Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 novembre 2019, n. 30866

Ammissione allo stato passivo, Credito rivendicato a titolo
di indennità sostitutiva del preavviso, Dirigenti, Licenziamento di din caso
di trasferimento d’azienda in stato di insolvenza, Accordo con le
rappresentanze sindacali sul mantenimento dei livelli di occupazione, Deroga

Fatti di causa

 

Il Tribunale di Venezia, sezione civile, con decreto
reso pubblico in data 17/11/2015, respingeva l’opposizione allo stato passivo
proposta da G. V. avverso il provvedimento del giudice delegato che aveva
rigettato la istanza di ammissione allo stato passivo della società R. C.
s.r.l., proposta in relazione al credito rivendicato a titolo di indennità
sostitutiva del preavviso.

Il giudice adito perveniva a tale convincimento dopo
aver osservato che “la questione su cui verte l’opposizione attiene alla
tematica della ammissibilità del licenziamento dei lavoratori subordinati
aventi la qualifica di dirigenti in caso di trasferimento d’azienda in stato di
insolvenza”.

In tale prospettiva, deduceva in via di premessa,
che la disposizione di cui all’art.
47 L. 428/1990 – invocata dal V. a sostegno del diritto vantato nei
confronti della curatela – sanciva, in ipotesi di raggiungimento di un accordo
con le rappresentanze sindacali sul mantenimento dei livelli di occupazione, la
possibilità di derogare ai rigorosi precetti sanciti dall’art. 2112 c.c. nelle vicende traslative
dell’impresa, quale quella verificatasi nella specie fra la R. C. s.r.l. e la
cessionaria A. s.r.l..

Argomentava, tuttavia, che il disposto di cui all’art. 47 cit. non era
applicabile al personale dirigente, nel cui ambito andava ricompreso il V.,
così collocandosi nel solco dei dicta di questa Corte che, con orientamento
privo di contrasti, aveva rimarcato la differenza fra la tutela del rapporto di
lavoro dei dirigenti e la diversità del loro status, rispetto a quello delle
altre categorie di lavoratori, per addivenire alla negazione della
configurabilità di una deroga alle garanzie approntate dall’art. 2112 c.c., quale quella oggetto della
disposizione di legge che disciplina le fattispecie di trasferimento d’azienda
in stato di insolvenza.

Nell’ottica descritta, considerato il passaggio
diretto – in forza del meccanismo sancito dall’art.2112
c.c. – alla società cessionaria, del personale dipendente della società
cedente, anche appartenente alla categoria dei dirigenti, deduceva che il
licenziamento intimato dalla cedente in epoca successiva al perfezionamento
dell’atto traslativo, era da ritenersi illegittimo, non potendo “avere
alcuna efficacia il licenziamento intimato da soggetto non risultante più
titolare del rapporto (vedi Cass. n. 1097/07)”.

Avverso tale decisione G. V. interpone ricorso per
cassazione sostenuto da due motivi successivamente illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il Fallimento R. C.

La causa, chiamata in sede di adunanza camerale, è
stata quindi rinviata per la trattazione in pubblica udienza ai sensi dell’art.380 bis c.p.c..

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra
le parti ex art. 360 comma primo n.5 c.p.c.,
nonché violazione e falsa applicazione dell’art.2112
c.c. e dell’art.47
L.428/1990 in relazione all’art. 360 comma
primo n.3 c.p.c..

Si prospetta l’erroneità della pronuncia per aver
trascurato di considerare che la questione della applicabilità o meno dell’art. 47 L. 428/1990 non era
rilevante in causa, giacchè alla data di conclusione delle trattative sindacali
(12/10/2012) la società R. Cucine era ancora in bonis, sicchè la ricordata
disciplina non appariva coerente con la quaestio facti trattata.

Si osserva, per contro, che nello specifico, la
deroga all’applicazione dell’art. 2112 c.c. discende
direttamente dai verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale dai
singoli lavoratori e dalla società cedente, e non dall’accordo siglato dalle
parti sociali nell’ambito della procedura ex art. 47 L.428/1990.

Ci si duole, conclusivamente, che la Corte di merito
abbia omesso di considerare la circostanza della intervenuta sottoscrizione di
un verbale transattivo con il quale egli aveva rinunciato individualmente a
rivendicare l’applicazione dell’art. 2112 c.c.
nei confronti della affittuaria, accettando di rimanere alle dipendenze della
propria datrice di lavoro.

2. Con la seconda censura si prospetta violazione e
falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. :n relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c..

Si deduce che una corretta lettura del verbale di
conciliazione stilato ai sensi dell’art. 411 c.p.c.
consentiva di definire la volontà delle parti come intesa ad escludere in
radice la continuità del rapporto in capo alla società affittuaria,
rimarcandosi che la volontà della R. Cucine srl di risolvere il rapporto con il
ricorrente, era da ritenersi altresì avvalorata dalla liquidazione in busta
paga della indennità sostitutiva del preavviso e del TFR.

3. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi
per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, presentano
profili di inammissibilità.

Deve infatti considerarsi che secondo consolidata
giurisprudenza di questa Corte (vedi ex plurimis, Cass. 9/8/2018 n.20694), il
giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, ed ha per sua natura,
la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito
dalle norme e dai principi di diritto. Da ciò consegue che i motivi del ricorso
devono investire questioni che siano già comprese nel thema decidendum del
giudizio di appello, dovendo ritenersi precluse sia le domande nuove, che nuove
questioni di diritto o temi di contestazione, non trattati nella fase di merito
né rilevabili d’ufficio, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di
fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal
giudizio di legittimità (vedi in motivazione, Cass. 12/6/2018 n. 15196),

4. Nella fattispecie qui scrutinata, alla stregua
della definizione del thema decidendum come delineata dalla pronuncia oggetto
di impugnazione, è dato rilevare che I opposizione avverso lo stato passivo
proposta dal V., verteva sulla “ammissibilità del licenziamento dei
lavoratori con qualifica dirigenziale, in caso di trasferimento d’azienda che
versava in stato di insolvenza”.

L’opponente aveva al riguardo patrocinato la tesi
della inapplicabilità alla fattispecie considerata, dei dettami di cui all’art.2112 c.c., avendo la società cedente e quella
cessionaria espressamente stabilito che il ramo d’azienda oggetto di
trasferimento comprendesse solo i lavoratori elencati in un allegato nel quale
il suo nominativo non era ricompreso; nell’ottica descritta sosteneva altresì
la legittimità di quel patto, in considerazione del rituale espletamento della
procedura sindacale ai. sensi dell’art.47 L. 428/1990.

Entro gli esposti termini risultava, dunque,
circoscritta, la materia del contendere.

5. Non può sottacersi, allora, che le critiche
formulate dal V. in questa sede di legittimità, configurano un tema d’indagine
– la irrilevanza della, questione concernente l’applicabilità degli accordi
sindacali in deroga sottoscritti nell’ambito della procedura di cui all’art.47 cit., l’omessa considerazione
degli accordi individuali sottoscritti dai singoli lavoratori dai quali
discende la deroga alla applicazione dell’art.2112
c.c. – che non rinviene alcun riscontro nel tessuto motivazionale che
sorregge il provvedimento impugnato.

E detta prospettazione, introducendo questioni non
sottoposte allo scrutinio del giudice di merito, incorre nello stigma della
novità, giacchè delinea nuove questioni di diritto che presuppongono lo
svolgimento di differenti indagini ed accertamenti in fatto, non trattati nella
fase di merito né rilevabili d’ufficio, come tali non proponibili per la prima
volta in questa sede di legittimità.

In proposito va rammentato l’orientamento espresso
da questa Corte, del tutto privo di contrasti, secondo cui qualora con il
ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno
nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo
allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare
in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del
principio di autosufficienza del ricorso (vedi ex aliis, Cass. 12/6/2018 n.
15196, Cass. 24/1/2019 n. 2038).

Tali principi, sono naturalmente applicabili anche
alla materia ed al rito fallimentare; ed invero l’art. 99 I.fall., nel testo
novellato dal dlgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007, configurando il giudizio
di opposizione allo stato passivo in senso impugnatorio, esclude
l’ammissibilità di domande nuove, non proposte nel grado precedente, e di nuovi
accertamenti di fatto, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione che
solleciti l’esame di questioni, di fatto o di diritto, non prospettate,
ritualmente e tempestivamente, nel giudizio di opposizione (cfr. Cass.
21/9/2017 n. 22006 ).

Nello specifico il ricorrente ha omesso di
ottemperare alle ricordate prescrizioni, non indicando mediante riproduzione
della relativa deduzione, se e come abbia rappresentato, innanzi ai giudici di
merito, i fatti, come in precedenza esposti, che, ai fini dallo stesso
desiderati, la corte d’appello avrebbe omesso di esaminare.

Discende coerente, da quanto sinora detto, la
declaratoria di inammissibilità del presente ricorso.

La regolazione delle pese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha
aggiunto il comma 1 quater all’art.
13 DPR 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del
comma 1 bis dello stesso articolo
13.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro
200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13.

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