Giurisprudenza – TRIBUNALE DI ROMA – Ordinanza 03 gennaio 2020, n. 61

Disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti, Tutela per ipotesi specificate di vizi formali e procedurali
del licenziamento, Meccanismo di determinazione dell’indennità spettante al
lavoratore., D.Lgs. 4 marzo 2015,
n. 23, art. 4.

 

Osserva

 

Il giudicante, all’esito dell’istruttoria svolta,
ritiene, allo stato quanto segue per quanto attiene alla sollevanda questione.

In punto di rilevanza.

Dagli atti di causa (contratto di lavoro, Unilav,
buste paga) risulta che la ricorrente ha lavorato alle dipendenze della I. come
socia lavoratrice dipendente dal 13 luglio 2017 al 31 agosto 2017, quando è
stata licenziata per asserita giusta causa, come aiuto cuoca. Il rapporto era a
tempo determinato ed avrebbe dovuto scadere il 30 settembre 2017.

Malgrado la I. non abbia propriamente documentato
l’instaurazione del rapporto sociale, il contratto individuale di lavoro, sottoscritto
dalla ricorrente, dava atto del fatto, che risulta così confessato, che questa
aveva presentato il 6 luglio 2017 domanda di ammissione a socio e versato la
quota sociale, il che conferma il carattere socio-lavorativo della
collaborazione.

Le allegazioni e le offerte di prova della
ricorrente volte a dimostrare la simulazione del rapporto sociale non appaiono
idonee allo scopo, posto che in un rapporto durato meno di due mesi è del tutto
naturale che la ricorrente non abbia mai partecipato ad un’assemblea e non vi
sia stata convocata e non abbia ricevuto rendiconti. Peraltro la questione
appare irrilevante perché dall’entrata in vigore della legge n. 142/2001, nel rapporto socio-lavorativo
dipendente, il rapporto di lavoro, ancorché collegato al rapporto sociale, non
costituisce esecuzione di questo, ma forma oggetto di un rapporto «ulteriore» (art. 1, comma 3); gode dei
diritti fondamentali del lavoro dipendente (art. 3) peraltro nella specie
riconosciuti dal contratto; ed è protetto contro il licenziamento illegittimo,
malgrado con talune limitazioni riguardo alla tutela reale (art. 2, comma 1).

E’ documentato che in epoca precedente la ricorrente
aveva ricevuto da una società denominata S.S., avente sede a via C. n. 6, il 9
giugno 2017, la somma di euro 315,00 lordi per prestazione occasionale di
allestimento locali resa nel mese di aprile 2017; ed il 10 luglio 2017 la somma
di euro 960,00 lordi per prestazione occasionate di allestimento locali resa
nel mese di giugno 2017.

Il teste A.M., compagno di lunga data della
ricorrente, che ha fatto causa all’I. ed ha conciliato, ha riferito (in
sintesi): di aver lavorato alle dipendenze della I. per circa due mesi dal
luglio all’agosto del 2017, quando è stato licenziato I. a costei; che la
ricorrente lavorava già nella casa di riposo di via C., ed a suo dire, da fine
marzo; di aver fatto il colloquio preassuntivo con la A., che sembrava operare
come direttrice della struttura, e che peraltro, di lì a poco, uscì di scena,
perché le subentrò il figlio D.I.; che la ricorrente faceva la cuoca alla pari
con lui ed il figlio R.A.

Il teste S.A., apparentemente imparziale, ha
riferito (in sintesi): di aver reso per la S. S.r.l. una prestazione
occasionale di circa venti giorni nell’aprile 2017, a via C., in
amministrazione; di essere poi stata assunta dalla medesima società ai primi di
maggio a tempo parziale, sempre come impiegata amministrativa; e di aver
lavorato per essa fino a giugno; di essere quindi stata assunta dalla I. il 1°
luglio 2017, sempre come impiegata amministrativa, e di lavorarci tuttora; che
nei primi due rapporti si relazionò con la A. che sembrava fare da direttrice,
e gestiva allora la struttura I. a tale R.; che quando lei arrivò la ricorrente
già lavorava nella struttura, in cucina, facendo da aiuto al marito che faceva
il cuoco; e peraltro non in modo continuativo, anche perché faceva anche un
altro lavoro; ad un certo punto, dal 1° agosto 2017, R. e A., che
lavoravano per la S. S.r.l., uscirono di scena, ed il D.I., per conto della S.
s.r.l.s., subentrò loro nella gestione della casa di riposo; ma nel frattempo
tutti i dipendenti si erano associati nella cooperativa I.; che la ricorrente,
all’inizio, in cui figurava come collaboratrice occasionale, lavorava per la S.
S.r.l.

Il teste R. H. J.A., figlio della ricorrente, che ha
fatto causa alla I. ed ha conciliato, ha riferito (in sintesi):

di aver lavorato alle dipendenze della I., in
regola, dal 1° luglio 2017 al 30 agosto 2017, come aiuto cuoco; che sua madre
lavorava lì da aprile; che quando lavorarono I. sua madre faceva l’aiuto cuoca;
ma prima faceva la cuoca, stando da sola; che nel periodo in cui lavorarono I.
sua madre lavorava sei giorni la settimana, riposando in giorno diverso dalla
domenica a settimane alterne, quattro ore il pomeriggio, secondo turni che essi
stessi concordavano, con l’A., quale chef, ad avere l’ultima parola; che la
casa di cura era gestita a nome S..

Il teste D. S., figlia della A., e dipendente S. dal
2001, quadro, ha riferito (in sintesi): che la S. assunse la gestione della
casa di cura di via C. nell’aprile 2017; di aver frequentato la sede in quel
mese e nei due successivi; che in quel periodo la ricorrente veniva
saltuariamente, e comunque in modo non quotidiano, a dare una mano in cucina a
tale C., che faceva la cuoca per la S., che a quell’epoca gestiva tutta la
struttura ed anche la cucina; che sua madre era ed è dipendente della S., e si
occupa di organizzazione dell’accoglienza; che nel giugno 2017 ci fu una
diatriba nella sua famiglia sicché non ci occupò più di quella casa di riposo.

Il teste N. S., dipendente della I. dal novembre
2017 al dicembre 2018 ha riferito (in sintesi): che in quel periodo la casa di
riposo era gestita dalla S.S.; che l’aveva ricevuta dal 1° agosto 2017 dalla S.
S.r.l.; che dal 2014 al novembre 2017 aveva lavorato alle dipendenze della cooperativa
G., che dal luglio al novembre del 2017 prestava servizi in appalto a via C.,
cui subentrò la I.; che quando, nel luglio 2017, iniziò a frequentare la
struttura, vide la ricorrente un paio di volte che aiutava in cucina, dove
lavorava C., che faceva la cuoca; che poi la vide lavorare in modo pressochè
quotidiano con altro personale di I..

Dalle predette evidenze documentali ed orali appare
probabile che prima del luglio 2017 la ricorrente non lavorò né per la I., né
per la A., ma per la S. S.r.l., società che gestiva la generalità della
struttura, e della quale la A. era una dipendente, presumibilmente con compiti
gestori, peraltro I. al R.

Peraltro la ricorrente non ha provato né di essere
stata ingaggiata personalmente dalla A., né che fosse questa dirigere il suo
lavoro, né che questa l’abbia mai retribuita; mentre v’è prova documentale che
la ricorrente, per i mesi di aprile a giugno del 2017, venne pagata dalla S.S..
Anche a presumere che sia stata la A. ad ingaggiare inizialmente la ricorrente,
come avvenuto per altri lavoratori escussi a testi, appare evidente che essa
agiva quale dipendente della S., visto che era tale società a dirigere la
struttura.

Anche se fosse stato dimostrato che, nella prima
fase della collaborazione, fosse stata la A. a dirigere in qualche modo il
lavoro della ricorrente (e non è), si deve considerare che tutti i soggetti
collettivi, come tali, non possono operare che mediante persone fisiche che li
rappresentano, sicché il fatto che un lavoratore di una società sia diretto da
un dipendente di questa è del tutto normale e non giustifica alcuna
attribuzione di datorialità personale, specie ove, come nel caso di specie, una
società abbia retribuito in nome proprio nel preteso periodo «in nero» e
rilasciato una certificazione dei compensi erogati, palesando il rapporto
institorio.

Le prove raccolte paiono però escludere che il
rapporto di lavoro tra la ricorrente e la I. sia iniziato il 13 luglio 2017.

I testi S. ed R. hanno dichiarato di essere stati
assunti da I. il 1° luglio 2017, il teste A. di averci lavorato per circa due
mesi fino al 31 agosto 2018, e gli ultimi due hanno detto di essere stati
ingaggiati tramite la ricorrente che già lavorava lì; trattandosi di rapporti
dichiarati in regola, la convenuta avrebbe avuto agio a confutare tali
affermazioni «ex tabulas»; ed invece non ci sono prove contrarie. Tutto ciò
suggerisce la I. prese in appalto la cucina il 1° luglio 2017, data dalla
quale, secondo gli ultimi due testi, la ricorrente lavorava come cuoca o aiuto
cuoca con orari più o meno regolari e con continuatività quotidiana, cosa che
appare conclamare la subordinazione. E’ invero del tutto implausibile che il R.
e l’A., ingaggiati dalla I. tramite la H., siano stati assunti prima di lei, o
che la ricorrente abbia continuato a lavorare per la S. mentre i suoi colleghi
di cucina lavoravano per I..

Si deve quindi allo stato ritenere che tra la
ricorrente e la I. è intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 1° luglio
2017 al 31 agosto 2017. Poiché il rapporto appare sorto prima della pattuizione
della clausola del termine, sembra doversi concludere che esso sia sorto a
tempo indeterminato.

L’eccezione di decadenza sollevata riguardo alla
domanda di impugnazione del licenziamento appare infondata a fronte dell’evidenza
documentale dell’impugnazione stragiudiziale esperita con lettera del 18
settembre 2017 risultante spedita il 18 settembre 2017 e ricevuta dalla I. il
21 settembre 2017. La nuda deduzione «si contesta la produzione documentale
[…]», del tutto generica, non ha alcuna capacità confutativa.

Il licenziamento intimato alla ricorrente per motivi
disciplinari risulta probabilmente illegittimo perché, in assenza
dell’assolvimento, da parte di I., dell’onere di provarne l’esperimento, deve
ritenersi affetto dal vizio di totale pretermissione della procedura
preliminare prevista dall’art.
7 della legge n. 300/1970, che vale ugualmente per il licenziamento per
giusta causa e quello per giustificato motivo soggettivo, ciò che comporta le
conseguenze di cui all’art. 4 del
decreto legislativo n. 23/2015.

Appena più delicata la questione posta dal fatto che
la ricorrente, pur censurando il licenziamento impugnato anche per motivi
sostanziali, lo fa in via gradata «Si ribadisce, comunque, che la ricorrente
non ha mai posto in essere alcun comportamento tale da ledere la fiducia […]
anche perché la sanzione non è comunque proporzionata ai fatti […] in via gradata,
il licenziamento per cui è causa deve essere in ogni caso considerato e
qualificato illegittimo in quanto privo di giusta causa e/o giustificato motivo
[…]», conclude sul punto facendo riferimento all’art. 4, che s’applica solo ai
vizi formali e procedurali, e non all’art. 3, che sanziona i vizi
sostanziali, e, pur prevedendo ugualmente una tutela meramente indennitaria, ne
prevede una maggiore.

In linea di principio la domanda è identificata per
oggetto e titolo in base a quanto risulta dall’esame complessivo dell’atto, e
non necessariamente dalle disposizioni invocate, spettando al giudice, secondo
il canone «iura novit curia», la corretta individuazione delle disposizioni
applicabili alla fattispecie, sicché di per sé il mancato riferimento all’art. 3 non sarebbe ostativo né
all’esame dei motivi di impugnazione di carattere sostanziale, né all’applicazione
di detta disposizione.

Tuttavia la domanda, nei termini predetti,
costituisce esercizio del potere dispositivo dell’azione. Di conseguenza,
poiché l’impugnazione del licenziamento per motivi (causa petendi) sostanziali
(assenza nel merito di giusta causa/giustificato motivo) risulta proposta solo
nell’espositiva ed in via gradata, l’accoglimento della censura fondata sull’art. 7 assorbe l’altra secondo
la volontà della parte, e ne impedisce la disamina.

D’altro canto non necessariamente la proposizione di
una subordinata di potenziale maggior valore rispetto alla domanda principale è
illogica, potendo rispondere ad un strategia processuale di non affrontare un
rischio di soccombenza parziale sul capo di domanda a maggior rischio di
mancato accoglimento.

Riguardo all’eccepita applicabilità dell’art. 9, osserva il giudicante che
la società convenuta ha espressamente dedotto di non avere il requisito dimensionale,
e la ricorrente, oltre e non aver nemmeno allegato il contrario in ricorso, non
ha mai contestato quanto allegato dalla convenuta sul punto, sicché l’assenza
del requisito dimensionale deve ritenersi pacifica ai sensi dell’art. 115 del codice di procedura civile.

Di conseguenza, sembra debbano applicarsi gli articoli 4 e 9 del decreto legislativo n. 23/2015.

In corso di causa sono avvenuti due eventi
normativi:

a) l’entrata in vigore, il 14 luglio 2018, del decreto legge n. 87/2018, conv. in legge n. 96/2018, il cui art. 3 ha aumentato il minimo ed
il massimo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 del decreto legislativo n.
23/2015 in caso di licenziamento ingiustificato;

b) la sentenza della
Corte costituzionale n. 194/2018, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 3, comma
1, del decreto legislativo n. 23/2015 riguardo alla parte (l’anzianità di
servizio) che, secondo tale disposizione, regolava da sola la determinazione
dell’indennità tra il minimo ed il massimo.

L’evento normativo sub a) non s’applica, ad avviso
del giudicante, alla fattispecie perché in mancanza di regola temporale specifica
s’applica il principio generale di normale irretroattività di cui all’art. 11 delle preleggi, e per regola generale le
norme non retroattive che sostituiscono precedenti sanzioni legate a illeciti
inerenti a rapporti di diritto sostanziale, o regolano conseguenze di fatti
generativi di diritti pregressi, non s’applicano agli illeciti commessi ed ai
fatti verificatisi prima della loro entrata in vigore (Cassazione numeri:
3713/75, 5547/77, 5211/78, 10/79, 1184/84, 3914/85).

L’evento normativo sub b), certamente retroattivo
per i rapporti pendenti, non sarebbe rilevante, dovendosi applicare l’art. 4, che risulta però esposto
alla stessa, o ad almeno analoga obiezione di illegittimità costituzionale.

In punto di non manifesta infondatezza.

Sulla base di quanto premesso, appare allo stato
probabile che il licenziamento impugnato vada dichiarato illegittimo, e
sanzionato secondo l’art. 4 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, trattandosi di violazione
procedurale ascrivibile all’art.
7 della legge n. 300/1970; mentre non appaiono, allo stato, sussistere i
presupposti per l’applicazione degli articoli 2 e 3.

L’art.
4 cit. prevede che «Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con
violazione […] della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970,
il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e
condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a
contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per
ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a
dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del
lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle
tutele di cui agli articoli 2 e 3
del presente decreto».

La disposizione mutua dall’art. 3 dello stesso decreto un
criterio di commisurazione dell’indennità automaticamente legato all’anzianità
di servizio. Nel caso di specie, pare allo stato che l’anzianità di servizio
della H. fosse di due mesi secondo l’art. 8 del decreto, sicché le
spetterebbe una indennità commisurata al minimo di legge, che nel caso di
specie sarebbe, ai sensi dell’art.
9, una mensilità, trattandosi di piccola impresa.

La Corte
costituzionale, con la sentenza n. 194 del 2018, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art.
3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, limitatamente alle parole
«di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

In estrema sintesi, la Corte, a fondamento di tale
decisione, ha ritenuto che:

«La qualificazione come “indennità”
dell’obbligazione prevista dall’art.
3, comma 1, non ne esclude la natura di rimedio risarcitorio […]»; posto
che il licenziamento, anche se efficace, «costituisce pur sempre un atto
illecito, essendo adottato in violazione della preesistente non modificata
norma imperativa»;

l’ancoramento dell’indennità ad un parametro
forfettizzato rigido «contrasta, anzitutto, con il principio di uguaglianza,
sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse»;

posto che «[…] il pregiudizio prodotto, nei vari
casi, del licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori.

L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è
dunque solo uno dei tanti»;

«In una vicenda che coinvolge la persona del
lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela
risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro della anzianità di
servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente
discrezionale valutazione del giudice […]», ciò che «[…] risponde, infatti,
all’esigenza di personalizzazione del danno subito […]»;

il predetto criterio si pone inoltre in contrasto
col principio di ragionevolezza «sotto il profilo dell’inidoneità
dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto
pregiudizio subito dal lavoratore […] e un’adeguata dissuasione del datore di
lavoro dal licenziare illegittimamente»;

«[…] la rigida dipendenza dell’aumento
dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua
incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata […]»;

poiché una tutela così consegnata «[…] non
costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal
licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare
ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela […] non può dirsi
rispettosa (nemmeno) degli articoli 4, primo
comma, e 35, primo comma, della Costituzione,
che tale interesse, appunto, proteggono».

Al giudicante sembra che identiche o almeno analoghe
ragioni valgano a far dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 4.

L’unica differenza tra le due fattispecie attiene al
fatto che l’art. 3 disciplina
il licenziamento ingiustificato per motivi sostanziali, mentre l’art. 4 quello reso illegittimo
dalla violazione di regole di carattere formale e procedurale.

La differenza non sembra incidere in modo
significativo sulla non manifesta infondatezza della questione posto che:

a) anche l’art. 7 della legge n. 300/1970
è una disposizione imperativa, la cui violazione integra dunque, secondo
l’insegnamento della Corte, illecito fonte di danno da risarcire in modo anche
formalmente indennitario, ma necessariamente «adeguato e personalizzato»;

b) in tale ottica, pare valere negli stessi termini
il principio che impone che l’indennità (risarcitoria), sia ancorata ad una
pluralità di fattori di correlazione al danno sofferto, e non solo
all’anzianità di servizio;

c) il parametramento «rigido e fisso» dell’indennità
all’anzianità di servizio, specie nei casi, quale quello di specie, in cui
questa è assai modesta, non pare fornire una adeguata dissuasione del datore di
lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in violazione di legge), né
garantisce un adeguato ristoro al pregiudizio concretamente arrecato.

La portata della distinzione tra ingiustificatezza
sostanziale ed illegittimità formale/procedurale, anche se già invalsa nel
regime di cui all’art. 18
della legge n. 300/1970 c.m. dalla legge n.
92/2012, non pare peraltro poter essere valorizzata oltre una certa misura
in rapporto ai principi fondamentali, posto che la previsione di una procedura
preventiva di garanzia posta dall’art. 7 della legge n. 300/1970,
non a caso inserita nel titolo primo della legge, intitolato «Della libertà e
dignità del lavoratore», lungi dal porsi come mera prescrizione di forma,
assolve ad una funzione di protezione di Costituzione
41, comma 2 che, seppure non costituzionalmente imposta (Corte costituzionale n. 204/1982), anticipa a tale
scopo, tenuto conto del fatto che il datore irroga una sanzione, il rispetto
del principio di civiltà del cd. «audiatur et altera pars» (arg. ex Corte costituzionale n. 204/1982; n. 220/1995).

La questione peraltro non sembra poter esser risolta
in via interpretativa, neppure quella della cd. «interpretazione adeguatrice»
perché:

a) l’art.
4 è assolutamente inequivoco, nel suo tenore letterale, nel parametrare
l’indennità alla sola anzianità di servizio;

b) non appare possibile escludere che la diversità
tra le due fattispecie legittimi l’attuale art. 4, o richieda qualche altra
forma di adeguamento costituzionale.

A tale riguardo, appare anche rilevante osservare
che nel sistema previgente di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970
c.m. della legge n. 92/2012, nell’ambito della
cd. tutela indennitaria, la commisurazione dipendeva, in caso di licenziamento
ingiustificato per ragioni sostanziali, oltre che dall’anzianità di servizio,
dal numero di dipendenti occupati, dalle dimensioni dell’attività economica,
dal comportamento e della condizioni delle parti (comma 5), mentre in caso di
violazione formale-procedurale dipendeva dalla gravità della stessa (comma 6),
così in sostanza già in apparenza prescindendo da fattori muniti di un nesso
apprezzabile col danno sofferto dal lavoratore, come invece nel regime di cui
all’art. 8 della legge n.
604/1966, al quale il legislatore si era ispirato nel riscrivere l’art. 18, comma 5.

Ad avviso del giudicante, per le ragioni già sopra
svolte, il carattere formale-procedurale della violazione non toglie nulla al
fatto che il licenziamento intimato in violazione dell’art. 4 integra un illecito che
deve dar luogo ad un risarcimento «adeguato e personalizzato», ancorché
forfettizzato, secondo la stessa logica che pare reggere Corte costituzionale n. 194/2018. D’altro canto,
la stessa commisurazione dell’indennità all’anzianità di servizio, e quindi ad
un fattore riconosciuto da Corte costituzionale n.
194/2018 come parametrico del danno sofferto, operata dall’art. 4, accoglie tale impostazione, sebbene in
modo del quale appare evidente l’insufficienza.

Peraltro, a ragionare altrimenti, il parametramento
«rigido e fisso» dell’indennità all’anzianità di servizio, piuttosto che, al
limite, alla gravità della violazione, appare comunque integrare violazione del
principio di uguaglianza/ragionevolezza», sanzionando in modo uguale violazioni
non solo produttive di danni differenti, ma di gravità che possono essere, a
loro volta, del tutto differenti.

La rimessione dello scrutinio alla Corte appare resa
particolarmente ineludibile in ragione del fatto che questa, nella sentenza n. 194/2018, dopo aver verificato che la
questione sollevata sull’art. 4
non era delibabile per difetto del requisito di rilevanza nel giudizio «a quo»,
non ha ritenuto di esercitare il potere ad essa conferito dall’art. 27 della legge n. 87/1953, di
dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 «per derivazione».

Appare quindi anche non manifestamente infondata, in
rapporto agli articoli 3, 4, primo comma, e 35,
primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle
parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

 

P.Q.M.

 

Visto l’art. 23 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante, e non manifestamente
infondata, con riguardo agli articoli 3, 4, comma 1, e 35,
comma 1, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4 del decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole «di importo pari
a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»;

Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso;

Ordina che a cura della cancelleria la presente
ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei
ministri, e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 10
giugno 2020, n. 24

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI ROMA – Ordinanza 03 gennaio 2020, n. 61
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