contraddizione con l’idea organicistica e positiva dell’organizzazione.
  • Nei rapporti tra potere e legge, Lacan osserva che se il potere si confonde con la legge, cadiamo nell’arbitrio/dispotismo, dove la volontà del detentore si esplica senza possibilità di appello.
  • Prevaricazione. Il potere è prevaricazione quando utilizza le proprie prerogative per perpetuarsi. Il potere, infatti, può essere usato male (abuso[52], danni all’altrui autonomia, egocentrismo, ostinazione) originandosi spesso, secondo la psicologia adleriana, da esperienze infantili di potere o mancanza di potere, con conseguente complesso di superiorità: compensazione di un basso livello di autostima. Il potere è espresso, in questo profilo minaccioso e pericoloso, nella metafora della testa di Gorgone, collocandosi sul confine del disumano perché capace di provocare disumanizzazione di chi vi entra in relazione (di chi incrocerà lo sguardo fisso del Gorgone). In questa ottica di uso non legittimo, vediamo alcune espressioni tipiche.
  1. Consiste nell’escludere possibilità alternative, riducendole nel caso limite ad una sola. Non richiede comunicazione tra gli agenti coinvolti.
  2. Il soggetto con il potere minaccia di impiegare od impiega mezzi tali da recare danno diretto all’altro nella sfera dei suoi interessi (economici, morali, affettivi, ecc.) qualora questi non si conformi alla sua volontà. Modifica la relativa desiderabilità delle alternative che si prospettano agli agenti, assicurandosi il loro conformarsi al proprio volere e ponendoli così di fronte a una scelta che preferirebbero non fare. La coercizione è spesso considerata la forma standard del potere (nel senso ristretto). A differenza della forza, la coercizione richiede che vi sia comunicazione tra gli agenti coinvolti nella relazione di potere: affinché una minaccia sia credibile, coloro che subiscono la coercizione debbono averla compresa nel momento in cui è stata formulata e credere nella sua attualità, nella plausibilità dei motivi per cui viene fatta e nella capacità di chi esercita la coercizione di metterla in atto.
  3. Il soggetto limita la possibilità dell’altro di manifestare la volontà contraria o gli impedisce di formarsela. manipolare un altro o altri agenti, sia condizionandone le opzioni, sia strutturando le circostanze in cui si trovano ad agire in modo che aderiscano a determinate alleanze o coalizioni, sia ancora inducendoli o persuadendoli a nutrire determinate credenze e desideri. In quest’ultimo caso si ha una forma di influenza, che consiste nel predisporre o condizionare la volontà di un altro o di altri.

 

Si rinvia alla seconda parte (Seconda parte)

 

*Fabrizio Giorgilli è dirigente della Pubblica Amministrazione da oltre 20 anni. Insegna, come docente a contratto, nell’area disciplinare del comportamento organizzativo presso l’Università del Molise. Segue per l’AIDP Abruzzo-Molise le tematiche riferite al lavoro pubblico. Tra i suoi lavori pubblicati: Etica e virtù nel lavoro pubblico, Giappichelli, 2020; Valori, etica ed efficienza nelle organizzazioni pubbliche, Palinsesto, 2014; Rilevanze organizzative, Palinsesto, 2013; Il gruppo nelle organizzazioni (con F.P. Arcuri e C. Ciccia), Palinsesto, 2009; Quaderno di psicologia e comportamento organizzativo. Il sapere minimo, Editoriale Scientifica, 2008; Il lavoro di gruppo (con F.P. Arcuri), Pirola, 1993; Riforma radicale delle Pubbliche Amministrazioni e ruolo strategico dei comportamenti etici, in “Salvis Juribus”, dicembre 2021.

[1] Si vedano, tra gli altri, l’iniziale contributo di Seymour Smith (1991) e quello di Fabietti (2010).

[2] Tonchia (2001).

[3] Così Mancini (2012, pp. 103ss), ripercorrendo il contributo di Michel Foucault.

[4] Hillman (2002).

[5] Han (2019).

[6] Galbraith (1983). Su questo crinale, si vedano anche le osservazioni di Braga (2017). Sul potere come regolamentazione si veda invece il lavoro di Graeber (2015).

[7] Cox (2009).

[8] Ce lo rammenta Greco (2020).

[9] Si vedano, con riferimenti bibliografici utili, tra gli altri: Harris e alt. (2015); Bruscaglioni (2007); Piccardo (1995); Scott-Jaffe (1994).

[10] D’Andrea-Tramontana (2017, p. 16). Gli autori citano: Simmel G. (1998), “Sociologia”, Edizioni Comunità; Simmel G. (2012), “Goethe”, Quodlibet.

[11] Su questo aspetto si veda: Giorgilli (2020) ed ivi riferimenti a lavori sul procedimento amministrativo come luogo di espressione dei poteri; Testi (2016) ed ivi bibliografia; Benvenuti F., “Il nuovo Cittadino: tra libertà garantita e libertà attiva”, 1994;

[12] Ci aiuta in questa riflessione diacronica l’importante volume curato da Duso (2000). Per i luoghi ed i processi storico-sociali dove rintracciare la genesi del potere, pur se datati, sono necessari i contributi di Elias (1983) e, rispetto al profilo italiano, di Galasso (1974). Sul tema apparentemente oppositivo della libertà e delle sue “espansioni” nella società, si veda Panebianco (2004).

[13] Cacciari (2013).

[14] Non sarà quindi possibile esplorare la seconda dimensione. Si rimanda, comunque, ad un ulteriore contributo programmato, indicando però subito alcuni lavori utili già pubblicati: Giorgilli (2014, 2020, 2021a, 2021b, 2022).

[15] Ferrarotti (1972, pp. VIII, XV-XVIII).

[16] Hinna e alt. (2018).

[17] Hinna-Marcantoni (2012).

[18] Sul concetto si considerino, tra gli altri, i seguenti riferimenti bibliografici: AA:VV. (2005); AA:VV. (2007); Ardoino (2005); Buffa-Archimede (2003); Donati (1980); Ducan (1975); Enciclopedia on line (2022); Enciclopedia tematica (2005b); Ferrarotti, 1980; Galimberti (2006); Gallino (2004, 2017); Hillman (2002; Lanzillo (2005); Lukes (1996); Pancaldi-Trombino-Villani (2006); Popitz (1986); Roccato(2006); Saccà (1996); Stoppino (2004c); Tonchia (2001); Trombino (2017b); Wehmeier (2007).

[19] Boulding (1990); Canetti (1960, 1974); Crozier (1991); Ferrarotti (1967); Friedberg (1994); Gallino (2017); Giddens-Sutton (2014); Han (2019); Luhmann (2010); Lukes (2005); McFarlan (2015); Russell (1967); Saar (2010).

[20] Si veda per tutti Pierro (2006), anche considerando i riferimenti utilizzati nel paragrafo e la ricca bibliografia ad essi collegata. Altri contributi utili: Halper-Rios (2020), con utile bibliografia; Körner-Schütz (2020), con utile bibliografia; Alper (2020) con utile bibliografia; Harris e alt. (2015); Roth-Rios (2020); Królewiak (2020); Scandura (2019); Robbins-Judge (2018); Ferrante-Zan (2012); Gallino (2017).

[21] Foucault (1971, 1976, 1977). Su Foucault in tema di potere: Clegg (2015); Fabietti (2010); Brugiatelli (2012); McFarlan (2015);

[22] Per la presente sezione del paragrafo e quella successiva, oltre alle citazioni in nota, sono stati valorizzati i seguenti contributi: AA:VV. (2005); AA:VV. (2007); AA.VV. (2009); AA:VV. (2011); Ardoino (2005); Barus-Michel-Enriquez (2005); Battista (2011); Bobbio (2020); Buffa-Archimede (2003); Clegg (2015); Debnam (1984); Donati (1980); Ducan (1975); Enciclopedia on line (2022); Enciclopedia tematica (2005a); Feltham-Dryden (2008); Feroldi-Dal Pra (2011); Ferrarotti (1980); Friedberg (1994); Galimberti (2006); Gallino (2004); Gorby (2004); Heil (2015); Hillman (2002); Lanzillo (2005); Lasswell (1972); Law (2006); Lukes (1996); Luhmann (1982); Pancaldi-Trombino-Villani (2006); Philips (2001); Picchi (2005); Portinaro (2005); Rendich (2014); Roccato (2006); Ruffolo (1988); Saccà (1996); Sinonimi e Contrari (2003); Stoppino (2004a); Stoppino (2004b); Stoppino (2004c); Trombino (2017a); Trombino (2017b); Trombino (2017c); Vincent (2019); Vocabolario on line (2022); Wehmeier (2007).

[23] Ferrarotti (1972) e Ferrarotti (1980). Anche Clegg (2015) ricorda come quello del potere sia un concetto “essenzialmente contestato” (essentially contested), in considerazione del suo significato variabile nei diversi “giochi linguistici” (language games).

[24] Ferrarotti (1967).

[25] Wrong (2017).

[26] Lukes (2005).

[27] Barus-Michel-Enriquez (2005) e Portinaro (2005). In particolare, sul concetto di “potenza”, anche riferendosi a quanto già detto nell’introduzione del capitolo, si veda la voce greca (dynamis) curata nel vocabolario di Gorby (2004) ed in quello di Preus (2015). Riferito al pensiero di Aristotele il lemma curato nel dizionario di Angels (1992).

[28] Gallino (2004).

[29] Luhmann (1982, p. 21).

[30] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: AAVV (2005); Barus-Michel-Enriquez (2005); Bobbio (2020); Debnam (1984); Enciclopedia on line (2022); Ferrarotti (1980); Friedberg (1994); Gallino (2004); Gallino (2017); Han (2019); Lasswell (1972); Lhumann (1982); Lukes (1996); Picchi (2005); Portinaro (2005); Ruffolo (1988); Russell (1997); Stoppino (2004c); Tonchia (2001); Trombino (2017a); Trombino (2017c); Vincent (2019); Wehmeier (2007).

[31] Per una interessante analisi tipologica sulle forme, gli usi e gli attori del potere, si veda Wrong (2017).

[32] Sul rapporto tra antichi filosofi e potere, si veda Casertano (1988), Weil (1973). Con riferimento ad un percorso più ampio di pensiero si veda invece Preterossi (2007).

[33] Fromm (1973).

[34] L’appartenenza alle classi medie, osserva Fromm citando Bettelheim B. (“The Informed Heart: Autonomy in a Mass Age”, Macmillan Free Press,1960) spinge ad una concezione della propria identità e del rispetto di sé sostenute ambedue dalla ricerca di prestigio, comando su altri, ecc.. Inoltre, afferma sempre Fromm, è’ noto come la fama ed il potere possano rendere persino sessualmente attraente chi li detiene.

[35] Si vedano i diversi contributi del sociologo Pierre Bourieu (1930-2002).

[36] Sul tema dell’influenza si veda anche il lavoro, seppur datato, di Schermerhorn (1967). Da considerare che per alcuni (Han, 2019) il potere non andrebbe equiparato all’influenza (Einfluss). Un’influenza può essere neutrale in termini di potere, non essendo animata dalla tipica intenzionalità del potere che forma un continuum del sé. Anche un sottoposto, ad esempio, capace di esercitare influenza sul processo decisionale a causa di particolari competenze, non deve per forza disporre di molto potere. La possibilità di esercitare un’influenza deve quindi avere l’opportunità di convertirsi in relazione di potere.

[37] Galbraith (1983).

[38] Si veda Ricoeur (1993, 2005) ed il contributo di Brugiatelli (2012).

[39] Si ripropongono qui, in modo rielaborato, le considerazioni svolte in Giorgilli (2020, pp. 166ss), ivi con utile bibliografia.

[40] D’Ambrosio (2004, p. 194). Si veda sempre il bel lavoro dell’autore sulle diverse sfaccettature del concetto di “Istituzione”.

[41] Barus-Michel-Enriquez (2005).

[42] Capra (2004, p. 143).

[43] Licciardello (2010).

[44] Voce “Istituzione”, tratta da Gallino (2004, p. 392).

[45] Poma (1997).

[46] Cavalli-Douglas (1996). Gli autori fanno riferimento a: Ostrom E. (1985), “A method of institutional analysis”, in F.X. Kaufmann (a cura), “Guidance, control and evaluation in the public sector”, Berlin-New York; Ostrom E. (1990), “Governing the Commons, the evolution of institutions for collective action”, Cambridge; North D. (1990), “Institutions, institutional change and economic performance”, Cambridge.

[47] Lanzalaco (1995, pp. 159ss). Testo utilissimo per l’introduzione generale all’”analisi istituzionale” delle organizzazioni.

[48] Mauceri (2008).

[49] Gilli (2000).

[50] Douglas (1990). Su questi profili di cognizione sociale e costruzione di categorie interpretative, si veda anche Poma (1997, pp. 13-14 e 16-17).

[51] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: AAVV, 2005; Barus-Michel-Enriquez, 2005; Feltham-Dryden (2008); Ferrarotti (1980); Friedberg (1994); Lukes (1996); Luhmann (1982); Revelli (2014); Ruffolo (1988);

[52] L’abuso di potere implica un esito di danno senza alcun beneficio eticamente giustificabile. Può consistere in atteggiamenti comportamentali (verbali e non verbali) di minaccia indiretta o diretta finalizzati a deprivare la vittima nelle sue capacità e nella sua possibilità di difendersi rispetto a lesioni nella dignità. E’ stato profilato un vero e proprio “disturbo da abuso di potere” (PAD, power disturb disese): ricerca compulsiva di ruoli di potere, status (denaro, lusso, ecc.) e controllo su altre persone, a livelli sempre più alti nella gerarchia sociale e senza curarsi di conseguenze negative su di essi.

Riforma del lavoro pubblico: ricostruire la dimensione culturale e comportamentale del potere e della leadership. – Parte prima

Pubblicato il 23 Maggio 2023 in

Oltre la conoscenza


Per una diversa concezione della Riforma delle PPAA*

Fabrizio Giorgilli**

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Pubblicato il 07 Settembre 2021 in

Cambia-menti e opportunità – Digita mindset ed engagement


Il 30 marzo 2021 il Gruppo Giovani di AIDP Abruzzo e Molise ha ospitato un nuovo caffè digitale, nel quale
sono stati affrontati i temi del “Digital Mindset ed Engagement”. (altro…)

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Pubblicato il 10 Maggio 2021 in

Risorse umane, valore aggiunto per le PMI


Sintesi di un percorso “informativo-formativo” gestito con ANDAF e IIM Institute of Interim Management

Maurizio Quarta – TMC Advisors

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Pubblicato il 16 Aprile 2021 in

Assessment Center e sviluppo manageriale


L’Assessment Center si inserisce nel ciclo di Gestione delle Risorse Umane e viene applicato sia in fase di selezione che in fase di sviluppo, prendendo in questo caso nome di Development Center. (altro…)

Assessment Center e sviluppo manageriale

Pubblicato il 24 Novembre 2020 in

Presentazione sezione “RisorseUmane”


“Con il nuovo anno diamo inizio alla collaborazione con “Soluzioni Lavoro”,  osservatorio permanente in materia di lavoro, sindacale e previdenza sociale, diretto dalla Prof. Maria Novella Bettini e coordinato dalla Dr. Flavia Durval, dal Prof. Avv. Paolo Pizzuti e dall’Avv. Alfonso Tagliamonte nell’ambito del C.R.e F. (Centro Ricerche e Formazione).

Da tempo abbiamo avviato nel Molise iniziative e attività di collaborazione per accrescere la presenza di AIDP, Associazione Italiana per la Direzione del Personale, e contribuire allo sviluppo di un territorio che è fortemente legato ai valori e alla storia del nostro Gruppo Regionale e che nel panorama nazionale rappresenta due regioni importanti del Centro Italia quali sono, per l’appunto, l’Abruzzo e il Molise.

Da questa nostra volontà e dall’interesse e disponibilità del Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università del Molise, è nata l’iniziativa di far curare ad AIDP Abruzzo e Molise la sezione “RisorseUmane” del sito, affidando la responsabilità all’Avv. Andrea Bonanni, supportato da un gruppo di nostri associati che di volta in volta alimenteranno la sezione con i propri rispettivi contributi attraverso il piano editoriale curato da Francesca Schunk. Di questa iniziativa, oltre che esserne orgogliosi, siamo grati in particolare alla Prof.ssa Bettini e all’Avv. Tagliamonte per averci creduto.

Certo dell’interesse a questa collaborazione, lascio a tutti i nostri associati e ai visitatori della sezione la curiosità di leggerci e di poter beneficiare di quanto il nostro Gruppo e la Cattedra di diritto del lavoro metteranno a disposizione di tutti.

Alfonso Orfanelli – Presidente AIDP Abruzzo e Molise”

Presentazione sezione “RisorseUmane”

Pubblicato il 20 Gennaio 2020 in

“Stabilizzazione” dei rapporti a termine tramite Agenzia per il lavoro e somministrazione fraudolenta


Con il termine “stabilizzazione”, ormai invalso della pratica, si fa riferimento a quelle fattispecie negoziali che hanno l’idoneità a produrre l’effetto di prolungare a tempo indeterminato un rapporto di lavoro (altro…)

“Stabilizzazione” dei rapporti a termine tramite Agenzia per il lavoro e somministrazione fraudolenta

Pubblicato il 20 Gennaio 2020 in

RisorseUmane
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