Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 giugno 2020, n. 10415

Procedura di licenziamento collettivo, Cessione d’azienda,
Recesso esercitato nei confronti di un lavoratore occupato obbligatoriamente,
Numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente inferiore alla quota
di riserva, Ipotesi di “violazione dei criteri di scelta”, Applicabilità
della tutela reintegratoria cd. attenuata, Accordo sindacale previsto in sede
di cessione d’azienda non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori
di passare all’impresa cessionaria

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 28
settembre 2018, ha confermato la pronuncia di primo grado che, nell’ambito di
un procedimento ex lege n. 92 del 2012, aveva
ritenuto l’illegittimità del licenziamento intimato in data 31 ottobre 2014 a
E.T. da C.A.I. Spa, all’esito di una procedura di licenziamento collettivo, ed
ordinato a A. – S.A.I. Spa, in qualità di cessionaria del compendio aziendale,
di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, condannando altresì entrambe
le società, in solido, al pagamento di una indennità risarcitoria quantificata
in euro 1.458,31 al mese dal recesso all’effettiva riammissione in servizio,
oltre contributi, accessori e spese.

2. La Corte di Appello ha respinto sia i reclami
proposti distintamente da entrambe le società, sia il reclamo incidentale del
T..

3. In estrema sintesi e per quanto qui ancora
interessa, avuto riguardo al reclamo di C.A.I., la Corte territoriale ha
ritenuto che: la controversia non esulasse dall’ambito di applicazione del rito
di impugnativa dei licenziamenti previsto dalla legge
n. 92 del 2012; risultasse violato l’art. 10, comma 4. I. n. 68 del 1999
perché, al momento della cessazione del rapporto, il recesso esercitato nei
confronti di un lavoratore occupato obbligatoriamente era viziato in quanto il
numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente era inferiore alla
quota di riserva, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria cd.
attenuata.

4. Per quanto riguarda, invece, il reclamo di
S.A.I., la Corte ha innanzitutto confermato che l’impugnativa stragiudiziale
del licenziamento intimato dalla società in data 31.10.2014 risultava pervenuta
entro il termine prescritto di 60 giorni nei confronti di CAI Spa, non dovendo
essere impugnato anche nei confronti della cessionaria SAI subentrata solo a
partire dal 1° gennaio 2015.

Pertanto, annullato il licenziamento impugnato con
effetti rispristinatori del rapporto nei confronti della cedente C.A.I., il
rapporto di lavoro, ricostituito ex tunc con l’impresa cedente, doveva
trasferirsi all’impresa cessionaria S.A.I., “non essendo opponibile da parte
di quest’ultima l’esclusione prevista dagli accordi sindacali conclusi
nell’ambito della procedura di cessione di azienda per i lavoratori non facenti
parte degli appositi elenchi”, pur in presenza di uno stato di crisi
aziendale.

In particolare, la Corte ha ritenuto di dover
interpretare in senso conforme al diritto dell’Unione il comma 4 bis dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990,
così come successivamente modificato, nel senso che l’accordo sindacale ivi
previsto non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare
all’impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche delle condizioni di lavoro
al fine del mantenimento dei livelli occupazionali.

5. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
distinti ricorsi prima A. S.A.I. Spa, con tre motivi, e poi C.A.I. Spa, con un
motivo; ha resistito con controricorso il lavoratore. Entrambe le società hanno
depositato memorie.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con l’unico motivo del ricorso C.A.I. si denuncia
“violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 4, legge n. 68/1999
e dell’art. 3, comma 5, legge n.
68/1999”, argomentando che la società beneficiava della sospensione
degli obblighi occupazionali, per cui – secondo la tesi esposta – non era
tenuta a rispettare la quota di riserva.

1.1. L’art.
10, co. 4, I. n. 68 del 1999, espressamente prevede: “Il recesso di
cui all’articolo 4, comma 9,
della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione
di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del
lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento
della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati
obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente
legge”.

Come affermato da questa Corte (Cass. n. 12911 del 2017) “la ratio della
norma, nel quadro delle azioni di <promozione dell’inserimento e della
integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro di cui alle
finalità espresse dall’art. 1,
co. 1, I. n. 68/99, è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti
individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa
superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di
personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in
conformità ad un obbligo di legge. Il divieto è in parte compensato dalla sospensione
degli obblighi di assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di
integrazione salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilità
previste dalla legge n. 223 del 1991, così come
disposto dall’art. 3, co. 5, I.
n. 223 del 1991, sicché in caso di crisi l’impresa è esonerata
dall’assumere nuovi invalidi, ma non può coinvolgere quelli già assunti in
recessi connessi a ragioni di riduzione del personale, ove ciò venga ad
incidere sulle quote di riserva” (conf., in motivazione, Cass. n. 26029 del 2019).

Pertanto, la sospensione degli obblighi di
assunzione consente all’azienda di non assumere lavoratori per mantenere o per
reintegrare la quota obbligatoria prevista dalla legge e, quindi, di trovarsi
legittimamente al di sotto della quota di riserva, senza però per questo
legittimarla ad effettuare licenziamenti nell’ambito dei lavoratori disabili.

1.2. Inoltre, con le sentenze già citate, questa
Corte, in punto di apparato sanzionatorio, ha affermato il principio, da cui
non vi è ragione di discostarsi, secondo cui: “Nel caso di licenziamento
collettivo, la violazione della quota di riserva prescritta dall’art. 3 della I. n. 68 del 1999
rientra nell’ipotesi di <<violazione dei criteri di scelta>> in
quanto assunti in contrasto con espressa previsione legale, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della I. n. 223
del 1991, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st. lav.
novellato, quale opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e
conforme alla finalità della disciplina – anche sovranazionale – in materia,
posta a speciale protezione del disabile”.

2. Con il primo motivo di ricorso A. S.A.I. denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 32 I. n. 183 del 2010, 2112 c.c. e 6 I. n. 604 del 1966 per avere
la Corte territoriale respinto l’eccezione di decadenza formulata dalla società
a mente di dette disposizioni.

Si eccepisce che il licenziamento intimato da CAI in
data 30.10.2014 era stato impugnato dal lavoratore solo nei confronti della
stessa CAI con lettera del 16.2.2014 e non nei confronti di A. SAI cessionaria
d’azienda, se non con tardiva missiva del 13 febbraio 2015; che comunque il
trasferimento d’azienda era avvenuto il 1° gennaio 2015 per cui “da tale
data il lavoratore avrebbe dovuto contestare la mancata cessione del proprio
contratto e rivendicare la prosecuzione del rapporto di lavoro con la
cessionaria A.”, ai sensi dell’art. 32, co. 4, n. 3, I. n. 183 del
2010.

2.1. La censura è infondata, sia con riferimento
alla lett. c) sia con riferimento alla lett. d) dell’art. 32, quarto comma, legge n. 183
del 2010.

Secondo recenti pronunce di questa Corte,
nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, la domanda del lavoratore volta
all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario
non è soggetta a termini di decadenza, perché non vi è alcun onere di far
accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione
del rapporto di lavoro, in particolare applicandosi l’art. 32, comma 4, lett. c), della I.
n. 183 del 2010, ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda
impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità (cfr. Cass. n. 9469 del 2019; Cass. n. 13648 del 2019).

A fortiori non risulta applicabile la lettera d)
dello stesso art. 32, comma 4,
della I. n. 183 del 2010, la quale comunque postula l’invocazione della
illegittimità o invalidità di atti posti in essere da un datore di lavoro solo
formale in fenomeni dal carattere propriamente interpositorio e trattandosi di
norma di chiusura di carattere eccezionale, non suscettibile, pertanto, di
disciplinare la fattispecie di cui all’art. 2112
c.c. già contemplata dalla lettera precedente (Cass.
n. 28750 del 2019; v. pure Cass. n. 13179 del 2017; conf. Cass. n. 4883 del 2020).

Nel caso in esame, l’azione era proprio diretta a
fare accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con il cessionario e non a
contestare la legittimità o validità di un trasferimento del rapporto di lavoro
già disposto nei suoi confronti.

3. Con il secondo motivo A. SAI denuncia
“violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 47, I. n. 92/2012”
per avere i giudici d’appello ritenuto applicabile il rito cd.
“Fornero” anche ad una controversia in cui occorreva accertare anche
la continuità del rapporto di lavoro con una cessionaria d’azienda.

3.1. Il motivo non può trovare accoglimento.

Resta fermo il principio elaborato dalla
giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, nell’ambito della cognizione
con il rito speciale previsto dall’art.
1, comma 48, della I. n. 92 del 2012, rientrano tutte le questioni che
“il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione
di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del
licenziamento” (Cass. n. 21959 del 2018;
cfr. pure, in motivazione, Cass. n. 12094 del 2016).

Si è cosi affermato che nel rito speciale previsto
dalla legge n. 92 del 2012, rientra
nell’ambito di applicazione di cui all’art. 1, comma 47, della stessa
legge anche la domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal
formale datore di lavoro, di cui si chiede di accertare la effettiva titolarità
del rapporto, dovendo il giudice individuare la fattispecie secondo il canone
della prospettazione, con il solo limite di quelle artificiose, sicché, una
volta azionata dal lavoratore una impugnativa di licenziamento postulando
l’applicabilità delle tutele previste dall’art. 18 dello Statuto, il
procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza
delle allegazioni, senza che la veste formale assunta dalle relazioni
giuridiche tra le parti ne possa precludere l’accesso, (v. Cass. n. 17775 del
2016 e Cass. n. 29889 del 2019; sull’accertamento
della subordinazione v. Cass. n. 186 del 2019).

Nella specie la domanda proposta nei confronti di A.
SAI s.p.a. è strettamente connessa a quella proposta nei confronti di A. CAI e
dipendente dall’impugnativa del licenziamento. Pertanto, secondo l’orientamento
interpretativo sopra richiamato, una volta che il lavoratore svolge
un’impugnativa di licenziamento postulando l’applicabilità delle tutela di cui
all’art. 18 legge n. 300 del
1970 trova applicazione il rito speciale, a prescindere dalla fondatezza
della allegazioni e a prescindere dalla posizione processuale delle parti
convenute e dalla posizione dalle stesse assunta nelle relazioni giuridiche
sottostanti al rapporto dedotto in giudizio. Anche la questione della
titolarità sul lato passivo del rapporto obbligatorio conseguente alla
dichiarazione di illegittimità del licenziamento è questione di merito che non
incide sul rito applicabile, ma solo sulla fondatezza della domanda.

3.2. Inoltre la sentenza già richiamata (Cass. n. 12094/2016) ha ribadito che
“l’error in procedendo rileva nei limiti in cui determini la
<<nullità della sentenza o del procedimento>> a mente dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c.”, per cui,
secondo giurisprudenza costante di questa Corte, “l’inesattezza del rito
non determina di per sé la nullità della sentenza”.

La violazione della disciplina sul rito assume
rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la
parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole
dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile
lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle
prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass.
SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015).
Perché la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la
parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse
alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente
subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perché
l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma
soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa,
sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.

Nel motivo in esame parte ricorrente non specifica
adeguatamente il pregiudizio processuale che avrebbe determinato l’adozione di
un rito diverso da quello ordinario.

4. Con il terzo mezzo si denuncia “Violazione e
falsa applicazione dell’art. 47, comma 4-bis, I. n.
428/1990 nonché degli accordi collettivi” intervenuti nell’ambito di
una situazione di crisi aziendale in deroga all’art.
2112 c.c., criticando diffusamente l’interpretazione offerta dai giudici
del merito della disposizione innanzi richiamata.

Il motivo investe l’interpretazione e la portata
applicativa dell’art. 47, comma
4-bis, I. 29 dicembre 1990, n. 428, introdotto dall’art. 19-quater del d.l. 25 settembre
2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi
comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle
Comunità europee), conv. in I. 20 novembre 2009,
n. 166, “al fine di dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa
dalla Corte di giustizia delle Comunità europee
l’11 giugno 2009 nella causa C- 561/07”, la quale aveva affermato che,
con i commi 5 e 6 dell’art. 47
della legge n. 428 del 1990, la “Repubblica italiana è venuta meno
agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva”
2001/23/CE.

4.1. Tale Direttiva, per quanto qui interessa,
prevede agli artt. 3 e 4
regole generali, cui non è consentito derogare in senso sfavorevole ai
lavoratori da parte degli Stati membri, al fine di assicurare il mantenimento
dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa.

In particolare: “I diritti e gli obblighi che
risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro
esistente alla data del trasferimento sono, in conseguenza di tale
trasferimento, trasferiti al cessionario” (art. 3, par. 1); ”Dopo il
trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute
mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il
cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto
collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto
collettivo. Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle
condizioni di lavoro, purché esso non sia inferiore ad un anno” (art. 3, par. 3); “Il
trasferimento di un’impresa, di uno stabilimento o di una parte di impresa o di
stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del
cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver
luogo per motivi economici, tecnici o d’organizzazione che comportano
variazioni sul piano dell’occupazione” (art. 4, par. 1).

Le regole volte a garantire il mantenimento dei
diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo
loro di restare al servizio del nuovo datore di lavoro alle stesse condizioni
pattuite con il cedente, (cfr., tra le altre, CGUE, 15 settembre 2010, Briot, C
386/09, punto 26 e giurisprudenza citata), possono essere derogate dalle
legislazioni nazionali nei soli casi espressamente previsti dall’art. 5 della Direttiva
2001/23/CE.

La prima deroga è contenuta nel paragrafo 1 dell’art. 5: “A meno che
gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3 e 4 non si applicano
ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di
stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura
fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della
liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo
di un’autorità pubblica competente (che può essere il curatore fallimentare
autorizzato da un’autorità pubblica competente)”.

Il successivo paragrafo 2 dell’art. 5 contiene la seconda
deroga: “Quando gli articoli
3 e 4 si applicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di
insolvenza aperta nei confronti del cedente (indipendentemente dal fatto che la
procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente
stesso) e a condizione che tali procedure siano sotto il controllo di
un’autorità pubblica competente (che può essere un curatore fallimentare
determinato dal diritto nazionale), uno Stato membro può disporre che: a)
nonostante l’articolo 3,
paragrafo 1, gli obblighi del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da
un rapporto di lavoro e pagabili prima dei trasferimento o prima dell’apertura
della procedura di insolvenza non siano trasferiti al cessionario, a condizione
che tali procedure diano adito, in virtù della legislazione dello Stato membro,
ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni
contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del
Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati
in caso di insolvenza del datore di lavoro; e/o b) il cessionario, il cedente o
la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da un lato, e i
rappresentanti dei lavoratori, dall’altro, possano convenire, nella misura in
cui la legislazione o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle
condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità
occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, dello stabilimento o di
parti di imprese o di stabilimenti”.

Una terza deroga è contenuta nel paragrafo 3 dell’art. 5, secondo cui:
“Uno Stato membro ha facoltà di applicare il paragrafo 2, lettera b), a
trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica
quale definita dal diritto nazionale, purché tale situazione sia dichiarata da
un’autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a
condizione che tali disposizioni fossero già vigenti nel diritto nazionale il
17 luglio 1998”.

4.2. Nella originaria versione l’art. 47 della predetta legge n. 428
del 1990 stabiliva, al comma 5, una disciplina speciale tanto per le
aziende o unità produttive per le quali fosse stato accertato “lo stato di
crisi aziendale a norma dell’art.
2, quinto comma, lettera c) della legge 12 agosto 1977, n. 675” quanto
per le imprese nei cui confronti fossero in atto procedure concorsuali
liquidative nel corso delle quali la continuazione dell’attività non fosse
stata disposta o fosse cessata (testualmente: “imprese nei confronti delle
quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato
preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di
liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione ad amministrazione
straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata
disposta o sia cessata”).

Secondo il comma 5 dell’epoca, in presenza di tali
ipotesi, ove nel corso delle consultazioni sindacali “sia stato raggiunto
un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione”,
“ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non
trova applicazione l’art. 2112 c.c., salvo che
dall’accordo risultino condizioni di miglior favore”.

4.3. Come è noto, su richiesta della Commissione
delle Comunità europee, la Corte di Giustizia (sent.
11.6.2009, C-561/07), all’esito della procedura di infrazione, ha affermato
che, mantenendo in vigore le disposizioni di cui all’art. 47, commi 5 e 6, della I. n.
428 del 1990, in caso di “crisi aziendale” a norma dell’art. 2, quinto comma, lett. c),
della legge n. 675 del 1977, la Repubblica italiana è venuta meno agli
obblighi si di essa incombenti in forza della Direttiva
2001/23/CE.

Con tale sentenza, per quanto di rilievo nella
presente sede, è stato affermato che “il fatto che un’impresa sia
dichiarata in situazione di crisi ai sensi della legge
675/1977 non può implicare necessariamente e sistematicamente variazioni
sul piano dell’occupazione ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva
2001/23”; “la procedura di accertamento dello stato di crisi
aziendale non può necessariamente e sistematicamente rappresentare un motivo
economico, tecnico o d’organizzazione che comporti variazioni sul piano
dell’occupazione ai sensi dell’art.4, n. 1, della suddetta
direttiva”. Dunque, lo stato di crisi aziendale non costituisce in sé
motivo economico per riduzione dell’occupazione, né costituisce in sé ragione
di deroga al principio generale secondo cui il trasferimento di un’impresa o di
parte di essa non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o
del cessionario, dovendo i licenziamenti essere giustificati da motivi
economici, tecnici o d’organizzazione (punto 36).

Secondo la CGUE, l’art. 5, n. 2, lett. a), della
Direttiva 2001/23 consente agli Stati membri, a determinate condizioni, di
non applicare talune delle garanzie di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva
stessa a un trasferimento di impresa laddove sia “aperta una procedura di
insolvenza” e laddove “questa si trovi sotto il controllo di
un’autorità pubblica competente”; diversamente, nel caso di trasferimento
di un’impresa oggetto della procedura di accertamento dello stato di crisi, il
procedimento “mira a favorire la prosecuzione dell’attività dell’impresa
nella prospettiva di una futura ripresa, non implica alcun controllo
giudiziario o provvedimento di amministrazione del patrimonio dell’impresa e
non prevede nessuna sospensione dei pagamenti”; il CIPI si limita a
dichiarare lo stato di crisi di un’impresa e tale dichiarazione consente all’impresa
di beneficiare temporaneamente della CIGS. Ne discende che “non può
ritenersi che la procedura di accertamento dello stato di crisi aziendale sia
tesa ad un fine analogo a quello perseguito nell’ambito di una procedura di
insolvenza…” (punti da 38 a 42).

E’ stato inoltre chiarito come, “ammesso che la
situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di crisi possa
essere considerata come costituente una situazione di grave crisi
economica”, l’art. 5,
n. 3, della Direttiva 2001/23 autorizzi gli Stati membri a prevedere che
“le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le
opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza
tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della direttiva
2001/23” (punto 44).

Inoltre, secondo la sentenza in esame,
“l’applicazione dell’art.
5, n. 3, della direttiva 2001/23 è subordinata alla possibilità del
controllo giudiziario della procedura in questione” ed il diritto delle
parti di adire l’autorità giudiziaria competente nell’ipotesi di mancato
rispetto della procedura prevista “non può essere considerato come
costitutivo del controllo giudiziario previsto dall’articolo citato, dal
momento che quest’ultimo presuppone un controllo costante dell’impresa
dichiarata in situazione di grave crisi economica da parte del giudice competente”
(punto 45).

4.4. Alla stregua di tale ricognizione, la Corte di
giustizia ha chiaramente distinto, agli effetti dell’interpretazione delle
deroghe alle garanzie previste dagli artt. 3 e 4 della Direttiva,
“la situazione dell’impresa di cui sia stato accertato lo stato di
crisi”, il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell’attività
dell’impresa nella prospettiva di una futura ripresa, rispetto alla situazione
di imprese nei cui confronti siano in atto procedure concorsuali liquidative,
rispetto alle quali la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia
cessata.

Per la prima categoria di imprese – alveo in cui è
riconducibile la vicenda oggetto del presente giudizio, come è pacifico in
giudizio e neppure controverso tra le parti – l’art. 5, paragrafo 2,
lettera b), così come richiamato dal paragrafo 3 della Direttiva 2001/23,
autorizza gli Stati membri a prevedere che possano essere modificate “le
condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità
occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa”, ma – secondo la
Corte di Giustizia – “senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro
garantiti dagli artt. 3 e 4
della direttiva 2001/23”.

Alla luce di tale bipartizione della disciplina e
degli effetti, l’art. 47, comma
5, della I. n. 428 del 1990 è stato giudicato in contrasto con i principi
della direttiva, in quanto priva “puramente e semplicemente” i
lavoratori, in caso trasferimento di un’impresa di cui sia stato accertato lo
stato di crisi, della garanzie previste dagli artt. 3 e 4 delle direttiva
e “non si limita, di conseguenza, ad una modifica delle condizioni di
lavoro, quale è autorizzata dall’art. 5 n. 3 delle
direttiva” (punto 45 della sentenza).

Quanto poi a cosa debba intendersi come
“condizioni di lavoro”, la Corte di Giustizia ha nell’occasione ben
precisato che esse non possono riguardare il diritto del lavoratore al
trasferimento. “Poiché le norme della direttiva sono imperative nel senso
che non è consentito derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori, i diritti e
gli obblighi in capo al cedente risultanti da un contratto collettivo in essere
alla data del trasferimento si trasmettono ipso iure al cessionario per il solo
fatto del trasferimento (sentenza 9 marzo 2006, causa C-499-04, Werhof, punti
26 e 27). Ne discende che la modifica delle condizioni di lavoro autorizzata
dall’art. 5, n. 3, della
direttiva 2001/23 presuppone che il trasferimento al cessionario dei
diritti dei lavoratori abbia già avuto luogo” (punto 46).

4.5. In base alle riferite indicazioni ermeneutiche,
va condotta la lettura delle modifiche apportate all’art. 47 della I. n. 428 del 1990
dal d.l. n. 135 del 2009, conv. in I. n. 166 del 2009, che, con l’art. 19-quater, ha inserito,
dopo il comma 4, il seguente comma 4-bis: “Nel caso in cui sia stato
raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione,
l’articolo 2112 del codice civile trova
applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo
qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato
lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera
c), della legge 12 agosto 1977, n.675; b) per le quali sia stata disposta
l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto
legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata
cessazione dell’attività”.

Il comma 4-bis è inserito proprio “al fine di
dare esecuzione alla sentenza di condanna emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee l’11 giugno
2009 nella causa C-561/07”, tanto che il medesimo art. 19-quater, comma 1, lett.
b) ha previsto la soppressione, al comma 5 dell’art. 47, delle parole:
“aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato
di crisi aziendale a norma dell’articolo
2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675”, con
il contestuale inserimento delle aziende “delle quali sia stato accertato
lo stato di crisi aziendale”, a norma di detta I.
n. 675 del 1977, nella lettera a) del comma di nuovo conio; quindi il comma
4-bis appare destinato alle procedure non liquidative a differenza del comma 5
che invece presuppone la cessazione dell’attività d’impresa o, comunque, la sua
non continuazione, in simmetria con le deroghe consentite rispettivamente dal
paragrafo 2 e dal paragrafo 1 dell’art. 5 della Direttiva
2001/23/CE.

La diversità dei casi disciplinati dai due commi in
successione non consente di attribuire all’inciso contenuto in entrambi –
“nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche
parziale dell’occupazione” – la medesima valenza semantica, altrimenti non
si registrerebbe alcuna differenza tra le ipotesi previste dal comma 4 bis e
quelle del comma 5, in contrasto con la ratio della Direttiva e con l’esigenza
manifesta di prestare ottemperanza alla condanna della Corte di Giustizia del
2009. Pertanto non si può estrapolare l’inciso “anche parziale” per
accreditare l’ipotesi che l’accordo sindacale possa disporre, in senso
limitativo, dei trasferimenti dei lavoratori dell’impresa cedente, ove si
tratti di azienda rientrante nell’ipotesi di cui al comma 4- bis. La suddetta
complessiva locuzione esprime piuttosto il contesto di riferimento ed, essendo
presente sia nel comma 4-bis sia nel comma 5, risulta in sé non decisiva ai
fini interpretativi, laddove il senso qui avversato ponga problemi di
conformità al diritto dell’Unione.

Assume invece centralità dirimente l’espressione, di
cui al comma 4-bis, secondo cui “trova applicazione” l’art. 2112 c.c., diametralmente opposta a quella
contenuta nel comma 5, secondo cui “non trova applicazione” l’art. 2112 c.c.

Nel contesto del comma 5 dell’art. 47, in caso di
trasferimento di imprese o parti di imprese il cui cedente sia oggetto di una
procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista
della liquidazione dei beni del cedente stesso, il principio generale è (per i
lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle
tutele di cui all’art. 2112 c.c., salvo che
l’accordo preveda condizioni di miglior favore; la regola è dunque
l’inapplicabilità, salvo deroghe.

Al contrario, nel comma 4-bis la regola è di ordine
positivo (“trova applicazione”), per cui la specificazione “nei
termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo” non può avere
un significato sostanzialmente equivalente – con sovrapposizione di effetti – rispetto
al comma 5, se non contraddicendo la ratio sottesa alla diversità testuale
delle previsioni.

L’unica lettura coerente della legge risulta quella
che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia, nel senso
che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei
confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei
beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento
di impresa. Tanto vero che solo nel comma 5 dell’art. 47, “nel caso in cui
la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”, è
previsto che gli accordi possano stabilire la non applicazione dell’art. 2112 c.c. “… ai lavoratori il cui
rapporto di lavoro continua con l’acquirente…” (con il che ammettendo
esplicitamente che vi siano rapporti di lavoro che non continuano con
l’acquirente), mentre espressioni analoghe, che alludano alla possibilità
dell’accordo di limitare il trasferimento dei lavoratori dell’azienda cedente,
non si rinvengono nel comma 4-bis, al di fuori del già detto inciso di esordio
circa il mantenimento “anche parziale” dell’occupazione. Né l’assenza
di tale previsione può essere recuperata – in contrasto con il criterio
logico-sistematico e con l’intenzione del legislatore di dare attuazione alla
sentenza della Corte di Giustizia – attraverso la specificazione “nei
termini e con le limitazioni previste dall’accordo”, accordo che deve
riguardare “le condizioni di lavoro” ma non la continuità dei
rapporti di lavoro con la cessionaria.

Come detto, infatti, l’art. 5, n. 3, della
Direttiva, che richiama il paragrafo 2, lettera b) dello stesso art. 5, autorizza gli Stati
membri a prevedere, secondo la lettura offerta dalla Corte di Giustizia, che
“le condizioni di lavoro possano essere modificate per salvaguardare le
opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa, senza
tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt.3 e 4 della direttiva
2001/23”.

4.6. Deve ritenersi, dunque, che, a fronte di
espressioni generiche, le quali possano condurre a risultati interpretativi
diversi, deve essere privilegiato il significato conforme al diritto
dell’Unione e alla interpretazione che dello stesso fornisce la CGUE, che,
peraltro, nel caso di specie è anche più coerente con l’interpretazione
logicosistematica e con la voluntas legis, per cui l’accordo con le
organizzazioni sindacali raggiunto ai sensi del comma 4-bis dell’art. 47 legge n. 428 del 1990,
a differenza di quello raggiunto ai sensi del comma 5 dello stesso articolo,
non consente di incidere sulla continuità del rapporto di lavoro, in quanto la
deroga all’art. 2112 c.c. cui il comma 4-bis si
riferisce può riguardare esclusivamente le “condizioni di lavoro”,
nel contesto di un rapporto di lavoro comunque trasferito.

4.7. Ulteriori elementi testuali portano ad
escludere la possibilità che l’accordo sindacale di cui al comma 4-bis possa
disporre in senso limitativo del diritto al trasferimento dei rapporti di
lavoro. Infatti solo il comma 5, ultima parte, dell’art. 47 contempla l’ipotesi che
l’accordo sindacale possa “prevedere che il trasferimento non riguardi il
personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in
parte, alle dipendenze dell’alienante il successivo comma 6 prevede poi, per i
lavoratori non destinatari del trasferimento alle dipendenze dell’acquirente,
il diritto di precedenza nelle assunzioni che l’acquirente intendesse
effettuare entro un anno dalla data del trasferimento ovvero entro il periodo
maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Trova così conferma, anche per
questo verso, che il legislatore ha inteso limitare ai soli casi di procedure
concorsuali liquidative nel corso della quali non sia stata disposta o sia
cessata l’attività la deroga al generale principio della continuità dei
rapporti di lavoro di tutti i dipendenti addetti all’azienda trasferita,
consentendo ai sindacati di concordare il numero dei lavoratori il cui rapporto
prosegua con l’acquirente e prevedendo, al contempo, che vi siano lavoratori
eccedentari esclusi dal trasferimento che restano alle dipendenze
dell’acquirente. Ritenere che anche il comma 4-bis consenta tale eventualità,
da parte dell’accordo sindacale, di derogare al principio di continuità,
costituirebbe una indebita estensione interpretativa di una previsione
testualmente riferita alle ipotesi disciplinate dal comma 5.

In definitiva, il comma 4-bis ammette solo modifiche,
eventualmente anche in peius, all’assetto economico-normativo in precedenza
acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che consenta
anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all’impresa cessionaria.

4.8. Ai fini interpretativi e come ulteriore avallo
della soluzione accolta, giova anche richiamare la recente sentenza del 16
maggio 2019 – C-509/17 – con cui la CGUE ha ribadito che, poiché l’articolo 5, paragrafo 1, della
Direttiva 2001/23 rende, in linea di principio, inapplicabile il regime di
tutela dei lavoratori in determinati casi di trasferimento di imprese e si
discosta dall’obiettivo principale alla base di tale direttiva, esso deve
necessariamente essere oggetto di una interpretazione restrittiva (punto 38,
che richiama la sentenza del 22 giugno 2017,
Federatie Nederlandse Vakvereniging C-126/16, punto 41).

A tale riguardo, la Corte di Lussemburgo ha
dichiarato che l’art. 5,
par. 1, richiede che il trasferimento soddisfi i tre requisiti cumulativi
fissati dalla citata disposizione, vale a dire che il cedente sia oggetto di
una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga, che questa
procedura sia stata aperta al fine di liquidare i beni del cedente e che si
svolga sotto il controllo di un’autorità pubblica competente (punto 40, nonché sentenza del 22 giugno 2017, cit., punto 44). Per
quanto riguarda il requisito secondo il quale la procedura deve essere aperta
ai fini della liquidazione dei beni del cedente, non soddisfa tale requisito
una procedura che miri al proseguimento dell’attività dell’impresa interessata
(punto 44, che richiama la predetta sentenza dal 22 giugno 2017, punto 47 e la
giurisprudenza ivi citata). Ove non ricorrano tali condizioni, gli articoli 3 e 4 della Direttiva
2001/23 restano applicabili.

Esaminando dunque il caso della legislazione belga,
secondo cui il concessionario ha il diritto di scegliere i lavoratori che
intende riassumere, la Corte ha concluso che la Direttiva 2001/23/CE, e segnatamente
gli articoli da 3 a 5,
deve essere interpretata nel senso che osta ad una legislazione nazionale, la
quale, in caso di trasferimento di un’impresa intervenuto nell’ambito di una
procedura di riorganizzazione giudiziale mediante trasferimento soggetto a
controllo giudiziario, applicata al fine di conservare in tutto o in parte
l’impresa cedente o le sue attività, prevede, per il cessionario, il diritto di
scegliere i lavoratori che intende riassumere.

4.9. Alla stregua di tutte le argomentazioni
esposte, deve escludersi che si versi in una situazione di impossibilità di
procedere ad una interpretazione della norma interna compatibile con quella
dell’Unione, essendo il rinvio pregiudiziale non necessario quando -come nella
specie- l’interpretazione della norma comunitaria sia autoevidente o il senso
della stessa sia stato già chiarito da precedenti pronunce della Corte di
giustizia (Cass., sez. un., 24 maggio 2007, n. 12067; v. pure Cass. n. 15041
del 2017 e n. 14828 del 2018) e la norma interna sia tale da potere essere
interpretata in conformità al diritto dell’Unione.

L’obbligo di interpretazione conforme impone di
ritenere che il legislatore del 2009, attraverso il comma 4-bis, abbia inteso
riconoscere alle parti negoziali la possibilità di derogare all’art. 2112 c.c., ma che tale deroga contenga un
limite implicito, costituito dalle norme della Direttiva
2001/23/CE nonché dai criteri interpretativi e dai principi fissati dalla
Corte di Giustizia.

4.10. Da ultimo rileva il Collegio che il d. Igs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice
della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”; G.U. n. 38
del 14.2.2019, che entrerà in vigore il 1°.9.2021) all’art. 368, comma 4, lett. b), ha
disposto la sostituzione del comma 4-bis con il seguente: «4-bis. Nel caso in
cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso delle consultazioni di cui ai
precedenti commi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile, fermo il
trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per
quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni
previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso i contratti
collettivi di cui all’articolo 51
del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, qualora il trasferimento
riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura
della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai
sensi dell’articolo 84, comma 2, dei codice della
crisi e dell’insolvenza, con trasferimento di azienda successivo
all’apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l’omologazione
degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gii accordi non hanno
carattere liquidatorio; c) per le quali è stata disposta l’amministrazione
straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8
luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione
dell’attività».

Il medesimo articolo 368, al comma 4, lett.
c), ha disposto la sostituzione del comma 5 dell’art. 47 con il seguente: «5.
Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia
stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo
liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta
amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata
disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario.
Tuttavia, in tali ipotesi, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti
commi, possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia
dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi dell’articolo 51 del decreto legislativo
15 giugno 2015, n. 81, in deroga all’articolo
2112, commi 1, 3 e 4, del codice civile; resta altresì salva la possibilità
di accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di
lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’articolo
2113, ultimo comma del codice civile.».

Il legislatore del Codice della crisi, espunto
l’equivoco inciso precedente sul “mantenimento anche parziale
dell’occupazione” e ribadito come “fermo il trasferimento al
cessionario dei rapporti di lavoro”, ha così più esplicitamente inteso
recepire, meglio conformando il futuro dettato normativo, l’unica lettura del
comma 4- bis che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche
per il passato, quale unica “interpretazione conforme” al diritto
dell’Unione, per cui va respinta la tesi, sostenuta in giudizio da A. SAI,
secondo cui la disciplina citata avrebbe carattere radicalmente innovativo.

4.11. Infine opportuno evidenziare che per la prima
volta giunge all’attenzione di questa Corte l’interpretazione del comma 4-bis
dell’art. 47 legge n. 428 del
1990, per cui non può assumere rilievo il richiamo, negli atti di giudizio
della società cessionaria, alle sentenze di questa Corte (Cass. n. 1383 del 2018 e le precedenti ivi
richiamate, così come le successive Cass. nn. 5370,
7061 e 31946 del
2019) che hanno riguardato l’interpretazione del comma 5 del medesimo art. 47.

4.12. La Corte di appello con la sentenza impugnata
ha adottato una soluzione in linea con l’interpretazione qui accolta e quindi
resta immune dalla censure che le sono state mosse.

In ogni caso, ai sensi del primo comma dell’art. 384 c.p.c., venendo risolta una questione di
diritto di particolare importanza, in funzione nomofilattica va enunciato il
seguente principio di diritto:

“In caso di trasferimento che riguardi aziende
delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera
c), della legge 12 agosto 1977, n.675, ovvero per le quali sia stata
disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata
cessazione dell’attività, ai sensi del decreto
legislativo 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui all’art. 47 della I. 29 dicembre 1990,
n. 428, comma 4-bis, inserito dal d.l. n. 135
del 2009, conv. in I. n. 166 del 2009, può
prevedere deroghe all’art. 2112 c.c.
concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei
rapporti di lavoro al cessionario”.

5. Conclusivamente i ricorsi delle società vanno
respinti, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo,
con attribuzione agli Avvocati T. e M. dichiaratisi antistatari.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali di cui all’art.
13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna e condanna le
ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00,
oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%,
con attribuzione.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 giugno 2020, n. 10415
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