Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 febbraio 2020, n. 2527

Licenziamento per superamento del periodo di comporto,
Sussistenza di un nesso di causalità tra infortunio sul lavoro subito e assenza
per malattia, Irrilevanza, Superamento del limite di comporto quale
condizione sufficiente di legittimità del recesso, Non necessaria la prova
della sopravvenuta impossibilità della prestazione, nè della correlata
impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse

Fatti di causa

1. Con sentenza n. 325 depositata il 16.2.2018 la
Corte di Appello di Milano, in riforma della decisione del Tribunale di Busto
Arsizio, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato il 5.5.2015 a S.
L. dalla società V.Z. s.p.a. per superamento del periodo di comporto ritenendo
giustificata la protratta assenza della lavoratrice dal posto di lavoro
(28.8.2012 – 5.5.2015) in considerazione della sussistenza di un nesso di
causalità tra infortunio sul lavoro subito in data 27.11.2010 (caduta sul
pavimento del punto vendita ove era adibita) e assenza per malattia, e
conseguentemente ha condannato la società alla reintegrazione nel posto di
lavoro, ex art. 18, commi 4 e
7 della legge n. 300 del 1970, respingendo la domanda riconvenzionale della
medesima società proposta ex art. 2033 cod.civ.
ed avente ad oggetto il trattamento previdenziale erogato alla lavoratrice a
titolo di infortunio.

2. Avverso tale sentenza la società ha proposto
ricorso affidato a cinque motivi, e la lavoratrice resiste con controricorso,
illustrato da memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. La società ricorrente, nel denunciare la
violazione e la falsa applicazione dell’art. 2110
cod.civ. (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5,
cod.proc.civ.), assume, con il primo ed il secondo motivo, che la sentenza
di primo grado ha trascurato il consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui le assenze dovute per infortunio o malattia professionale sono
riconducibili all’ampia e generale nozione di malattia contenuta nella
disposizione codicistica e sono normalmente computabili nel periodo di
conservazione del posto di lavoro, salva responsabilità del datore di lavoro ex
art. 2087 cod.civ. che, nel caso di specie, non è stata accertata pur
costituendo fatto decisivo ai fini dell’esito del giudizio.

2. Con il terzo motivo la ricorrente denunzia
violazione e falsa applicazione dell’art. 2729
cod.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, in adesione alle conclusioni
tratte dal consulente medico d’ufficio, ritenuto sussistente un nesso causale
tra l’infortunio (avvenuto il 27.11.2010, ove la lavoratrice ha riportato una
contusione all’anca sinistra) e le assenze del periodo 28.8.2012-19.5.2015
(conseguenti ad un quadro algodistrofico della caviglia sinistra su base post
traumatica) nonostante la diagnosi della patologia alla caviglia venisse
effettuata solamente dopo 18 giorni dall’evento-infortunio e in assenza di
indizi gravi, precisi e concordanti.

3. Con il quarto motivo, subordinato al rigetto dei
primi tre motivi, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 cod.civ. e 18, comma 4, della legge n. 300
del 1970 (ex art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, liquidato, a titolo di
risarcimento del danno, 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto
senza considerare la buona fede del datore di lavoro che ha provveduto
all’intimazione del licenziamento sulla base delle attestazioni dell’Inail che
ritenevano chiusi i postumi dell’infortunio al 27.8.2012.

4. Con il quinto motivo, subordinato al rigetto dei
primi tre motivi, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 cod.civ. e 73 d.P.R. n 1124 del 1965 (ex
art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte territoriale, erroneamente respinto, in maniera integrale, la
domanda riconvenzionale della società avente ad oggetto l’erogazione indebita
dell’indennità per inabilità temporanea nonostante abbia aderito alle
conclusioni tratte dal consulente medico d’ufficio che giustificavano l’assenza
della lavoratrice a causa dell’infortunio subito solamente sino al 30.6.2014
(nonostante l’assenza si sia protratta sino al 19.5.2015).

5. I primi due motivi di ricorso sono fondati.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che la
fattispecie di recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da
malattia del lavoratore si inquadra nello schema previsto e sia soggetta alle
regole dettate dall’art. 2110 cod.civ., che
prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della
risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della
prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti
individuali, con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità e del
contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato,
non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro
prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto
periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o
dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via
equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione
sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria
la prova del giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità
della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il
lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o
principi costituzionali (Cass. n. 5413 del 2003).

6. Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio
sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale
nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art.
2110 cod.civ., sono normalmente computabili nel previsto periodo di
conservazione del posto, mentre, affinchè l’assenza per malattia possa essere
detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia
un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa,
ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una
responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087
cod.civ. (Cass. n. 5413 del 2003 cit.;
Cass. n. 22248 del 2004; Cass. n. 26307 del 2014; Cass.
15972 del 2017; Cass. n. 26498 del 2018).

5. Più esattamente, la computabilità delle assenze
del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel
periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul
lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di
nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti
nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento
dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia
responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente
all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cod.civ., norma che gli impone di porre
in essere le misure necessarie secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della
personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità
della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte
cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 7037
del 2011).

6. Si è anche sottolineato come nessuna norma
imperativa vieti che disposizioni collettive escludano dal computo delle
assenze ai fini del cosiddetto periodo di comporto, cui fa riferimento l’art. 2110 cod.civ., quelle dovute a infortuni sul
lavoro, nè tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non
porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a
causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa
disposizione, che, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella
determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle
forme di uso di tale libertà, quale è quella di delineare la sfera di rilevanza
delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi (Cass. n. 14377 del 2012; Cass. n. 9187 del 1997;
Cass. n. 6080 del 1985; Cass. n. 889 del 1983).

7. Nel caso di specie, la Corte di merito, nel
ritenere escluse dal periodo di comporto le assenze (dal 28.8.2012 al
30.6.2014) conseguenti all’infortunio sul lavoro occorso alla dipendente
(infortunio del 27.11.2010), ha esclusivamente valutato (anche avvalendosi di
consulente tecnico d’ufficio) il collegamento causale tra la patologia che ha
determinato l’assenza per malattia e l’infortunio subito, omettendo di
effettuare un’indagine sui profili di colpa del datore di lavoro, in tal modo
erroneamente interpretando e applicando la disciplina dettata dall’art. 2110 cod.civ. La Corte territoriale ha,
invero, accertato che la patologia sofferta dalla L. alla caviglia sinistra era
causalmente e direttamente collegata all’infortunio subito nel novembre 2010,
senza svolgere altresì la valutazione della ricorrenza di una responsabilità
datoriale nell’omissione delle misure necessarie per evitare l’evento e,
dunque, trascurando il profilo dell’inadempimento datoriale all’obbligo di
protezione imposto dall’art. 2087 cod.civ.

8. Il terzo motivo del ricorso non è fondato.

Questa Corte ha più volte affermato che nella prova
per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello
ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è
sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla
stregua di un giudizio di probabilità basato “sull’id quod plerumque
accidit”, sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento
dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché
dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza (Cass. n.
3513 del 2019; Cass. n. 14762 del 2019).

In particolare, non occorre che tra il fatto noto e
quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma
è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come
conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità;
occorre, al riguardo, che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e
quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con
riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui
sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass.
n. 22656 del 2011).

Ritiene il collegio che desumere, tramite l’ausilio
del consulente medico, che la perdita di equilibrio che ha determinato la
caduta della L. (e la contusione dell’anca sinistra) sia stata determinata da
un “anomalo e passivo movimento di torsione” della caviglia sinistra
e che il referto del pronto soccorso non abbia rilevato la suddetta distorsione
in quanto concentrato sulla contemporanea lesione contusiva dell’anca sinistra
risponde ai suddetti criteri di elevata probabilità logica e ciò in quanto la
lesione alla caviglia sinistra non costituisce evenienza puramente casuale
bensì, come la Corte territoriale afferma, una continuità fenomenologica del
tutto verosimile e ragionevolmente possibile.

9. Il quarto ed il quinto motivo sono assorbiti
dall’accoglimento dei primi due motivi di ricorso.

10. In conclusione, vanno accolti i primi due motivi
di ricorso, rigettato il terzo, assorbiti il quarto ed il quinto; la sentenza
impugnata va cassata, con rinvio alla Corte 
di appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà altresì
alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

accoglie i primi due motivi di ricorso, rigetta il
terzo motivo, assorbiti il quarto ed il quinto motivo; cassa la sentenza
impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione,
cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 febbraio 2020, n. 2527
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