Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 gennaio 2020, n. 1801

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Drastica
riduzione delle commesse, Crisi generale dell’economia, Ricorso ai criteri
dei carichi di famiglia e di anzianità, Mansioni omogenee e fungibili rispetto
a quelle dei propri colleghi

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza n. 541 del 31.5.2016 il Tribunale di
Avellino, in funzione di giudice del lavoro, confermava l’ordinanza dello
stesso Tribunale in data 19.2.2014, emessa ai sensi della L. n. 92 del 2012, con la quale era stata
respinta l’impugnativa proposta da R. F. contro il licenziamento per
giustificato motivo oggettivo intimatogli il 20.6.2014 dalla società S. s.r.l.,
sua datrice di lavoro.

2. Il Tribunale rilevava che: 1) il recesso era
stato intimato per drastica riduzione delle commesse causata dalla crisi
generale dell’economia; 2) l’azienda aveva dato prova, all’esito
dell’istruttoria compiuta, della sussistenza del giustificato motivo oggettivo,
essendo emerso che il lavoratore era addetto alla verniciatura, attività
strettamente correlata a una particolare commessa cessata proprio nel periodo
del licenziamento; 3) il lavoratore non aveva dimostrato il carattere ritorsivo
del recesso; 4) nessuna possibilità di riutilizzazione si deduceva dagli atti
né il lavoratore aveva indicato elementi probatori in tal senso.

3. Avverso la sentenza di prime cure il lavoratore
proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Napoli. La società datrice di
lavoro si costituiva per resistere all’impugnazione.

4. Con sentenza pubblicata il 26.1.2017 la Corte di
appello di Napoli, in riforma dell’impugnata sentenza, dichiarava risolto il
rapporto di lavoro tra le parti con effetto dal 20.6.2013, condannava la
società S. s.r.l. a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria pari
a 20 mensilità parametrate all’ultima retribuzione globale di fatto, oltre
interessi e rivalutazione con decorrenza dal 20.6.2013 e al pagamento delle
spese di lite.

5. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale
riteneva non manifestamente insussistenti le “ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”
che avevano indotto la società a ridurre il personale sopprimendo un posto di
lavoro. D’altra parte, la Corte di merito osservava che, nell’individuazione
del F. come lavoratore da licenziare, essendo le posizioni lavorative
all’interno dell’azienda omogenee e fungibili, la società non aveva rispettato
il canone di correttezza e buona fede cui agli art.
1175 e 1375 cod.civ. non avendo fatto
ricorso ai criteri dei carichi di famiglia e di anzianità, previsti dall’art. 5 della L. n. 223 1991
sui licenziamenti collettivi ed applicabili in via analogica riconosciuta
l’illegittimità del licenziamento, la Corte napoletana applicava la tutela di
cui al quinto comma dell’art.
18 della legge n. 300 del 1970 novellato dalla L.
n. 92 del 2012.

6. Contro la citata sentenza della Corte di appello
di Napoli la società S. s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a sei
motivi. R.F. resiste con controricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Preliminarmente occorre esaminare la questione,
sollevata dal lavoratore, relativa alla dedotta inammissibilità del ricorso ai
sensi dell’art. 365 cod.proc.civ. perché
mancherebbe la procura speciale richiesta per il giudizio di cassazione.
L’eccezione è infondata perché la procura che figura in calce al ricorso, anche
se viene denominata “delega”, al di là degli aspetti nominalistici, contiene
tutti gli elementi necessari per la sua validità, cioè la natura speciale dei
poteri conferiti al difensore dal legale rappresentante della società
ricorrente — la cui firma viene autenticata dallo stesso difensore — per
proporre ricorso per cassazione nei confronti della citata sentenza della Corte
di appello di Napoli.

2. Nel merito, il ricorso è infondato e deve essere
rigettato.

3. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta
omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ. in relazione
a di versi elementi probatori che sarebbero stati “travisati” dalla Corte
territoriale, che in tal modo sarebbe giunta in maniera “distorta” alla
conclusione che il lavoratore licenziato svolgesse mansioni omogenee e
fungibili rispetto a quelle dei propri colleghi, mentre egli svolgeva le sole
mansioni di verniciatore, divenute poi superflue una volta venuta meno la
commessa da cui proveniva l’attività di verniciatura.

4. Questa Corte (cfr. Cass. n. 10749 del 2015) ha
avuto modo di chiarire che «In tema di giudizio di cassazione, ove il
ricorrente abbia lamentato un travisamento della prova, solo l’informazione
probatoria su un punto decisivo, acquisita e non valutata, mette in crisi
irreversibile la struttura del percorso argomentativo del giudice di merito e
fa escludere l’ipotesi contenuta nella censura; infatti il travisamento della
prova implica, non una valutazione dei fatti, ma un accertamento che quella
informazione probatoria, utilizzata in sentenza è contraddetta da uno specifico
atto processuale».

5. La società ricorrente deduce nell’ambito di
questa doglianza che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un travisamento
delle prove sia con riguardo alle mansioni del lavoratore, erroneamente ritenute
fungibili rispetto a quelle dei suoi colleghi, sia in ordine alle ragioni che
avevano indotto la datrice di lavoro ai scegliere lui e non altri.

6. Gli atti processuali dai quali emergerebbe il
travisamento denunciato sarebbero varie risultanze della prova per testi (in
particolare le testimonianze di G.R., A.C., M.Z., d.B. e del dipendente I.)
secondo le quali il lavoratore sarebbe stato addetto alla verniciatura “in via
sostanzialmente esclusiva”, mentre la sentenza impugnata ha osservato come il Piano
fosse “addetto giammai in via esclusiva alla verniciatura” (p. 5).

7. Dalla sentenza impugnata emerge che la Corte
territoriale ha trovato conferma nelle deposizioni testimoniali (vengono
indicati tutti i testi menzionati dalla ricorrente ad eccezione del d. B.) che
il F. non si limitava alle mansioni di verniciatore, ma “faceva all’occorrenza
anche altro, occupandosi della foratura e pulizia delle sbavature dei pezzi
destinati alla saldatura, nonché alla smerigliatura e taglio del ferro” (p. 4
della sentenza impugnata), così accertando in fatto la non esclusività delle
mansioni di verniciatore del lavoratore controricorrente e la sua fungibilità
con gli altri operai. Tutto ciò non negando che al posto di verniciatore “era
addetto prevalentemente il F.” (ibidem).

8. Non di travisamento di prove si tratta dunque, ma
di valutazione delle stesse in senso diverso da quanto auspicato dalla
ricorrente, senza che il motivo individui l’omesso esame di un fatto decisivo
per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti. Il motivo è
dunque infondato.

9. Con il secondo motivo la datrice di lavoro si
duole della “Nullità della sentenza, per omessa motivazione e per contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili, rilevante ai sensi e per gli effetti
dell’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c.”, denunciando
come in diversi punti la sentenza impugnata sia contraddittoria o apodittica.

10. Con questa doglianza la ricorrente denuncia una
motivazione al di sotto del “minimo costituzionale”.

11. Secondo i principi affermati dalla sentenza n. 8053 del 2014 delle Sezioni Unite di
questa Corte la riformulazione dell’art. 360, primo
comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n.
83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134,
deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al
“minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella ”
motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione. Nessuno dei vizi individuati da
detta giurisprudenza è ravvisabile nella lettura della sentenza impugnata, che
è intelligibile, coerente e non perplessa, consentendo al lettore di
comprendere l’iter logico seguito dalla Corte territoriale e le ragioni del suo
convincimento. Neanche questo motivo merita perciò accoglimento.

12. Con il terzo motivo la S. s.r.l. deduce
violazione e falsa applicazione degli art. 3 e 5 della l. n. 604 del
1966, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3
cod.proc.civ., in ragione di diversi errori in tesi commessi dalla Corte
territoriale per un verso relativamente al licenziamento di più lavoratori
fungibili e, per altro verso, al cosiddetto obbligo di ripescaggio.

13. Sotto il primo profilo la sentenza impugnata
avrebbe errato nel far ricorso ai c.d. “criteri sociali di scelta”, applicabili
esclusivamente in presenza di una “piena e totale fungibilità” tra dipendenti
potenzialmente licenziabili, circostanza che pacificamente faceva difetto nella
fattispecie secondo la ricorrente. Sotto il secondo profilo, la S. osserva che,
una volta adottato l’orientamento basato sulla fungibilità dei lavoratori
potenzialmente licenziabili, ogni onere di ripescaggio in capo al datore di
lavoro sarebbe stato da escludere, mentre contraddittoriamente la Corte
territoriale afferma che la società datrice di lavoro avrebbe dovuto fornire la
prova della “impossibilità di trovare altra idonea collocazione del lavoratore
licenziato nell’ambito dell’azienda”. Inoltre, qualora si volesse considerare
la statuizione della sentenza impugnata sul repêchage un’autonoma ragione del
decidere, essa sarebbe erronea giacché questo istituto non avrebbe più ragione di
esistere alla luce delle più recenti modifiche normative “ad es. all’art. 2103 cod.civ. o all’art. 18 L. n. 300/1970”, per
cui questa Corte viene invitata a rivisitare la propria giurisprudenza in
materia. In ogni caso sarebbe da escludere che quest’obbligo si estenda fino ad
imporre al datore modifiche organizzative per ricavare nuove posizioni
lavorative pur di salvaguardare la continuità del rapporto.

14. Il primo profilo della doglianza non è autonomo
perché è basato sul difetto di fungibilità che a dire della ricorrente sarebbe
esistito tra i dipendenti potenzialmente licenziabili. Ma la fungibilità è
stata accertata in fatto dalla Corte di appello e la relativa statuizione non è
stata efficacemente criticata, come si è appena visto, con i primi due motivi.

15. Il secondo profilo si basa sull’allegata
incompatibilità logica tra l’applicazione dei principi relativi al
licenziamento per riduzione di personale e della scelta tra lavoratori
fungibili da una parte e quelli in materia di repechage dall’altra, giacché la
sentenza impugnata, secondo la ricorrente, farebbe ricorso ad entrambi.

16. È vero che la sentenza impugnata contiene
l’affermazione secondo cui “il lavoratore ha, quindi, il diritto a che il
proprio datore di lavoro … dimostri… l’impossibilità di utilizzare il
lavoratore in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della
ristrutturazione” (pag. 3 della sentenza impugnata), ma si tratta di un obiter
dictum, contenuto nella parte della sentenza della Corte territoriale nella
quale vengono esposti in generale i principi in materia di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo (p. 3). La sola ragione del decidere della
sentenza impugnata è quella basata sulla fungibilità dei lavoratori
potenzialmente licenziabili, la mancata indicazione dei criteri di scelta e la
violazione dei principi di correttezza e buona fede, come chiaramente emerge
dalle parti della sentenza della Corte territoriale relative all’applicazione
delle pertinenti regole di diritto alla fattispecie per come essa era stata
accertata (pp. 5 e ss. della sentenza impugnata).

17. Sotto questo profilo la doglianza è quindi
inammissibile, perché diretta contro una statuizione estranea alla ragione del
decidere della sentenza impugnata.

18. Sono quindi inconferenti i rilievi svolti in via
gradata sul repechage, che non è neanche da individuare come un’autonoma
ragione del decidere della sentenza della Corte napoletana.

19. Con il quarto motivo la ricorrente censura la
sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli art. 3 e 5 L. n. 604 del 1966,
in combinato disposto con l’art. 2697, ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ. in
considerazione della mancata argomentazione da parte del lavoratore in merito
alla collocazione che gli si sarebbe potuta/dovuta assegnare onde evitare il
licenziamento. La società riconosce che la giurisprudenza di questa Corte è
oggi diversamente orientata con riguardo al riparto dell’onere probatorio in
materia di repechage, ma la invita a rivisitarla o, in caso di dubbio, a
sollecitare l’intervento in materia delle Sezioni Unite.

20. Con il quinto motivo la società S. s.r.l.
lamenta la nullità della sentenza impugnata o del procedimento per contrasto
con l’art. 2900 cod.civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ. Questa
doglianza è presentata in via gradata rispetto al motivo precedente. La
ricorrente argomenta che se il datore di lavoro è onerato della dimostrazione
non solo dell’elemento positivo delle “ragioni inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ma anche di
quello negativo dell’impossibilità del repechage, allora le motivazioni del
licenziamento devono essere fatte oggetto di puntuale e dettagliata
impugnazione in sede giudiziale da parte del lavoratore, che resterebbe quindi
onerato della indicazione dei “posti di lavoro utili al suo proficuo impiego
che il datore abbia in ipotesi trascurato e dai quali emerga quindi
l’illegittimità in concreto del licenziamento.” Non avendovi il lavoratore
provveduto, la sentenza impugnata, nel porre a carico della S. il rischio della
mancanza di allegazione e prova del possibile ripescaggio, in mancanza di una
precisa iniziativa in tal senso della difesa avversaria, decide allora su una
domanda non integra, così violando i limiti oggettivi del giudizio posti al
giudice e, di conseguenza, il principio di cui all’art.
112 cod. proc.civ.

21. Con il sesto e ultimo motivo la ricorrente si
duole di un omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., giacché,
anche a voler seguire il non condiviso orientamento della Corte territoriale in
materia di repechage, si sarebbe dovuto tener conto del fatto che la S. aveva
offerto la prova “travisata o il cui esame è stato del tutto omesso dalla
sentenza impugnata” di diverse circostanze decisive, cioè: a) che, in
concomitanza e in epoca immediatamente successiva al licenziamento non furono effettuate
ore di lavoro straordinario; b) che all’epoca del licenziamento la società
contava 15 dipendenti, mentre un anno prima gli operai erano 22; c) che la S.
aveva fatto ricorso alla C.I.G. ordinaria dall’11.6 al 5.8. 2012; d) che
durante il periodo in questione la società aveva provveduto alla riduzione del
personale, assumendone anche di nuovo, ma con qualifiche superiori rispetto al
controricorrente e quindi per compiti da quest’ultimo non esigibili; e) che la
S. aveva provveduto soltanto ad assumere tre saldatori nel mese di novembre
2013.

22. Tutte queste circostanze avrebbero dovuto
condurre il giudice di appello a concludere nel senso che era stata raggiunta
la prova dell’impossibilità del repechage, anche a voler seguire il più
recente, non condiviso dalla ricorrente, orientamento giurisprudenziale di
questa Corte.

23. I motivi quarto, quinto e sesto possono essere
esaminati congiuntamente, e sono da ritenere inammissibili, perché tutti
attinenti ad aspetti relativi all’obbligo di repêchage, questione, come si è
visto, estranea alla ragione del decidere della sentenza impugnata.

24. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

25. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

26. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1 -bis dello stesso art.
13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in
euro 200,00 per esborsi, euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, spese da distrarsi in
favore dei difensori avv.ti R.B. e G.P., antistatari.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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