Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 maggio 2020, n. 8620

Accertamento di un rapporto di lavoro di natura dirigenziale,
Difetto di titolarità passiva della società, Possibilità del giudice di
assegnare una diversa qualificazione giuridica

 

Rilevato che

 

Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle
domande proposte da C. B. nei confronti della s.r.l. Gruppo H., accertava
l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro qualificato dalla natura
dirigenziale, in relazione al periodo 10/1/2003-11/11/2008, rigettava le
domande attinenti al precedente periodo dedotto in lite (2001-2003) ed in
accoglimento della domanda riconvenzionale, condannava il ricorrente al
pagamento della somma di euro 29.977,72 a titolo di indennità sostitutiva del
preavviso, per la risoluzione del rapporto per giusta causa.

Con sentenza resa pubblica il 27/11/2015, la Corte
distrettuale, adita da entrambe le parti, in parziale riforma della sentenza
impugnata, rigettava integralmente il ricorso originario proposto dal B. e
quello incidentale spiegato dalla società convenuta.

Nel proprio incedere argomentativo il giudice del
gravame condivideva gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima
istanza il quale aveva accertato il difetto di titolarità passiva della società
convenuta nel periodo anteriore al 1/10/2003, giacchè dalla documentazione
versata in atti non era desumibile l’intervenuta incorporazione da parte della
s.r.l. Gruppo H., delle società per le quali il ricorrente aveva prestato la
propria attività a far tempo dal maggio 2001. Reputava, poi, inammissibili le
argomentazioni formulate per la prima volta in grado di appello, con le quali
intendeva dimostrare che le diverse società per le quali aveva lavorato in
detto periodo, fossero riconducibili ad un unico soggetto economico, in quanto
si trattava di circostanza non dedotta in primo grado, corredata da ulteriore e
nuova documentazione.

La Corte, peraltro, in accoglimento delle censure
formulate dalla società, così riformando la sentenza di prime cure e procedendo
ad un rinnovato scrutinio delle acquisizioni probatorie, riteneva che fra le
parti non fosse intercorso un rapporto di lavoro subordinato, bensì un rapporto
di collaborazione coordinata e continuativa, tacitamente rinnovabile in mancanza
di disdetta scritta. Si trattava di un accordo stipulato in epoca anteriore
alla entrata in vigore del d.lgs. n.276/2003,
che aveva mantenuto efficacia sino al 27/2/2007 quando il Gruppo H. aveva
conferito al B., l’incarico di consulente acquisti settore calzature ed
abbigliamento.

Tanto sul rilievo che, secondo l’art. 86 d.lgs. cit., avrebbe
dovuto mantenere efficacia non oltre un anno dalla entrata in vigore del
decreto (24/10/2004); ma la norma era stata dichiarata incostituzionale, sicchè
la durata del rapporto poteva ritenersi protratta ulteriormente sino alla sua
effettiva disdetta. In ogni caso, argomentava la Corte, non risultavano
allegati da parte ricorrente, elementi idonei a dimostrare la sottoposizione al
potere direttivo da parte datoriale.

Avverso tale decisione interpone ricorso per
cassazione C. B. sulla base di tre motivi illustrati da memoria ex art.380 bis
c.p.c.. Resiste con controricorso la società intimata.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo si stigmatizza la statuizione
con la quale i giudici del gravame hanno dichiarato inammissibile la questione
– sollevata dal ricorrente solo in grado di appello – attinente alla
intervenuta incorporazione delle società per le quali aveva lavorato in epoca
anteriore all’anno 2003, nella s.r.l. Gruppo H., sotto il profilo della
violazione dell’art.360 comma primo nn. 3 e 5.

Si deduce che il contestato profilo di novità
rimarcato dalla Corte distrettuale-poteva configurarsi solo in relazione alla
visura catastale prodotta, ma certamente non in relazione alla
“argomentazione” in sé, essendo stata la domanda proposta sin dal
primo grado di giudizio nei confronti della odierna società controricorrente,
con la precisazione che quest’ultima non aveva mai “contestato il proprio
assoluto difetto di legittimazione passiva”…

Si prospetta altresì violazione dell’art.112 c.p.c. giacchè l’eccezione relativa alla
concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non
è rilevabile ex officio; nello specifico, tuttavia, si deduce che la
controparte non aveva formulato alcuna eccezione al riguardo, in sede di
memoria di costituzione. Nell’ottica descritta la statuizione con la quale era
stata dichiarata inammissibile la pretesa azionata in relazione al periodo
2001-2003, era da reputarsi viziata da ultrapetizione.

2. La censura va disattesa per plurime concorrenti
ragioni. Essa risulta innanzitutto formulata mediante tecnica redazionale
inappropriata, recando promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione
dell’art.360 comma primo nn.3 e 5 senza
adeguatamente specificare quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai
singoli vizi che devono invece essere riconducibili ad uno di quelli
tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360
c.p.c., in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del
devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo
di ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile
eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n.
17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016).

In realtà il vizio di violazione o falsa
applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art.
360, co. 1, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla
motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto)
posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di
sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la
norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso, positivo
vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non
sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non
si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè
applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass.
15/12/2014 n.26307; Cass.24/10/2007 n.22348). Sicché il processo di
sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di
una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto
incontestata; al contrario de sindacato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c. che invece postula un
fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.

Nella specie, nonostante l’invocazione solo formale
di violazioni o false applicazioni di norme (art.115
c.p.c.), nella sostanza la censura investe l’accertamento compiuto dai
giudici del merito in ordine alla inammissibilità del motivo di gravame con il
quale era stata investita la statuizione di difetto della titolarità passiva in
capo alla società appellata, emessa dal Tribunale in relazione al periodo
anteriore al gennaio 2003, proponendo una lettura delle risultanze istruttorie
diversa da quella fornita dal giudice del gravame e non consentita nella presente
sede.

Peraltro, s’impone l’evidenza del difetto di
specificità del motivo, che non reca la indicazione del contenuto degli atti su
cui si fonda e della sede in cui risultino prodotti (visura ritenuta dalla
Corte di merito tardivamente prodotta), né del tenore degli atti processuali
(ricorso di primo grado e memoria di costituzione) sui quali il motivo risulta
modulato.

E’ bene, al riguardo, rammentare che, secondo i
condivisi dicta di questa Corte, i requisiti di contenuto-forma previsti, a
pena di inammissibilità, dall’art.366, comma 1,
c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso
e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il
controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica
mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla
base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della
cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale
fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e
trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del
principio di autosufficienza ( vedi Cass. 13/11/2018 n. 29093).

La ricordata carenza non consente alla Corte di
verificarne ex actis la fondatezza della critica e la circostanza, in coerenza
con la tesi prospettata dal medesimo ricorrente, alla cui stregua compete
esclusivamente all’attore la allegazione e la prova della titolarità della
posizione soggettiva vantata in giudizio.

E detti principi rinvengono applicazione anche
allorquando venga sollevata questione in relazione alla violazione della legge
processuale, come nel caso di specie, in cui il ricorrente ha prospettato la
violazione dell’art.112 c.p.c. (senza peraltro,
indicare le conseguenze che da detta violazione sarebbero scaturite, cfr. Cass.
S.U. 24/7/2013 n.17931), con riferimento ad una difformità fra il chiesto ed il
pronunciato, per avere la Corte di merito rilevato la questione attinente alla
concreta titolarità del rapporto che non era stata formulata dalla società
nella memoria di costituzione di primo grado.

Invero, il riconoscere al giudice di legittimità il
potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale,, non comporta certo
il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito
per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi
compreso quello con cui si denuncino errores in procedendo. Ciò vuoi dire non
solo che i vizi del processo non rilevabili d’ufficio possono esser conosciuti
dalla Corte di cassazione solo se, e nei limiti in cui, la parte interessata ne
abbia fatto oggetto di specifico motivo di ricorso, ma anche che la
proposizione di quel motivo resta soggetta alle regole di ammissibilità e di
procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione
ai profili di fatto del potere cognitivo della Corte. Nemmeno in quest’ipotesi
viene meno, in altri termini, l’onere per la parte di rispettare il principio
di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito
della specificità dei motivi d’impugnazione, ora tradotto nelle più definite e
puntuali disposizioni contenute nell’art. 366
c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c.,
comma 2, n.4 (vedi in motivazione Cass. S.U. 20/5/2012, nonché Cass. 17/1/2014
n.896, Cass. 30/9/2015 n.19410).

3. Il secondo motivo concerne l’interpretazione
dell’art.86 d.lgs. n.276/2003
offerta dal giudice del gravame, in relazione alla quale si prospetta
violazione dell’art.360 comma 1 nn. 3 e 5.

Si critica la sentenza impugnata per violazione
dell’art.112 c.p.c. non avendo nessuna delle
parti mai dedotto la rinnovazione del rapporto dal 2003 al 2007, come affermata
dalla Corte di merito, né essendo mai stata sollevata la questione della
applicabilità alla fattispecie, dell’art.86 d. Igs. n.276/2003 al
contratto di collaborazione coordinata e continuativa di durata annuale
(“rinnovabile annualmente in mancanza di esplicita disdetta
scritta)”, dichiarata incostituzionale con sentenza n.399/2008.

4. Al di là di ogni questione in ordine alla
applicabilità alla fattispecie del principio iura novit curia di cui all’art.113 c.p.c. – in base al quale il giudice ha la
possibilità di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai
rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le
norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame,
e ponendo a fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da
quelli erroneamente richiamati dalle parti, purchè la pronunzia si collochi
entro i limiti di cui all’art. 112 cod. proc. civ.
(vedi Cass.24/7/2012 n. 12943) – anche tale motivo palesa le medesime carenze
di specificità e di anomalia della tecnica redazionale riscontrati per il
motivo precedente, che ne rendono palese l’inammissibilità, non essendo
riportato, neanche nelle parti salienti, il contenuto degli atti processuali
che hanno scandito il giudizio di merito.

5. Quanto al profilo con il quale si contestano gli
approdi ai quali è pervenuta la Corte in tema di accertamento della
insussistenza dei requisiti della subordinazione in relazione al rapporto inter
partes, si tratta di censura non ammissibile nella presente sede. E’ noto
invero che, secondo i consolidati principi espressi da questa Corte, ai fini
della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è
censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri
generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce
accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da
motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle
risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il
rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (vedi Cass. 5/11/2009 n.23455, Cass. 4/5/2011 n.9808). Con il ricorso per
cassazione la parte non può, invero, rimettere in discussione, proponendo una
propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e
la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la
revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in
sede di legittimità (ex plurimis, vedi Cass. 7/12/2017 n.29404).

Nello specifico, la Corte di merito ha congruamente
espresso le ragioni del proprio convincimento dando atto della mancanza di
allegazione e di prova da parte ricorrente, in ordine agli elementi
qualificativi del rapporto in termini di locatio operarum.

6. Del pari inammissibile è il terzo motivo con il
quale si prospetta violazione dell’art.360
comma 1 nn. 3 e 5 in riferimento alla domanda di risarcimento danni conseguente
alla giusta causa di dimissioni dal rapporto inter partes, questione ritenuta
assorbita dalla Corte distrettuale, per il mancato riconoscimento del rapporto
di lavoro subordinato.

Per contestare la congruità della decisione, di per
sé scerva da vizi di ordine logico-giuridico, il ricorrente avrebbe dovuto
specificamente riportare il contenuto degli atti e delle domande ivi contenute
onde consentire lo scrutinio sulla rilevanza e decisività delle questioni
prospettate.

In definitiva, alla stregua delle considerazioni
sinora esposte, il ricorso, sotto tutti i profili delineati, non si sottrae ad
un giudizio di inammissibilità. Il governo delle spese del presente giudizio
segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013
sussistono le condizioni per dare atto ai sensi del comma 1 quater dell’art. 13 DPR 115/2002, della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro
200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del
comma 1 bis dello stesso articolo
13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 maggio 2020, n. 8620
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