Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2020, n. 4883

Attività di trasporto aereo, Licenziamento, Trasferimento di
azienda, Fusione per incorporazione, Accertamento del passaggio dei rapporto
di lavoro in capo al cessionario, lllegittimità del licenziamento,
Ricostituzione della funzionalità del rapporto di lavoro

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del
21 febbraio 2018, ha respinto l’appello proposto da A. SAI Spa nei confronti di
L.V. ed ha confermato la sentenza del locale Tribunale con cui era stata
accertata l’illegittimità del licenziamento intimato in data 3 settembre 2015,
era stato dichiarato il diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto
di lavoro già in essere con C. F. Spa alle dipendenze di A. S. Spa ai sensi
dell’art. 2112 c.c. ed era stata condannata la
società convenuta a ricostituire la funzionalità del rapporto di lavoro con il
ricorrente e a corrispondergli le retribuzioni maturate, oltre le spese di
lite.

2. La Corte ha condiviso con il primo giudice
l’assunto che C. F. Spa avesse ceduto l’intero compendio aziendale, unitamente
ai propri dipendenti, ad A.a S. Spa, la quale aveva proseguito l’attività di
trasporto aereo, realizzando un trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., come confermato anche dal fatto
che “in data 20 novembre 2015 C. F. Spa si è fusa per incorporazione in A.
S. Spa”.

“Alla luce, quindi, di tali evenienze – secondo
la Corte territoriale – il lavoratore, reintegrato in servizio presso A. C. a
seguito dell’accertamento dell’inefficacia del termine apposto al contratto di
lavoro del 4.3.2010, dev’essere considerato – per gli effetti ripristinatori ex
tunc della sentenza – parte integrante dell’azienda al momento della sua
cessione e, quindi, trasferito ex lege alle dirette dipendenze del cessionario,
non essendo preclusa l’applicazione dell’art. 2112
c.c. dalla circostanza che il rapporto di lavoro non sia, di fatto,
operante al momento del trasferimento, rilevando che il rapporto con il cedente
sia, o possa essere, in atto de iure anche se non de facto (per effetto di
controversia giudiziaria anche successiva al trasferimento)”. Da ciò
deriva per la Corte che “il licenziamento irrogato da C. F. interviene,
quindi, quando il lavoratore è già transitato ex lege alle dipendenze della
società cessionaria”.

Nella sentenza qui impugnata si aggiunge poi:
“in ogni caso, il trasferimento d’azienda non può mai costituire una
ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento in quanto non
determina la soppressione dei posti di lavoro ma la prosecuzione dell’attività
lavorativa da parte di un altro datore di lavoro: il licenziamento motivato
dalla cessione d’azienda è, infatti, vietato sia dall’art. 2112 c.c. che dall’art.
4 Direttiva 2001/23/CE con la conseguenza che il recesso deve essere
considerato nullo”.

3. La Corte di Appello ha inoltre disatteso
l’eccezione di decadenza formulata dalla società ai sensi dell’art. 32, comma 4, lett. d), I. n.
183 del 2010, per non avere il lavoratore fatto precedere l’azione
giudiziale da rituale impugnazione.

4. Infine la Corte milanese ha respinto il motivo di
gravame con cui A. censurava il capo di sentenza che aveva ordinato alla
società “di ripristinare il rapporto di lavoro del Sig. V.”,
ritenendo inapplicabile l’art. 1,
comma 2, d. Igs. n. 23 del 2015 atteso che la “conversione
giudiziaria” aveva riguardato, “sebbene intervenuta in periodo
successivo all’entrata in vigore del decreto legislativo, un contratto a
termine stipulato nel marzo 2010 e cessato nel settembre 2010”.

5. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso A. SAI – Spa in Amministrazione Straordinaria con 3 motivi, cui ha
resistito L.V. con controricorso.

Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia
“violazione e falsa applicazione dell’art.
2112 c.c., nonché dell’art.
7 della legge n. 604/66, degli artt. 1324 c.c.
e 1362 e ss., dell’art.
2730 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3
c.p.c.”

Si contesta la configurabilità nella specie di un
trasferimento di azienda, per non avere il compendio ceduto conservato la sua
identità in quanto “interessato da ben tre operazioni, distinte
giuridicamente e non contestuali nel tempo”.

Anche a voler seguire l’impostazione seguita dai
giudici del merito, si critica l’interpretazione dell’atto di recesso fornita
dalla Corte territoriale – secondo cui il licenziamento sarebbe stato diretta
conseguenza della cessione d’azienda – e si eccepisce che il trasferimento
d’azienda non rappresenta di per sé una condizione ostativa ai licenziamento
per giustificato motivo oggettivo.

Si censura, poi, l’assunto secondo cui “il
licenziamento sarebbe intervenuto allorquando, per effetto del trasferimento
d’azienda, il lavoratore sarebbe già transitato alle dipendenze della
cessionaria”, atteso che la conversione del contratto a termine stipulato
dalla società CAI nel 2010 avrebbe effetti ex tunc; si sostiene che, in seguito
all’introduzione dell’art. 32
della I. n. 183 del 2010, nei casi di conversione “il rapporto di
lavoro dovrà ritenersi (ri)costituito solo a seguito e, comunque, non prima
della pronuncia che accerta la nullità del termine apposto al contratto a tempo
determinato”.

2. Il motivo, in tutte le censure in cui è
articolato, non è meritevole di accoglimento.

L’accertamento in fatto degli elementi che nel loro
insieme inducono il convincimento circa la sussistenza di un trasferimento
d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c.
appartiene alla competenza del giudice del merito e l’apprezzamento di tali
elementi non è sindacabile in sede di legittimità, tanto più in una ipotesi –
ricorrente nella specie – di cd. “doppia conforme” (Cass. n. 26674
del 2016; conf. Cass. n. 20994 dei 2019), quantunque la censura sia mascherata
sotto la forma, non corrispondente alla sostanza, della violazione e della
falsa applicazione della legge che, per essere tale, presuppone invece una
ricostruzione della vicenda storica quale è quella narrata nella sentenza
impugnata (tra molte: Cass. n. 6035 del 2018; Cass.
n. 18715 del 2016).

Parimenti è un accertamento di fatto
l’interpretazione dell’atto di recesso, al pari dell’interpretazione di ogni
atto negoziale (ex multis: Cass. n. 12360 del 2014; Cass.
n. 9070 del 2013; Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), non
essendo sufficiente che rispetto all’esegesi offerta dai giudici del merito,
sicuramente plausibile avuto riguardo alla lettera di licenziamento del
Vitelli, si offra altra interpretazione, pure parimenti plausibile, per
condurre alla cassazione della sentenza (cfr. Cass.
n. 10131 e 18375 del 2006).

Posto dunque che la sussistenza di un trasferimento
d’azienda supera nella specie il vaglio di legittimità, assume il rango di
autonoma ratio decidendi idonea a sorreggere, di per sé sola, la decisione di
condanna della società cessionaria a ripristinare la funzionalità del rapporto
di lavoro con il V. – l’assunto che “il lavoratore, reintegrato in
servizio presso A. C, a seguito dell’accertamento dell’inefficacia del termine
apposto al contratto di lavoro del 4.3.2010, dev’essere considerato – per gli
effetti ripristinatori ex tunc della sentenza – parte integrante dell’azienda
al momento della sua cessione e, quindi, trasferito ex lege alle dirette
dipendenze del cessionario”, conseguendo per la Corte territoriale che
“il licenziamento irrogato da C. F. interviene, quindi, quando il
lavoratore è già transitato ex lege alle dipendenze della società
cessionaria”.

La Corte milanese correttamente rammenta in
proposito l’orientamento di legittimità secondo il quale l’applicazione dell’art. 2112 c.c. non risulta preclusa dalla
circostanza che il rapporto di lavoro in questione non sia, di fatto, operante
al momento del trasferimento, rilevando che il rapporto con il cedente sia, o
possa essere, in atto de iure anche se non de facto, per effetto di
controversia giudiziaria anche successiva al trasferimento (Cass. n. 5909 del
1998; Cass. n. 8228 del 2003, Cass. n. 1220 del
2013).

Inoltre è infondata la censura formulata da parte
ricorrente secondo cui, in seguito all’entrata in vigore del cd.
“Collegato lavoro”, così come interpretato dalla I. n. 92/2012, sarebbe mutata la natura della
pronuncia che accerta la nullità del termine apposto ad un contratto a tempo
determinato, operando ex nunc e non ex tunc.

Infatti questa Corte ha di recente affermato, anche
dopo l’intervento della legge 28 giugno 2012, n.
92, che con l’art. 1,
comma 13, ha introdotto una disposizione di interpretazione autentica della legge n. 183 del 2010, art. 32,
comma 5, il seguente principio: “In tema di contratti di lavoro a tempo
determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del
termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto,
cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore,
ha natura dichiarativa e non costitutiva; ne consegue che la conversione in
rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera con effetto “ex tunc”
dalla illegittima stipulazione del contratto a termine” (Cass. n. 8385 del 2019).

3. Con il secondo motivo si denuncia
“violazione dell’art. 32,
comma 4, della legge n. 183/2010, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”; si sostiene che il V.
avrebbe dovuto far precedere l’azione giudiziale proposta nei confronti della
società A. dal meccanismo di impugnazione previsto dal cd. “Collegato
lavoro” a pena di decadenza.

4. Il motivo è infondato alla stregua di recenti
pronunce di questa Corte secondo le quali, nell’ipotesi di trasferimento
d’azienda, la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio dei
rapporto di lavoro in capo al cessionario (che è il caso che ci occupa) non è
soggetta a termini di decadenza, perché non vi è alcun onere di far accertare
formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del
rapporto di lavoro, in particolare applicandosi l’art. 32, comma 4, lett, c), della I.
n. 183 del 2010, ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda
impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità (cfr. Cass. n. 9469 del 2019; Cass. n. 13648 del 2019).

A fortiori non risulta applicabile la lettera d)
dello stesso art. 32, comma 4
della I. n. 183 del 2010, la quale comunque postula l’invocazione della
illegittimità o invalidità di atti posti in essere da un datore di lavoro solo
formale in fenomeni dal carattere propriamente interpositorio e trattandosi di
norma di chiusura di carattere eccezionale, non suscettibile, pertanto, di
disciplinare la fattispecie di cui all’art. 2112
c.c. già contemplata dalla lettera precedente (Cass.
n. 28750 del 2019; v. pure Cass. n. 13179 del 2017).

5. Il terzo mezzo denuncia “violazione degli articoli 1, comma 2, e 2, comma 1, del d. Igs. n. 23 del 4
marzo 2015, dell’art. 18
Stat. Lav., e dell’art. 2112 c.c., in
relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”

Si sostiene che la norma di cui all’art. 1. comma 2, d. Igs. n. 23 del
2015, secondo cui le disposizioni dei decreto “si applicano anche nei
casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di
contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo
indeterminato”, opera in tutti i casi di conversione, sia giudiziale che
convenzionale, successiva all’entrata in vigore del decreto e,, quindi, anche
nella controversia esaminata dai giudici milanesi.

Si eccepisce quindi che la Corte non avrebbe potuto
avallare una tutela ripristinatoria, atteso che il licenziamento in violazione
dell’art. 2112 c.c. non sarebbe nullo e quindi
non sarebbe “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente
previsti dalla legge” cui l’art.
2, comma 1, d. Igs. n. 23 del 2015, riconosce la tutela reintegratola.

6. Il motivo non può trovare accoglimento per
difetto di rilevanza.

Infatti, una volta acquisita come ragione idonea a
sorreggere il decisum circa il ripristino della funzionalità del rapporto di
lavoro con A. l’argomentazione della Corte territoriale in base alla quale il
V. doveva considerarsi “trasferito ex lege alle dirette dipendenze del cessionario”
sulla scorta dell’art. 2112 c.c. (sicché –
secondo la stessa Corte territoriale – “il licenziamento irrogato da C. F.
interviene quando il lavoratore è già transitato ex lege alle dipendenze della
società cessionaria”), perde di rilievo decisivo ogni questione circa la
disciplina applicabile a detto licenziamento in relazione al d. Igs. n. 23 del 2015, perché tale recesso è
successivo a! trasferimento ritenuto dalla Corte di Appello ed inflitto a non
domino, per cui tutte le considerazioni spese in proposito circa l’ambito di
operatività del richiamato decreto legislativo attengono ad una seconda ratio
decidendi, il cui vizio comunque non condurrebbe alla cassazione della sentenza
impugnata perché la motivazione di essa sarebbe comunque sostenuta dalla prima
ratio in ordine alla prosecuzione del rapporto di lavoro ex art. 2112 c.c.

Come noto, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata
in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi
l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo
dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossigli con
l’impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base
del profilo della sua ratio non, o mai, censurato privando in tal modo
l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato
dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., tra molte, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001;
Cass. n. 24540 del 2009).

7. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali di cui all’art.
13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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