Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 gennaio 2020, n. 1384

Rapporto di lavoro subordinato, Differenze retributive,
Festività non godute, Lavoro straordinario, TFR

Rilevato

 

che la Corte di Appello di Salerno, con sentenza
depositata in data 14.4.2014, ha rigettato il gravame interposto dalla S.a.s.
Il C., nei confronti di A.T., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa
sede con la quale, in accoglimento della domanda del lavoratore, previo
riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato
relativamente al periodo 2.5.2002-9.6.2007, la società era stata condannata al
pagamento, in favore del T., della somma di Euro 1.267,55 per differenze
retributive, Euro 1.184,77 per festività non godute, Euro 50.000,00 per lavoro straordinario,
Euro 5.022,95 per il TFR, oltre accessori di legge;

che per la cassazione della sentenza ricorre la
S.r.l. Il C. (già Il C. S.a.s.), articolando tre motivi, cui resiste con
controricorso A.T.;

che il P.G. non ha formulato richieste

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 112 c.p.c.; 16 del D.Igs. n. 66 del 2003; 3 del Rdl
n. 692 del 1923; 2697 c.c., per avere i
giudici di merito erroneamente riconosciuto «la parte preponderante delle somme
a titolo di lavoro straordinario», mentre, ad avviso della parte ricorrente,
nulla spetterebbe al lavoratore a tale titolo, «perché la prova è stata
inadeguata e perché la domanda è infondata sul piano del diritto, in quanto
nessun teste ha riferito lo stesso orario di inizio e fine della prestazione di
lavoro, né di un orario normale di lavoro rispetto al quale individuare quello
straordinario»;

inoltre, a parere della società datrice, i giudici
di merito avrebbero violato «le norme di legge che disciplinano l’orario di
lavoro, perché non avrebbero considerato che, in base alla normativa di cui si
lamenta la violazione, il ricorrente, che svolgeva un lavoro discontinuo, non
era soggetto ai limiti di orario e, quindi, non ha diritto al pagamento del lavoro
straordinario»; 2) in riferimento all’art. 360,
primo comma, n. 4, c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 432 c.p.c. e 2697 c.c., nonché
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra
le parti, poiché, secondo la società ricorrente, «la sentenza di appello
fornisce una motivazione apodittica, insufficiente e soltanto apparente, perché
non consente di cogliere la rado della decisione e del motivo per cui sono
stati disattesi i rilievi della inattendibilità dei testimoni, anche in
considerazione della assoluta inattendibilità del teste S., le cui
dichiarazioni non trovano riscontro in quelle di altri testi, sia per la
unicità del rapporto, sia per la durata delle prestazioni»; 3) «la violazione e
falsa applicazione degli artt. 132, n. 4, c.p.c.; 118 Disp. Att. c.p.c.,
115 e 116 c.p.c.; 2697 c.c.», poiché «la motivazione della sentenza
è inadeguata ed i giudici di merito hanno violato gli artt. 132, n. 4, c.p.c. e 118 Disp.
Att. c.p.c., non avendo motivato in ordine alla valutazione del
materiale probatorio ed alla metodologia che il giudice deve osservare nella
formazione del giudizio a lui riservato»;

che i motivi – che possono essere trattati
congiuntamente per motivi di connessione e che, nella sostanza, tendono ad una
nuova valutazione del fatto, che non può trovare ingresso in questa sede – non
sono meritevoli di accoglimento; al riguardo; è da osservare, innanzitutto, che
la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697
c.c.; 16 del D.Igs. n. 66 del 2003; 3 del Rdl
692 del 1923 avrebbe dovuto essere censurata in riferimento al primo comma,
n. 3, dell’art. 360 del codice di rito;
peraltro, la società datrice ha addotto soltanto in sede di gravame il preteso
carattere discontinuo delle prestazioni rese dal T.; pertanto, trattandosi di
questione nuova, correttamente i giudici di seconda istanza non ne hanno tenuto
conto; né la società ha prodotto gli atti di primo grado dai quali potesse
eventualmente evincersi il contrario; e ciò, in violazione del principio più
volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte
ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce (art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.), in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di
controllare ex actis la veridicità delle proprie
asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass.
n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli
elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione
della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di
tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso
e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di
merito (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); per la qual cosa, questa Corte non è
stata messa in grado di apprezzare la veridicità delle doglianze mosse al
procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza;

che, inoltre – per quanto, più specificamente
attiene al dedotto vizio motivazionale -, come sottolineato dalle Sezioni Unite
di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014),
per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione
solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della
motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata,
a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si
esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico»,
nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
«sufficienza» della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto
nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo
all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata
depositata, come riferito in narrativa, in data 14.4.2014, nella fattispecie si
applica, ratione temporis,
il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5),
come sostituito dall’art. 54,
comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito,
con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n.
134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per
cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso
che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152 del 2014), con carattere di decisività, che
sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello
avrebbe omesso di esaminare; né, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della
pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza «così radicale da
comportare» in linea con «quanto previsto dall’art.
132, n. 4, c.p.c., la
nullità della sentenza per mancanza di motivazione». E, dunque, non potendosi
più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al
parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza
e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le
molte, Cass. n. 25229
del 2015), che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con
argomentazioni logicogiuridiche sintetiche, ma
congrue, poste a fondamento della decisione impugnata;

che, infine, il compito di valutare le prove e di
controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al
giudice di merito; per la qual cosa <<la deduzione con il ricorso per
cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa,
errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di
legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale
sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo
della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle
argomentazioni svolte dal giudice di merito» (cfr., ex multis,
Cass., S.U., n.
24148/2013; Cass. n. 14541/2014 citt.; Cass.
n. 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale, come innanzi
osservato, è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso
motivazionale condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici in ordine alla
sussistenza delle spettanze dovute al lavoratore per il lavoro svolto, dal
2.5.2002 al 9.6.2007, alle dipendenze della società ricorrente; mentre le
censure sollevate, al riguardo, da quest’ultima, appaiono, all’evidenza,
finalizzate ad una nuova valutazione degli elementi di fatto, attraverso la
mera contestazione della valutazione degli elementi probatori, senza che
vengano neppure trascritte in modo completo le dichiarazioni testimoniali oggetto
di doglianza;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va respinto;

che le spese del presente giudizio – liquidate come
in dispositivo e da distrarre, ai sensi dell’art.
93 c.p.c., in favore
del difensore del T., avv. C.F., dichiaratosi antistatario
– seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.700,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge, da distrarsi.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso articolo
13.

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