Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 maggio 2020, n. 9789

Nullità del patto di prova, Requisito necessario ai fini del
rilascio dell’autorizzazione ministeriale per l’assunzione o il trasferimento
di un lavoratore all’estero, Trattamento economico-normativo non inferiore a
quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la
categoria di appartenenza del lavoratore, Non sussiste

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n.
942 del 2015, confermava la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di
Parma che aveva respinto le domande proposte da A.P. nei confronti della
società datrice di lavoro S. s.p.a. e, in particolare, per quanto qui rileva,
quella avente ad oggetto l’accertamento della nullità del patto di prova della
durata di sei mesi apposto al contratto di lavoro prima della partenza del
lavoratore per la Colombia.

1.1. La Corte di appello richiamava il decreto legge 317/87, convertito in legge 398/87 che, all’art. 2 lett. b), indica, come
requisito necessario ai fini del rilascio dell’autorizzazione ministeriale per
l’assunzione o il trasferimento di un lavoratore all’estero, il riconoscimento
di un “trattamento economico normativo….complessivamente non inferiore a
quello previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la
categoria di appartenenza del lavoratore”. Osservava come tale previsione
fosse dimostrativa della non automatica applicabilità ai predetti rapporti di
lavoro della contrattazione collettiva nazionale e come il contratto fosse
stato autorizzato a fronte di una domanda in cui era stato specificato che i
rapporti di lavoro sarebbero stati regolamentati “sulla falsariga del C.C.N.L. 19 aprile 2010 imprese edili e
affini”.

1.2. Considerava che nel contratto oggetto
dell’autorizzazione ministeriale la maggiore durata del periodo di prova
appariva giustificabile in relazione alle maggiori difficoltà di inserimento
del dipendente in un contesto lavorativo di un Paese diverso e distante
dall’Italia e che quindi la clausola derogatoria introdotta fosse sorretta da
motivazioni plausibili e non fosse di per sé peggiorativa rispetto le
previsioni del C.C.N.L.

2. Per la cassazione di tale sentenza il P. ha
proposto ricorso affidato a due motivi. Ha resistito con controricorso la soc. S. s.p.a.

3. Il P.G. ha rassegnato le sue conclusioni scritte
chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 25 delle disposizioni
sulla legge in generale, dell’art. 2 d.l. n. 317/87, conv.
in I. n. 398/87 e dell’art. 2077 cod. civ. (art.
360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.).

Si richiama a sostegno del motivo Cass. n. 5021 del
1988 secondo cui il rapporto di lavoro, in quanto costituito da obbligazioni
contrattuali, rientra nella previsione di detta norma ed è quindi disciplinato
dalla legge nazionale dei contraenti, se comune, o in mancanza della legge del
luogo di conclusione del contratto, salva in ogni caso la diversa volontà delle
parti.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per
violazione e falsa applicazione dell’art. 1 C.C.N.L. industria edile e
affini del 19 aprile 2010, violazione e falsa applicazione delle norme
sull’interpretazione dei contratti ex artt. 1362
seguenti cod. civ., degli artt. 5 e 10 legge n. 563 del 1926 e dell’art. 48
del r.d. 1130 del 1926, dell’art. 25 delle
disposizioni sulla legge in generale, dell’art. 2 d.l. n. 317/87, conv.
in I. n. 398/87 (art.
360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.).

Si deduce che il contratto individuale di lavoro era
stato stipulato in Italia tra contraenti italiani ed esso espressamente
richiamava la disciplina C.C.N.L. di categoria; che non sussisteva alcuna
ragione che potesse giustificare un periodo di prova di sei mesi, maggiore
rispetto a quello (di cinque mesi) previsto dalla contrattazione collettiva per
gli impiegati di sesto livello, come il ricorrente; che un’eventuale difficoltà
di inserimento riguarderebbe il dipendente stesso e non il datore di lavoro;
che non vi era alcuna valida giustificazione per la deroga alle previsioni del
C.C.N.L.; che la diversa interpretazione non era avvalorabile neppure alla luce
dell’autorizzazione ministeriale, il cui tenore letterale (“il lavoratore
sosterrà un periodo di prova della durata massima di sei mesi se impiegato o
dirigente e di mesi uno se operaio”) sostanzialmente ripeteva la
previsione del C.C.N.L. secondo cui (art. 42) “l’assunzione può
avvenire con un periodo di prova non superiore a sei mesi per gli impiegati di
prima categoria super, a cinque mesi per gli impiegati di prima categoria, a
tre mesi per gli impiegati di seconda categoria…”. Si conclude nel senso che
la clausola che prevede il termine di sei mesi è da ritenere nulla e sostituita
di diritto dal termine di cinque mesi previsto al C.C.N.L.

3. Il primo motivo è inammissibile, poiché nella
fattispecie non ha alcuna incidenza l’art. 25 delle
preleggi giacché non si pone, per essa, una questione di selezione
dell’ordinamento giuridico da applicarsi al rapporto esistente tra le parti,
che – sorto fra cittadini italiani – ha sola particolare connotazione di avere
esecuzione all’estero.

4. E’ invece fondato e va accolto il secondo motivo,
che verte sull’interpretazione e applicazione del d.l.
31 luglio 1987 n. 317, conv. in I. 3 ottobre
1987, n. 398, recante norme in materia di tutela dei lavoratori italiani
operanti nei Paesi extra-comunitari e di rivalutazione delle pensioni erogate
dai fondi speciali gestiti dall’INPS.

4.1. L’art. 2, di cui si discute,
prevede che, ai fini dell’assunzione o del trasferimento all’estero dei
lavoratori italiani, i datori di lavoro devono presentare richiesta di
autorizzazione al Ministero del lavoro e della previdenza sociale e copia di
detta richiesta deve essere inviata contemporaneamente al Ministero degli
affari esteri; che la domanda di autorizzazione deve essere corredata della
documentazione stabilita con decreto ministeriale; che il Ministero degli
affari esteri accerta, attraverso la rete diplomatico-consolare, che le
condizioni generali nei Paesi di destinazione offrano idonee garanzie alla
sicurezza del lavoratore, portando a conoscenza del Ministero del lavoro e
della previdenza sociale l’esito di tale accertamento; che ulteriori
accertamenti sono condotti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale
ai fini del rilascio dell’autorizzazione e, in particolare, per quanto
interessa nella presente sede, il Ministero accerta che “b) il trattamento
economico-normativo offerto sia complessivamente non inferiore a quello
previsto dai contratti collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria
di appartenenza del lavoratore e sia distintamente prevista l’entità delle
prestazioni in denaro o in natura connesse con lo svolgimento all’estero del
rapporto di lavoro”.

4.2. E’ da rilevare, incidentalmente, che il
successivo d.lgs. 14 settembre
2015 n. 151, all’art. 18, ha disposto l’abrogazione dell’autorizzazione
ministeriale di cui al decreto-legge 31 luglio 1987,
n. 317, convertito, con modificazioni, dalla legge
3 ottobre 1987, n. 398, ed ha sostituito l’articolo 2 con il seguente
«Art. 2 (Condizioni di lavoro dei lavoratori italiani da impiegare o da
trasferire all’estero). – 1. Il contratto di lavoro dei lavoratori italiani da
impiegare o da trasferire all’estero prevede: a) un trattamento economico e
normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti
collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative per la categoria di appartenenza del
lavoratore, e, distintamente, l’entità delle prestazioni in denaro o in natura
connesse con lo svolgimento all’estero del rapporto di lavoro….”.

5. Nel caso in esame, l’assunzione autorizzata dal
Ministero del Lavoro indica che la fattispecie è assoggettata all’applicabilità
della L. 3 ottobre 1987, n. 398 di conversione
del D.L. 31 luglio 1987, n. 317, di talché non
è consentito all’interprete derogare alla prescrizione di legge (cfr. Cass. n. 7041 del 2011). Questa ha chiaramente
statuito che il “trattamento economico- normativo offerto” deve
essere “complessivamente non inferiore a quello previsto dai contratti
collettivi di lavoro vigenti in Italia per la categoria di appartenenza del
lavoratore”.

6. Tutto ciò premesso, giova osservare che
l’istituto di cui si discute (patto di prova) è di carattere normativo e non
economico e non presenta connotati tali da non potere essere applicato allo
stesso modo sia in Italia che nel Paese estero.

6.1. Questa Corte ha già avuto modo di affermare,
con la sentenza n. 8295 del 2000, che la
clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di
prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo
applicabile al rapporto – fermo restando il limite di sei mesi di cui all’art. 10 della legge n. 604 del
1966 – può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare
complessità delle mansioni di cui sia convenuto l’affidamento al lavoratore
renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell’interesse di entrambe
le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti
collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul
datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una
più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova.

6.2. Con tale sentenza questa Corte, proprio
pronunciando in fattispecie in cui il contratto individuale, regolato sia per
parte normativa che per quella economica del C.C.N.L. per il settore edile,
contemplava un periodo di prova di mesi sei laddove il C.C.N.L. prevedeva (art. 42) – come nel caso in
esame, per la qualifica posseduta dal lavoratore – un periodo inferiore, ha
confermato la soluzione del giudice di merito che aveva osservato come tale
minore periodo di tempo fosse stato ritenuto congruo dalle parti sociali in
riferimento all’espletamento della prova del dipendente nello svolgimento delle
mansioni che lo stesso contratto collettivo contemplava per la categoria di
inquadramento e che per sostenerne l’incongruità dello specificato periodo si
sarebbe dovuto dimostrare o che le mansioni svolte dal lavoratore fossero
sussumibili nella più elevata categoria che contemplava il periodo di prova di
sei mesi o perché la particolare complessità delle mansioni da svolgere non
consentissero un valido esperimento nell’interesse di entrambe le parti. Una
volta esclusa la prima ipotesi, per la dimostrazione dell’incongruità del
periodo di prova, tale da consentire un suo prolungamento a livello di
contratto individuale e per ritenere che il prolungamento si risolva in
concreto in una posizione di favore del lavoratore, spetta al datore di lavoro
fornire la relativa prova, poiché è costui che si avvantaggia di un tempo più
lungo per l’esperimento, con una più ampia facoltà di poter licenziare il
dipendente per mancato superamento della prova.

6.3. “Invero, nel vigente ordinamento, il
regime normale del rapporto di lavoro relega nel campo delle ipotesi
eccezionali il patto di prova, tant’è che il legislatore nell’art. 2096 c.c. ha richiesto per quest’ultimo la
forma scritta ad substantiam con la conseguenza che la clausola si deve avere
per non apposta, se manchi la scrittura. L’onere della forma scritta è stato
quindi imposto a tutela del contraente più debole in un regime di sfavore per
il patto di prova, considerato come eccezionale rispetto alle condizioni protettive
assicurate dal contratto a tempo indeterminato specialmente per quanto riguarda
il recesso. Lo sfavore del legislatore verso il patto di prova trova pieno
conforto nell’orientamento di questa Corte secondo cui il lavoratore ha
interesse a che il periodo di prova sia minimo, o comunque non superi il tempo
strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale
(Cass. 5 marzo 1982 n. 1354; Cass.25 ottobre 1993 n. 10587); da ciò discende,
in linea di principio, la nullità dei patti diretti a prolungare la durata
della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali” (sent. cit. in
motivazione).

7. Il Collegio condivide e ribadisce tale soluzione
interpretativa, in quanto la clausola del contratto individuale con cui il
patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla
contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il
lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art.
2077, secondo comma cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in
concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio
gravante sul datore di lavoro.

8. La sentenza va dunque cassata in relazione al
motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa
composizione, la quale provvederà al riesame del merito alla luce dei principi
sopra esposti e anche in ordine al regolamento delle spese del presente
giudizio.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo, inammissibile il primo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per
le spese, alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 maggio 2020, n. 9789
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: