Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 dicembre 2019, n. 34476

Professionisti, Avvocato, Violazione del codice deontologico
– Esercizio della professione durante la sospensione cautelare, Riscossione
somme di denaro in contanti senza rilascio di fattura, Prove testimoniali,
Provvedimento disciplinare della sospensione, Legittimità

 

Fatti di causa

 

1. – Nella seduta del 20 marzo 2014, il Consiglio
dell’ordine degli avvocati di Perugia deliberava l’apertura di un procedimento
disciplinare nei confronti dell’avvocato R.F.:

A) per avere, in violazione degli artt. 7 e 38 del
codice deontologico, tenuto un comportamento contrario al dovere di fedeltà
nello svolgimento della propria attività professionale, nonché contrario gli
interessi della propria assistita, signora F.P., comportamento consistito nel
non avere provveduto ad iniziare alcuna azione nei confronti della società R.S.
a r.l., quale datrice di lavoro della P., per il mancato versamento degli
stipendi e dell’indennità di maternità, e nell’avere costantemente rassicurato
la propria cliente sull’andamento della pratica, rappresentandole una
situazione non corrispondente al vero, dal momento che nessun accordo con la
controparte era stato raggiunto, né alcun tentativo di conciliazione, causa o
ricorso erano stati avviati, con conseguente pregiudizio dei diritti facenti
capo alla P., pur avendo percepito in più riprese da quest’ultima compensi,
pari a euro 1.317;

B) per avere, in violazione dell’art. 15 del codice
deontologico, percepito compensi omettendo la fatturazione di somme di denaro
ricevute in contanti (in data 19 marzo 2013, pari a euro 317, e in data 27
settembre 2013, pari a euro 1.000);

C) per avere esercitato abusivamente la professione
di avvocato nonostante la sospensione cautelare a tempo indeterminato adottata
dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Perugia in data 4 luglio 2013 e
notificata all’avv. F. in data 18 luglio 2013, violando così l’art. 5 del
codice deontologico.

Il Consiglio distrettuale di disciplina dell’Umbria,
con decisione in data 12 ottobre 2015, ritenendo accertati i fatti contestati,
irrogava all’avv. F. la sanzione disciplinare della sospensione dalla
professione per un anno.

2. – Il Consiglio nazionale forense, con sentenza
resa pubblica mediante deposito in segreteria il 12 giugno 2019, ha rigettato
il ricorso dell’incolpata.

2.1. – Per quanto qui ancora rileva, il Consiglio
nazionale forense ha dichiarato inammissibile e comunque infondato nel merito
il motivo di impugnazione rivolto a censurare la decisione impugnata per
essersi basata esclusivamente su deposizioni testimoniali senza esplorare
l’attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni con supplementi istruttori e
con l’audizione di ulteriori testi.

2.1.1. – Sotto il primo profilo, il CNF – dopo avere
affermato che, ai sensi dell’art. 342 cod. proc.
civ., “i confini dell’esame della controversia, ovvero l’ambito di
indagine, cui è chiamato il giudice di appello, sono necessariamente delineati
dall’appellante il quale, nel proprio atto introduttivo, è tenuto ad enucleare
ed evidenziare i motivi specifici dell’impugnazione” – ha rilevato che
“il motivo di impugnazione non ha i requisiti” prescritti, atteso che
l’avv. F. “si è limitata a contestare la decisione del Consiglio
distrettuale di disciplina lamentando una istruttoria incompleta e l’assenza
degli illeciti a lei contestati e non ha assolutamente indicato: le parti della
decisione che si intende impugnare; quali siano gli errori nella ricostruzione
del fatto compiuti dal giudice di primo grado; quali siano le circostanze da
cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della
decisione impugnata; le ragioni volte a confutare le argomentazioni, logico
giuridiche, che sono poste a base della decisione impugnata da parte del
giudice di prime cure”. Leggendo “il motivo di gravame in
esame”.

– ha proseguito il Consiglio nazionale forense –
“non è dato capire quali siano i profili di impugnazione non esaminati dal
giudice di primo grado, né tanto meno è dato sapere quali siano le
considerazioni in correlazione e contrapposizione a quelle riportate dal primo
giudice nella decisione oggi impugnata”. Di qui la conclusione che
“con ogni evidenza il motivo di gravame, non contenendo specifiche censure
alle argomentazioni contenute nella puntuale ed esaustiva decisione adottata
dal giudice di prime cure, è da ritenersi inammissibile per violazione del
dettato di cui agli artt. 342 e 348 cod. proc. civ.”.

2.1.2. – Il CNF ha, “ad ogni buon conto”,
ritenuto infondata l’impugnazione anche nel merito, sul rilievo che dall’esame
delle risultanze processuali (deposizioni testimoniali e documenti prodotti) si
evince chiaramente ed in modo incontestato che la ricorrente ha svolto la
professione legale nei mesi di settembre e ottobre 2013, ossia nel periodo in
cui era stata sospesa dall’esercizio della professione, e ha percepito somme
dall’esponente senza adempiere ai propri obblighi fiscali.

3. – Per la cassazione della sentenza del Consiglio
nazionale forense l’avvocato F. ha proposto ricorso, con atto notificato il 18
luglio 2019, sulla base di tre motivi. La ricorrente ha chiesto anche la
sospensione degli effetti della sentenza impugnata.

L’intimato Consiglio dell’ordine non ha svolto
attività difensiva in questa sede.

 

Ragioni della decisione

 

1. – Con il primo motivo (art.
360, n. 5, cod. proc. civ.; violazione ed errata applicazione degli artt. 342 e 348 cod.
proc. civ.; violazione dell’art.
37 della legge n. 247 del 2012, con riferimento agli artt. 49 e 65 del regio decreto n. 37 del 1934)
la ricorrente censura innanzitutto che la sentenza impugnata abbia ritenuto che
le norme di cui agli artt. 342 e 348 cod. proc. civ. possano applicarsi, sic et
simpliciter, a disciplinare le forme e i contenuti dell’atto di gravame
dell’incolpato che ha subito un provvedimento disciplinare da parte del
Consiglio distrettuale di disciplina e contesta, in ogni caso, la statuizione
secondo cui l’atto di gravame interposto dinanzi al Consiglio nazionale forense
non avesse i requisiti previsti dall’art. 342 cod.
proc. civ.

Con il secondo mezzo (art.
360, n. 5, cod. proc. civ.; vizio di omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio) la F. si duole dell’omessa considerazione, da parte del CNF,
delle doglianze della ricorrente, sia sul punto di innocenza rispetto ad ogni
capo di incolpazione (quantomeno con riferimento alla mancata prestazione di
attività professionale e all’esercizio abusivo della professione e in periodo
di sospensione cautelare), sia sulle produzioni documentali e sulle richieste
istruttorie (rispetto alle quali non si darebbe né cenno sulla richiesta né
cenno di risposta riguardo alla loro potenziale irricevibilità). Vi sarebbe,
nella sentenza impugnata, mancanza assoluta di motivi, sotto l’aspetto
materiale e grafico, con conseguente violazione degli artt. 27, secondo comma, e 111 Cost. e 6 della CEDU.

Il terzo motivo (art.
360, n. 5, cod. proc. civ.) lamenta violazione ed errata e mancata
applicazione dell’art. 63, quarto
comma, del regio decreto n. 37 del 1934, secondo cui è in facoltà del
Consiglio nazionale di procedere, su richiesta delle parti o di ufficio, a
tutte le indagini ritenute necessarie per l’accertamento dei fatti; violazione
degli artt. 59, comma 1, della
legge n. 247 del 2012 e 10 del regolamento n. 2 del 2014; violazione e
mancata applicazione degli artt. 27, secondo comma,
Cost. e 533, comma 2, cod. proc. pen., 111 Cost. e 6 CEDU (principio di non
colpevolezza e di quello di una prova di colpevolezza oltre ogni ragionevole
dubbio e del diritto al contraddittorio, nonché di una prova che si formi nel
contraddittorio); violazione ed errata applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. (violazione del principio
del libero convincimento da parte del giudice che si sottrae all’istanza di
ulteriori indagini sollevata dalla ricorrente nell’atto di gravame).

2. – Il primo motivo è fondato.

Ha errato il CNF a ritenere il ricorso
dell’incolpato al giudice disciplinare avverso la pronuncia del Consiglio
distrettuale di disciplina assoggettato alla disciplina dell’art. 342 cod. proc. civ. e quindi a richiedere che
esso contenga “l’individuazione delle statuizioni concretamente
impugnate” e “l’esposizione delle ragioni volte a confutare le
argomentazioni, logico giuridiche, che sono poste a base della decisione
impugnata da parte del giudice di prime cure ovvero” la prospettazione di
un nuovo profilo “che sia idoneo ad invertire la conclusione decisoria
adottata dal primo giudice”.

Questa Corte (Cass.,
Sez. Un., 17 giugno 2013, n. 15122) ha infatti già statuito che il giudizio
di competenza del Consiglio nazionale forense a seguito di ricorso avverso
provvedimenti disciplinari emessi dal Consiglio territoriale, pur avendo
indubbi connotati impugnatori, non è assimilabile all’appello disciplinato dal
codice di procedura civile, che si configura come un giudizio di secondo grado
avente natura omogenea rispetto a quello di primo grado. Invero, stante la
natura amministrativa del procedimento dinanzi al Consiglio dell’ordine e del
provvedimento sanzionatorio che lo conclude, è solo con il ricorso avverso tale
provvedimento dinanzi al Consiglio nazionale forense che si instaura per la
prima volta un procedimento giurisdizionale che investe il giudice disciplinare
del potere di conoscere ogni aspetto della vicenda in contestazione.

Tale principio – enunciato dalle Sezioni Unite con
riferimento al ricorso proposto innanzi al CNF avverso il provvedimento
disciplinare emanato dal Consiglio dell’ordine territoriale – è applicabile,
dopo la riforma dell’ordinamento professionale forense di cui alla legge n. 247 del 2012, con riguardo
all’impugnazione dinanzi al CNF della decisione resa dal Consiglio distrettuale
di disciplina, giacché anche il procedimento davanti al Consiglio distrettuale
di disciplina conserva il carattere amministrativo del precedente, svolgendo
detto organo una funzione amministrativa di natura giustiziale (cfr. Cass.,
Sez. Un., 10 luglio 2017, n. 16993).

Ne deriva che al ricorso proposto innanzi al
Consiglio nazionale forense avverso la decisione disciplinare emessa dal
Consiglio distrettuale di disciplina non può ritenersi applicabile, in via
immediata e diretta, il disposto dell’art. 342 cod.
proc. civ., come si è affermato invece nell’impugnata sentenza.

Ciò, peraltro, non toglie che, a norma dell’art. 59 del regio decreto n. 37 del
1934, richiamato dall’art.
36, comma 2, della legge n. 247 del 2012, il ricorso al Consiglio nazionale
forense debba contenere «l’indicazione specifica dei motivi sui quali si fonda»
(cfr. Cass., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28049).

Ma, mentre ai fini del rispetto dell’art. 342 cod. proc. civ., pur non occorrendo
l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto
alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, è necessario
che l’impugnazione contenga, a pena di inammissibilità, una chiara
individuazione delle questioni e dei punti della sentenza impugnata e, con essi,
delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte
argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice
(Cass., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199); affinché sia rispettato il
precetto di cui all’art. 59 del
regio decreto n. 37 del 1934, basta, più semplicemente, che il ricorso al
Consiglio nazionale forense precisi il contenuto e la portata delle censure
mosse al provvedimento adottato dal Consiglio distrettuale di disciplina, sì
che resti individuato il thema decidendum sottoposto all’esame del giudice
disciplinare.

2.1. – Nella specie il ricorso dell’incolpata al
Consiglio nazionale forense è stato formulato nel rispetto della prescrizione
formale, con l’indicazione dei motivi specifici.

Infatti l’incolpata si è doluta, con il terzo motivo
(sviluppato da pagina 5 a pagina 8) del ricorso al CNF, del fatto che il
provvedimento disciplinare fosse basato esclusivamente sui testi dell’accusa e
non avesse esplorato l’attendibilità delle loro dichiarazioni con supplementi
istruttori e con l’audizione di ulteriori testi, e fosse stato adottato dal
Consiglio distrettuale senza attendere l’esito della conclusione delle indagini
preliminari nel parallelo giudizio penale; e ha prodotto documentazione rivolta
a dimostrare, nella prospettazione della deducente, sia di avere svolto
attività a favore della cliente in un momento precedente alla sospensione a
tempo indeterminato comminatale dall’Ordine territoriale nel mese di luglio
2013, sia di avere provveduto ad adempiere regolarmente alle prescrizioni
fiscali.

3. – Sennonché l’accoglimento del primo motivo non
conduce all’accoglimento del ricorso per cassazione.

La sentenza impugnata, infatti, pur ritenendo il
“motivo di gravame” inammissibile in applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., lo ha poi esaminato
funditus nel merito, rigettandolo, sul rilievo conclusivo che la decisione
adottata dal Consiglio distrettuale di disciplina “non merita censura
alcuna essendo … conseguente alle risultanze probatorie acquisite in atti,
valutate oculatamente, con chiarezza e coerenza di argomentazioni, sia sul
piano logico e su quello giuridico e deontologico”.

E i motivi – il secondo e il terzo – che la ricorrente
per cassazione articola contro questa seconda ratio, di per sé idonea a
sostenere il decisum, sono inammissibili, sicché la sentenza impugnata resiste
alla complessiva impugnativa.

Sotto questo profilo, va fatta applicazione del
principio per cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di
legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi, ognuna delle
quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla
cassazione della stessa è indispensabile non solo che il soccombente censuri
tutte le riferite rationes, ma anche che tali censure risultino tutte fondate
(Cass., Sez. IlI, 24 maggio 2006, n. 12372; Cass., Sez. II, 2 maggio 2011, n.
9647; Cass., Sez. I, 11 marzo 2019, n. 6985; Cass., Sez. IlI, 18 aprile 2019,
n. 10815).

3.1. – Le ragioni della inammissibilità del secondo
e del terzo motivo di ricorso sono le seguenti.

Esaminando le deposizioni testimoniali e i documenti
prodotti, il Consiglio nazionale forense ha accertato:

– che la signora P. unitamente ad altri colleghi
lavoratori si era rivolta all’avvocato F. affinché li tutelasse nei confronti
del datore di lavoro, il quale aveva omesso di pagare loro la retribuzione
mensile degli ultimi sei mesi;

– che l’avvocato F. era stata sospesa dall’esercizio
dell’attività professionale a tempo indeterminato dal mese di luglio 2013 ed
aveva omesso di darne notizia alla propria assistita;

– che l’incolpata nel mese di settembre ed ottobre
2013 aveva rappresentato alla signora P. di avere raggiunto una definizione della
sua posizione con la controparte da perfezionare davanti all’Ufficio
provinciale del lavoro, ottenendo dalla propria cliente il versamento di più di
1.300 euro, rilasciando due ricevute di avvenuto pagamento, ma senza emettere
fattura nel momento in cui ha incassato le somme e senza trasmetterla alla
cliente entro quindici giorni dall’emissione;

– che in atti non si rinvengono documenti contabili
dell’avvocato F. relativi a detti incassi.

Su queste basi, univoche e convergenti nella loro
portata, il Consiglio nazionale forense è giunto, con motivazione argomentata e
priva di mende logiche e giuridiche, alle seguenti conclusioni:

– che l’avvocato F. ha svolto la professione legale
nei mesi di settembre e ottobre 2013, vale a dire proprio nel periodo in cui
era stata sospesa dall’esercizio della professione, violando così il precetto
dell’art. 21 del vecchio codice deontologico forense, sostanzialmente trasfuso
nel vigente art. 36 del codice deontologico forense;

– che l’incolpata ha percepito l’onorario dalla
cliente (più di 1.300 euro in contanti) senza adempiere ai propri obblighi
fiscali, in violazione del precetto racchiuso nel vecchio art. 15 del codice
deontologico, oggi riprodotto nel nuovo art. 16.

Il CNF, dopo avere sottolineato che il fatto dell’avvenuta
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale a tempo indeterminato
dal mese di luglio 2013 era stata ammesso dalla stessa incolpata, ha anche
osservato che la copia della fattura allegata al ricorso non ha alcuna valenza
probatoria, in quanto trattasi di mera copia di documento proveniente dal
professionista della cui regolare contabilizzazione o trasmissione alla cliente
non v’è prova in atti. La circostanza che nello stesso giorno (19 ottobre 2013)
in cui risulta essere stata emessa la fattura la F. abbia rilasciato alla P.
una semplice ricevuta per l’importo percepito anziché la fattura e che questa
non sia stata depositata avanti al Consiglio distrettuale, lascia intendere,
secondo il giudice disciplinare, che la fattura sia stata predisposta
successivamente alla decisione dello stesso Consiglio distrettuale.

La ricorrente critica le conclusioni alle quali è
pervenuto il Consiglio nazionale forense. Deduce che il CNF avrebbe omesso di
prendere in considerazione la documentazione che dimostrava lo svolgimento
dell’attività di assistenza legale da parte dell’avvocato F. in favore della
signora P. prima della applicazione, a carico della professionista, della
misura della sospensione cautelare, e non avrebbe pronunciato sulla ammissione
delle prove orali articolate dall’incolpata, con l’assunzione a testimone del
legale rappresentante della società datrice di lavoro (la R.S. s.r.l.) e della
signora T.C., redattrice dei conteggi commissionati dall’avvocato F. a supporto
del ricorso per decreto ingiuntivo contro la R.S., in caso di mancato accordo.
Sostiene inoltre che, riguardo alla contestazione dell’omessa fatturazione,
mancherebbe la prova di colpevolezza assoluta, e non si sarebbe potuto a ciò
controbattere con la non idoneità della fattura prodotta. Prospetta, infine,
che, riguardo all’accusa di avere esercitato la professione forense in periodo
non consentito, alla conferma della decisione del Consiglio distrettuale si
sarebbe potuti pervenire solo dopo lo svolgimento di attività istruttoria di
conferma o smentita della tesi di colpevolezza, altrimenti presunta.

Le critiche articolate dalla difesa della ricorrente
non hanno il tono proprio di una censura di legittimità.

Esse, sotto l’apparente deduzione del vizio di
violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e
di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà
verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti
storici da cui è originata l’azione e la condanna disciplinare (cfr. Cass.,
Sez. Un., 17 dicembre 2019, n. 33373).

In breve, la complessiva censura traligna dal
modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto
una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, senza neppure
confrontarsi con la ratio decidendi.

Invero, la sentenza impugnata ha convalidato, sulla
base della valutazione delle risultanze probatorie acquisite, il giudizio del
collegio territoriale circa il disvalore deontologico della condotta
dell’incolpata: per avere costei tenuto, nello svolgimento della propria
attività professionale, una condotta contraria al dovere di fedeltà, oltreché
agli interessi della propria assistita, non avendo iniziato nei confronti del
datore di lavoro della P., la R.S. s.r.l., alcuna azione, al fine di ottenere
il pagamento della retribuzione maturata, rassicurando la cliente circa il buon
esito di accordi, in realtà mai esistiti; per avere richiesto il versamento di
somme in contanti, con l’intento di incamerarle senza emettere regolare
fatturazione; per avere omesso di informare la P. della sua sospensione
dall’esercizio della professione a tempo indeterminato.

Rispetto agli addebiti mossi, e ritenuti accertati
con congrua motivazione in base alle convergenti acquisizioni probatorie anche
con riferimento allo svolgimento della professione legale nel periodo
(settembre e ottobre 2013) di sospensione dall’esercizio della professione,
risultano in particolare prive di decisività la documentazione di cui si
lamenta l’omesso esame e la capitolazione istruttoria non ammessa dal giudice
disciplinare. L’una e l’altra, infatti, mirano a ottenere la dimostrazione di
circostanze non rilevanti (che l’avvocato R.F. abbia, prima della sospensione
cautelare dalla professione, inviato, nel maggio 2013, una lettera alla R.S.
per sollecitare la corresponsione delle retribuzioni rimaste insolute, e abbia
cercato di raggiungere un accordo con il datore di lavoro) rispetto alla violazione
dei doveri deontologici derivante dal non avere provveduto ad iniziare alcuna
azione nei confronti dell’inadempiente datore di lavoro, dall’avere
costantemente rassicurato la signora P. circa l’avvenuto raggiungimento, non
corrispondente al vero, di un accordo con la controparte e dall’avere svolto la
professione legale nei mesi (settembre e ottobre 2013) in cui era stata sospesa
dall’esercizio della professione.

In conclusione, non può trovare ingresso, nel regime
di sindacato minimale ex art. 360, n. 5 novellato,
cod. proc. civ., il vizio come dedotto dalla ricorrente.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai
consolidata (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n.
8053; Cass., Sez. Un., 18 aprile 2018, n. 9558;
Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679) nell’affermare che:

– il novellato testo dell’art.
360, n. 5, cod. proc. civ. ha introdotto nell’ordinamento un vizio
specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad
avere carattere decisivo;

– l’omesso esame di elementi istruttori non integra
di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico
rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice,
benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

– neppure il cattivo esercizio del potere di
apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad
un vizio rilevante ai sensi della predetta norma;

– nel giudizio di legittimità è denunciabile solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della
sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali:
tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto
materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile
tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
sufficienza della motivazione.

4. – Il ricorso è rigettato.

Il rigetto del ricorso assorbe l’esame della
richiesta di sospensiva degli effetti della sentenza impugnata.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, non avendo
l’intimato Consiglio dell’ordine svolto attività difensiva in questa sede.

5. – Poiché il ricorso è stato proposto
successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, ricorrono i presupposti
processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, che ha aggiunto il comma
1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 –
della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per la stessa impugnazione, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, inserito dall’art.
1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso, a norma del comma 1
– bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 dicembre 2019, n. 34476
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