Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 ottobre 2019, n. 26613

Contratti di collaborazione autonoma e continuativa,
Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, Indici cd.
sussidiari della subordinazione

 

Fatti di causa

 

1. S.V., assunta da A. S.p.A. (poi incorporata da
A.C. S.p.A.), nel periodo 1 agosto 2001/30 settembre 2005, con distinti
contratti di collaborazione autonoma e continuativa, quindi con contratti a
progetto, come operatrice di call center, adiva il Giudice del Lavoro del
Tribunale di Roma (unitamente ad altri due lavoratori che nelle more del
giudizio hanno transatto la lite) per ottenere l’accertamento della natura
subordinata del rapporto di lavoro e la persistenza dello stesso, chiedendo,
altresì, la condanna della società datoriale, oltre al pagamento delle
retribuzioni dall’atto di messa in mora in poi, se del caso a titolo di
risarcimento, anche al pagamento delle differenze retributive ed indennità
varie in misura di € 75.617,47 maturate durante l’esecuzione del contratto di
lavoro.

2. Il Tribunale di Roma, con sentenza del
10.12.2008, rigettava la domanda.

3. La Corte d’appello di Roma, con pronuncia nr.
6060 del 2014, provvedendo sul gravame della lavoratrice, in parziale
accoglimento dello stesso, dichiarava la sussistenza fra le parti di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere 1 dall’1.7.2004, con
diritto all’inquadramento al III livello del CCNL Telecomunicazioni e
condannava A.C. S.p.A. al risarcimento del danno commisurato a sei mensilità
della retribuzione «spettante contrattualmente per il 3° livello» oltre
accessori dall’atto di messa in mora al soddisfo.

In estrema sintesi, la Corte territoriale riteneva
che la valutazione complessiva del materiale probatorio acquisito non
consentisse di pervenire alla qualificazione del rapporto nei termini
sollecitati dall’appellante (id est: dal lavoratore) se non dall’1.7.2004,
ovvero all’indomani del D.Lgs. nr. 276 del 2003,
allorquando veniva a scadere la collaborazione in corso tra le parti; infatti,
non più ammessa dall’ordinamento giuridico la fattispecie della collaborazione
coordinata e continuativa dopo il termine di scadenza, anche fissato dalle
parti successivamente all’entrata in vigore del cit. D.Lgs
nr 276, la prima proroga era da considerare nulla per contrasto con norma
imperativa; a tale accertamento, conseguiva la «conversione» del rapporto in
atto in rapporto subordinato a tempo indeterminato.

Quanto agli effetti sul piano economico, la Corte
territoriale riteneva applicabile l’art. 50 della legge nr. 183 del 2010,
stante la congruità delle offerte datoriali di stabilizzazione del rapporto,
conformi agli accordi sindacali intervenuti sul punto; assumeva che l’indennità
fosse comprensiva di ogni conseguenza patrimoniale, vale a dire i danni
derivanti dall’inadempimento e dall’ingiustificata estromissione così come «le
pendenze per crediti retributivi in relazione alla prestazione svolta e per i
crediti di altra natura» (cfr. terzultima pagina della sentenza impugnata, 6°
cpv).

La Corte di merito escludeva profili di
incostituzionalità dell’art. 50
cit. che operava «senza pregiudizio sulla stabilità del rapporto giudizialmente
accertato».

4. Avverso l’anzidetta sentenza, propone ricorso per
cassazione la lavoratrice, fondato su tre motivi.

5. Resiste con controricorso la società e formula
altresì ricorso incidentale con un motivo.

6. La causa, originariamente chiamata all’adunanza
camerale del 9.1.2019, è stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione in
pubblica udienza.

7. A.C. SpA ha depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

Ricorso principale.

1. Con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 e 5 cpc – si deduce l’omessa e
contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio
nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt.
132 cod.proc.civ., 2094, 2222, 2700 e 2697 cod.civ.

Si imputa alla decisione impugnata di aver omesso le
affermazioni di diritto a sostegno del decisum, di aver integralmente omesso di
valutare i fatti direttamente accertati dagli ispettori, di aver
contraddittoriamente motivato in relazione agli indici cd. «sussidiari» della
subordinazione.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Va, in primo luogo, osservato, con riferimento
alla denuncia di omissione motivazionale, che, come chiarito dalla
giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. un., nr. 19881 del 2014; Cass., sez.un., nr. 8053 del 2014), la
riformulazione dell’art. 360 nr. 5 cod. proc. civ.,
disposta dall’art. 54 del D.L.
nr. 83 del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici
dettati dall’art. 12 delle preleggi, come
riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla
motivazione; è, pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale
che implica una violazione di legge costituzionalmente rilevante e che integra
un «error in procedendo»-, a chiarimento dell’indicato principio, le sezioni
unite hanno precisato che comporta la nullità della sentenza solo la «mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», la «motivazione
apparente», il «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili», la
«motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», non essendo invece
più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o
contraddittoria motivazione (Cass., sez. un., nr.
14477 del 2015; ex multis, tra le sezioni semplici, Cass. nr. 31543 del
2018).

E’ stato, anche, precisato che di «motivazione
apparente» o di «motivazione perplessa e incomprensibile» può parlarsi laddove
essa non renda «percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di
argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere I’iter logico seguito
per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun
effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del
giudice» (Cass., sez.un., nr. 22232 del 2016).

1.3. Tali evenienze non sono riscontrabili nel caso
di specie; la Corte territoriale ha spiegato, in maniera esaustiva e niente
affatto perplessa, le ragioni della decisione evidenziando come emergessero
elementi univoci dell’insussistenza di un vincolo di subordinazione; secondo la
Corte di merito, la «facoltà di recarsi o meno al lavoro», il «compenso
variabile», I’ «assenza di un preciso orario di lavoro» e «di un vero e il
proprio potere direttivo», desunti dall’esame del concreto atteggiarsi del
rapporto di lavoro intercorso tra le parti, inducevano ad escludere la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Si tratta di un impianto argomentativo assolutamente
comprensibile, in relazione al quale può discutersi della sua plausibilità e
condivisibilità ma non di una inesistenza motivazionale.

1.4. In realtà, tutte le censure, al di là della formale
enunciazione contenuta nelle rubriche, si risolvono, nella sostanza, in una
richiesta, inammissibile, di revisione delle valutazioni di merito espresse
dalla Corte di appello e non adeguatamente censurate, secondo gli enunciati di
enunciati di Cass., sez.un. nn. 8053 e 8054
del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n.
19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni
semplici); esse (id est: le censure), infatti, non investono il significato e
la portata applicativa delle disposizioni indicate in rubrica ma sono volte a
criticare il giudizio espresso dalla Corte territoriale – mediato dalle
risultanze di causa – in punto di ritenuta insussistenza, in concreto, di un
rapporto di lavoro subordinato.

1.5. Deve, invero, rammentarsi che, in relazione
alla qualificazione del rapporto compiuta dal giudice di merito, è censurabile
in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 nr.
3 cod.proc.civ., soltanto la determinazione dei criteri astratti e generali
applicati alla fattispecie concreta mentre costituisce apprezzamento di fatto,
come tale sindacabile in cassazione nei ristretti limiti di cui all’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ., la valutazione del
concreto atteggiarsi del rapporto.

1.6. La Corte di merito ha compiuto un accertamento
che non presta il fianco ad alcuna critica; i giudici, come innanzi
evidenziato, hanno escluso che il rapporto si sia atteggiato, in concreto, come
un rapporto di lavoro subordinato e nel pervenire a tale conclusione hanno
ponderatamente valutato – ed escluso – gli indici rivelatori della
subordinazione, anche sussidiari, secondo gli insegnamenti di questa Corte.

1.7. Non sfugge al Collegio (v. in proposito Cass.
nr. 29781 del 2017 e, in motivazione, Cass. nr. 18750 del 2018) che l’arrestare
l’odierno controllo alla soglia del giudizio di merito può fare sì che analoghe
vicende fattuali possano essere diversamente valutate dai giudicanti cui
compete il giudizio del fatto. Tuttavia è noto che l’oggetto del sindacato di
questa Corte non è (o non immediatamente) il rapporto sostanziale intorno al
quale le parti litigano, bensì unicamente la sentenza di merito che su quel
rapporto ha deciso, di cui occorre verificare la legittimità negli stretti
limiti delle critiche vincolate dall’art. 360
cod.proc.civ., così come prospettate dalla parte ricorrente: ne deriva che
contigue vicende possono dare luogo a diversi esiti processuali in Cassazione
perché sono differenti sia le fattispecie concrete che hanno dato origine alla
causa, sia gli sviluppi processuali del giudizio, sia le motivazioni delle
sentenze impugnate, sia i motivi di gravame posti a fondamento del ricorso per
cassazione, sia, infine, le molteplici combinazioni tra siffatti elementi.

Si tratta di esiti non altrimenti evitabili,
determinati dalla peculiare natura del giudizio di legittimità, ancor più da
quando il legislatore ha inequivocabilmente orientato il giudizio di cassazione
nel senso della preminenza della funzione nomofilattica, anche riducendo
progressivamente gli spazi di ingerenza sulla ricostruzione dei fatti e sul
loro apprezzamento.

2. Con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod.proc.civ. – la parte
ricorrente ripropone le questioni di incostituzionalità dell’art. 50, in particolare, in
relazione agli artt. 3, primo comma, 4, 10, 11, secondo periodo, 117,
primo comma, 111, 101, 102, secondo
comma, 104, primo comma, 117, primo comma, Cost., in connessione con l’art. 6 Convenzione salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; è altresì, denunciata la
violazione degli artt. 36 e 38 Cost. nonché degli artt.
1206 e ss. cod civ., dell’art. 1453, 1218, 2097 e ss. cod.
civ.

Parte ricorrente dubita della legittimità
costituzionale della disposizione applicata dalla Corte di appello (id est: art. 50 della legge nr. 183 del 2010)
sotto plurimi profili ed in particolare per violare la disposizione il
principio di parità di trattamento, quello di ragionevolezza, di affidamento e
di certezza dell’ordinamento giuridico, il principio del rispetto dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale, del giusto processo e
del diritto di difesa; la norma, inoltre, realizzerebbe un’illegittima
intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia,
volta ad influire sull’esito di specifiche controversie; infine, l’art. 50 cit., ritenuto dalla
Corte di appello di Roma sostitutivo anche delle retribuzioni maturate in corso
di rapporto e della contribuzione previdenziale ed assicurativa, sarebbe in
contrasto anche con i principi di giusta retribuzione e di sicurezza sodale.

3. Il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 cod.proc.civ. – denuncia,
sempre con riferimento all’art.
50 della legge nr. 183 del 2010, il mancato riconoscimento delle differenze
di retribuzione maturate nel corso del rapporto.

Per la parte ricorrente, anche a prescindere dai
profili denunciati con il secondo motivo, la sentenza impugnata avrebbe
erroneamente escluso il diritto del lavoratore alle differenze di retribuzione
maturate in costanza di rapporto; l’art. 50 cit, infatti, coprirebbe
in via forfettaria solo il danno relativo al periodo cd. « intermedio» ovvero
quello dalla cessazione della funzionalità del rapporto sino alla sentenza che
ne opera la conversione.

Il secondo ed il terzo motivo vanno trattati
congiuntamente ed impongono alcune preliminari considerazioni
sull’interpretazione dell’art. 50
della legge nr. 183 del 2010.

4. La norma che viene qui in discussione ha formato
oggetto di studio da parte della dottrina essendosi rilevati plurimi profili
suscettibili di differenti interpretazioni ed essendosi, in particolare, il
dibattito incentrato sulla questione se tale norma stabilisca «unicamente» la
sanzione indennitaria a fronte del rifiuto, da parte del lavoratore, di due
offerte di stabilizzazione del rapporto di lavoro ovvero faccia comunque salva
la conversione o ricostituzione del rapporto (melius assunzione a tempo
indeterminato).

Il suddetto articolo 50 stabilisce che:
«Fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di accertamento della
natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa,
anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, il datore di
lavoro che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un
contratto di lavoro subordinato ai sensi dell’articolo 1, commi 1202 e seguenti,
della legge 27 dicembre 2006, n. 296, nonché abbia, dopo la data di entrata
in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la conversione a tempo
indeterminato del contratto in corso ovvero offerto l’assunzione a tempo
indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di
lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a indennizzare il
prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5
ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri
indicati nell’articolo 8 della
legge 15 luglio 1966, n. 604».

La disposizione introduce un regime speciale
finalizzato a limitare, a determinate condizioni, le conseguenze sanzionatone
in caso di esito vittorioso del giudizio intentato dal lavoratore, volto
all’accertamento della natura subordinata del rapporto di collaborazione
continuativa e coordinata, anche a progetto.

4.1. L’esame della previsione non può prescindere da
una sintetica ricostruzione del più ampio quadro normativo in cui essa
interviene (art. 1 commi
1202-1210 della legge nr. 296 del 2006).

4.2. L’incipit della norma «fatte salve le sentenze
passate in giudicato» rende, innanzitutto, chiaro che l’ambito di applicazione
della stessa sia da riferirsi tanto alle controversie ancora da promuovere,
quanto a quelle in corso. Ed anzi, proprio l’espresso richiamo alla legge 296 del 2006 è indicativo della voluntas
legis di dettare una normativa finalizzata a proseguire il percorso, intrapreso
dalla predetta legge nr. 296, inteso a
facilitare l’emersione di rapporti (simulati) di collaborazione, molti dei
quali, proprio in quanto in sospetto di abuso, in fase di contenzioso
giudiziale (percorso poi completato dal d.lgs. nr. 81 del 2015, art. 54).

4.3. Quanto ai presupposti di operatività, la norma
richiede una sequenza di offerte da parte del datore di lavoro.

Questi (id est: il datore di lavoro) deve avere
offerto al collaboratore, entro il 30 settembre del 2008, la stabilizzazione
del rapporto di lavoro secondo la procedura di cui all’art. 1, commi 1202 e ss, della
legge nr. 296 del 2006, articolata in tre fasi: a) la stipulazione di un
accordo aziendale o territoriale volto a promuovere la trasformazione del
rapporto di collaborazione in un rapporto di lavoro subordinato di durata non
inferiore a 24 mesi; b) la sottoscrizione da parte dei lavoratori di atti di
conciliazione individuali ai sensi e per gli effetti degli artt. 410 e 411
co.proc.civ. con riferimento ai diritti di natura retributiva, contributiva
e risarcitoria per il periodo pregresso; c) il pagamento da parte del solo
datore di lavoro di un contributo straordinario integrativo per ciascun
lavoratore interessato alla trasformazione del rapporto di lavoro.

La prima offerta è, dunque, garantita dalla stessa
procedimentalizzazione disegnata dal Legislatore del 2006 e filtrata dalle
intese raggiunte dalle parti sociali.

Il datore di lavoro deve, poi, aver rinnovato
l’offerta dopo l’entrata in vigore della medesima legge
nr. 183 del 2010. A tale riguardo, il dato letterale non pone dubbi
interpretativi: la nuova proposta si aggiunge all’offerta di stabilizzazione
compiuta entro il 30 settembre 2008, come reso palese dall’utilizzo dell’avverbio
«ulteriormente» che rafforza il senso, già inequivoco, della congiunzione
«nonché».

L’oggetto del contratto di lavoro subordinato di cui
alla seconda offerta è predeterminato dal Legislatore; le mansioni di lavoro
devono essere equivalenti a quelle del contratto in corso o cessato. Nulla è
detto, invece, in ordine all’orario di lavoro e ciò è pienamente giustificabile
in ragione della estrema variabilità dell’impegno lavorativo che può avere, in
concreto, connotato ogni singolo rapporto.

4.4. La valutazione di conformità delle offerte
datoriali ai parametri legali, che costituisce condizione essenziale per
l’operatività, in sede giudiziale, del meccanismo di cui sopra si è detto, in
quanto necessariamente mediata dalle risultanze processuali, è attività
riservata al giudice di merito.

In presenza degli inviti datoriali, positivamente
valutati dal giudice del fatto, rifiutati dal lavoratore (come risulta evidente
ove si consideri che altrimenti non sussisterebbe neppure la possibilità di
azionare alcun giudizio per effetto dell’avvenuta sottoscrizione degli atti di
conciliazione individuali), gli effetti derivanti dall’accertamento giudiziale
della natura subordinata di una collaborazione coordinata e continuativa, sono
quelli indicati dal predetto art.
50 ed il datore di lavoro «è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore
di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un
massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati
nell’articolo 8 della legge 15
luglio 1966, n. 604».

4.5. Il contrasto interpretativo verte, in
particolare, sull’interpretazione dell’espressione «è tenuto unicamente a
indennizzare».

Trattasi, effettivamente, di una non felice
soluzione espressiva, come del resto già evidenziato dal Presidente della
Repubblica che, in occasione del messaggio, ex art.
74 della Cost., in data 31 marzo 2010, ebbe ad osservare come la
disposizione, insieme ad altre della legge nr. 183
del 2010, potesse prestarsi «a seri dubbi interpretativi e a potenziali
contenziosi».

4.6. Due sono, infatti, le possibili letture
dell’art. 50 in punto di conseguenze connesse al rifiuto del prestatore di
accettare le offerte datoriali, in caso di accertamento giudiziale della natura
subordinata del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.

Da una parte, ritenere che l’indennità rappresenti
I’ «unica» misura sanzionatoria a carico del datore di lavoro, sostitutiva cioè
di tutte le conseguenze normalmente ricollegabili ad un tale accertamento
(ovvero la conversione in rapporto a tempo indeterminato ed il risarcimento),
dall’altra, ritenere che la norma abbia inteso «unicamente» incidere sulla
misura del danno e non anche direttamente sulla disciplina futura del rapporto
di lavoro.

4.7. Stima il Collegio che, tra le due indicate
opzioni interpretative, debba preferirsi la seconda che rende il dato letterale
(pur in sé non univoco) coerente con quello sistematico.

4.8. La norma va interpretata nel senso che
l’indennità economica si sostituisce esclusivamente alle normali conseguenze
risarcitone che derivano dall’accertamento della natura subordinata del
rapporto, assicurando al lavoratore un indennizzo che copre, in via forfetaria,
non diversamente dall’art. 32
della medesima legge nr. 183 del 2010, i danni derivanti dalla
ingiustificata estromissione, fermo, tuttavia, il diritto del prestatore al
ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro ovvero alla «conversione»,
in esecuzione della sentenza (oltre che naturalmente alle retribuzioni da tali
momenti in poi ed a quelle eventualmente maturate in ragione del reale
atteggiarsi del rapporto intercorso e non derivanti, ex se, dalla diversa
qualificazione del rapporto).

L’avverbio «unicamente» è, infatti, riferito solo al
riconoscimento di un minor ristoro economico, giustificato dal rifiuto delle proposte
di stabilizzazione, secondo l’esegesi sostenuta dalla Corte di appello di Roma.

4.9. L’indennità, dunque, definisce i rapporti tra
lavoratore e datore di lavoro, regolando la misura del risarcimento in
relazione al periodo intercorrente tra la cessazione della collaborazione e la
sentenza che ne accerta la natura subordinata (e, se del caso, anche al periodo
non lavorato tra una collaborazione e l’altra, in caso di riconoscimento di un
unico rapporto).

4.10. Conforta siffatta interpretazione l’esame dei
lavori preparatori ed, in particolare, delle schede di lettura della Camera dei
Deputati relativi agli articoli contenuti nella legge
nr. 183 del 2010.

In relazione all’art. 50 si dà atto che
«l’articolo […] determina la misura del risarcimento nei casi in cui sia
stata accertata la natura subordinata di un rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa».

Il riferimento esclusivamente al «risarcimento» e
l’assenza di una esplicita previsione della valenza sostitutiva di detta
indennità, anche della ripresa del rapporto, è segno della scelta del
Legislatore di preservare l’ordinaria e più pregnante tutela disposta
dall’ordinamento e cioè il mantenimento dell’accertato rapporto di lavoro.

Quest’ultimo, infatti, non può considerarsi estinto
in mancanza di una chiara previsione che colleghi tale rilevantissima
conseguenza al rifiuto opposto dal lavoratore alle proposte datoriali.

4.11. Così interpretata, la disposizione consente di
superare i dubbi di legittimità costituzionale e di violazione del diritto
sovranazionale, essendo in linea con il principio di effettività ed adeguatezza
delle sanzioni, con quello di parità di trattamento e con la clausola di non
regresso delle tutele.

La novella in esame, limitandosi ad introdurre un
criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea
applicazione, con salvezza del nucleo centrale della tutela sostanziale
costituito dalla «conversione» ovvero dal ripristino del rapporto, garantisce
il diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost.
e, come tale, appare ragionevole, essendo destinata ad assicurare una
parificazione di trattamento di situazioni eguali a prescindere dalla data di
introduzione del giudizio, con il solo limite delle sentenze passate in
giudicato.

Inoltre, restando fermo il diritto alle eventuali
differenze di retribuzione maturate in relazione ai periodi lavorati, non si
pongono profili di incostituzionalità per violazione dell’art. 36 della Cost. (e conseguentemente dell’art. 38 Cost.); peraltro, anche nel caso dell’art. 50, come già accennato, a
partire dalla sentenza con cui il giudice accerta la natura subordinata del
rapporto ed ordina il ripristino del rapporto, il datore di lavoro è
indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a
corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di
mancata riattivazione effettiva del rapporto.

In definitiva, la normativa esaminata risulta,
nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento degli opposti
interessi attraverso l’analitica disciplina, in quello che è stato definito un
«delicato gioco di pesi e contrappesi», dei parametri – modalità temporali e
oggetto delle offerte – che devono essere rispettati dal datore di lavoro per
poter beneficiare del regime speciale di cui all’art. 50. Al lavoratore che abbia
rifiutato ben due proposte di assunzione (e nonostante tale rifiuto) è comunque
garantita l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato (che va a
sostituire il «ricorso ai contratti di lavoro subordinato» e il «corretto
utilizzo dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche a
progetto» di cui all’art. 1,
comma 1202, della legge nr. 296 del 2006) unitamente ad un’indennità, predeterminata
tra un minimo ed un massimo, che ridimensiona le pretese risarcitone, in misura
della metà del massimo dell’indennità stabilita dall’art. 32 della legge nr. 183 del 2010,
non diversamente dalla previsione del sesto comma del medesimo art. 32 («In presenza di
contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali,
stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato,
di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche
graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto
alla metà»), in funzione premiale della condotta datoriale.

Il tutto nell’ambito dell’illustrato e più ampio
contesto normativo di deflazione e definizione di un consistente contenzioso,
sedimentatosi in alcuni settori produttivi, nel quale si inscrive la vicenda in
questione, che rende la norma in oggetto non solo ragionevole ma anche coerente
con i criteri ispiratori della disciplina legislativa precedente.

4.12. Quanto ai possibili profili di violazione dei
diritti sanciti dall’art. 6,
paragrafo 1, CEDU, giudica il Collegio che, nello specifico, non vi sia
stata alcuna ingiustificata intromissione del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia, tale da influire sulla decisione di
singole controversie o su un gruppo di esse, bensì interventi che per quanto
già sopra evidenziato, rispondono a «ragioni imperative di interesse generale»
(v., ad esempio, tra le pronunce in questa materia della Corte europea dei
diritti dell’uomo relative a controversie tra privati: Arras c. Italia,
14.2.2012, § 42; Ducret c. Francia, 12.6.2007 § 32 ss.; Vezon c. Francia,
18.4.2006, par. 28 ss.) analoghe a quelle già riscontrate dal Giudice delle
leggi in occasione della valutazione di legittimità costituzionale dell’art. 32 (v. Corte Costituzionale nr. 303 del 2011, spec. §
4.2), escludendosi così ogni violazione degli artt.
111 e 117 Cost., e tanto più evidenti nella
fattispecie ove il Legislatore ha completato il percorso di transizione verso
un corretto utilizzo dei contratti di collaborazione e di promozione
dell’impiego dei lavoratori con contratti di lavoro subordinato supportando il
prodotto dell’autonomia privata collettiva promosso dalla legge nr. 296 del 2006.

Quanto sopra evidenziato esclude altresì che
l’intervento legislativo (come detto inserito in un complessivo programma di
riforme) di cui trattasi abbia mutato le conseguenze della violazione delle
previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base
alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria
tra le parti del rapporto di lavoro.

5. Alla stregua delle considerazioni svolte, il
secondo ed il terzo motivo, limitatamente al mancato riconoscimento delle
differenze di retribuzione in corso di rapporto, sono, dunque, fondati; vanno
rigettate, invece, le restanti censure.

Ricorso incidentale.

6. Con un unico motivo, è dedotta la violazione
degli artt. 61 e 69 D.lgs 276/2003 nonché dell’art. 132 cpc.

La censura riguarda la statuizione secondo cui
sarebbero illegittime le proroghe effettuate ai contratti di collaborazione in
scadenza dopo l’entrata in vigore del D.Lgs nr. 276
del 2003.

Si imputa alla Corte di merito di non aver
considerato il contenuto degli accordi aziendali del 24 maggio 2004, del 13
dicembre 2004 e del 14 marzo 2005.

6.1. Il motivo si arresta ad un rilievo di
inammissibilità per difetto di specificità.

6.2. Esso si fonda su documenti (gli accordi aziendali),
non valutati dalla Corte di merito, che non risultano trascritti (se non per
meri passaggi non salienti) in ricorso mentre la parte che intenda dolersi
dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di
merito, ha il duplice onere imposto dall’art. 366
nr. 6 cod.proc.civ. di produrlo agli atti (indicando esattamente nel
ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il
documento in questione) e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o
riassumendolo nel ricorso con la conseguenza che, in caso di violazione anche
di uno soltanto di tali oneri, il ricorso (id est: il motivo) è inammissibile
(ex plurimis, Cass. nr. 19048 del 2016).

7. Conclusivamente, vanno accolti, nei termini di
cui alla presente motivazione, il secondo ed il terzo motivo del ricorso
principale, rigettato il primo e dichiarato inammissibile il ricorso
incidentale; la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello
di Roma che, in diversa composizione, procederà a riesaminare la fattispecie,
nel rispetto delle considerazioni e dei principi fissati ai punti da 4. a 4.12.
della presente motivazione, provvedendo anche sulle spese del giudizio di
legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso
principale; rigetta il primo; dichiara inammissibile il ricorso incidentale;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte
di Appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in
merito alle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR nr.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo pari a quello previsto per il ricorso incidentale, ove
dovuto, a norma del comma 1 bis
dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 ottobre 2019, n. 26613
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