Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 giugno 2020, n. 12441

Diritto all’attribuzione di una qualifica superiore,
Trasferimento nei ruoli del personale Inpdap, Modificazione soggettiva del
rapporto medesimo assimilabile alla cessione del contratto, Mobilità del
personale, Esatto inquadramento di competenza dell’Ente di destinazione

 

Ritenuto

 

1. Che la Corte d’Appello di Venezia, con la
sentenza n. 206/15, ha pronunciato in sede di riassunzione a seguito di
cassazione con rinvio disposta da questa Corte con la sentenza n. 6714 del
2013.

La riassunzione era effettuata dai lavoratori,
originari ricorrenti, e appellati nel giudizio di appello in cui veniva emessa
la sentenza cassata con rinvio.

2. I lavoratori ex dipendenti dell’Ente Poste, in
servizio presso l’INPDAP, cui succedeva INPS. in posizione di comando, e
successivamente trasferiti allo stesso Istituto con decreti della Presidenza
del Consiglio dei Ministri emessi ai sensi del d.l. n. 163 del 1995, conv.
nella legge n. 273 del 1995 (che aveva previsto il trasferimento dei dipendenti
pubblici in altra amministrazione su richiesta di quest’ultima). hanno chiesto
che venisse accertato il loro diritto all’attribuzione di una qualifica
superiore a quella che era stata loro riconosciuta all’atto del trasferimento
nei ruoli del personale dell’INPDAP. tenuto conto della posizione da essi
ricoperta nella precedente fase del rapporto di lavoro.

3. Il Tribunale di Venezia accoglieva la domanda con
sentenza che veniva riformata su impugnazione dell’INPS, già INPDAP, dalla
Corte d’Appello della stessa città.

4. Il giudice di secondo grado accoglieva l’appello
dell’Istituto e rigettava la domanda dei lavoratori, ritenendo che l’Istituto
non potesse che adeguarsi alle indicazioni contenute al riguardo nei dPCm, da
ritenersi vincolanti anche in ragione del divieto di aumenti di spesa imposto
dalla disciplina in tema di mobilità.

5. Avverso tale sentenza proponevano ricorso per
cassazione i lavoratori, cui resisteva con controricorso l’Istituto.

6. Questa Corte, con la sentenza n. 6714 del 2013,
dichiarava inammissibile il ricorso nei confronti di T.A. e affermava, quindi,
quanto segue:

«Secondo la giurisprudenza espressa dalle S.U. di
questa Corte (cfr. Cass. sez. unite n. 503/2011), cui hanno fatto seguito altre
sentenze della Sezione Lavoro (Cass. n. 22696/2011, Cass. n. 14458/2012), ed
alla quale va data continuità anche in questa sede, “in tema di mobilità
del personale, con riferimento al trasferimento del lavoratore dipendente
dell’Ente Poste Italiane all’INPDAP, presso il quale già si trovava in
posizione di comando, effettuato ai sensi del d.l. 12 maggio 1994, n. 163, art.
4, comma 2, convertito nella legge 11 luglio 1995. n. 273, verificandosi solo
un fenomeno di modificazione soggettiva del rapporto medesimo assimilabile alla
cessione del contratto, compete all’ente di destinazione l’esatto inquadramento
e la concreta disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti,
senza che su tali profili possa operare autoritativamente la Presidenza del Consiglio
dei ministri, il cui dPCm 7 novembre 2000 – atto avente natura amministrativa,
in quanto proveniente da una autorità esterna al rapporto di lavoro – non
assolve alla funzione di determinare la concreta disciplina del rapporto di
lavoro, mancando un fondamento normativo all’esercizio di un siffatto potere,
ma solamente a quella di dare attuazione alla mobilità (volontaria) tra
pubbliche amministrazioni. Ne consegue che l’equiparazione della 6 qualifica
funzionale dell’Ente Poste Italiane all’area B. posizione economica B2.
dell’INPDAP, contenuta nel citato dPCm, non ha efficacia vincolante, dovendosi
ritenere giuridicamente giustificata la verifica compiuta dal giudice di merito
sulla correttezza dell’inquadramento spettante al lavoratore, sulla base
dell’individuazione, nel quadro della disciplina legale e contrattuale
applicabile all’amministrazione di destinazione, della qualifica maggiormente
corrispondente a quella di inquadramento prima del trasferimento”.

Nella motivazione della citata sentenza le Sezioni
Unite hanno precisato che “non rileva valutare se nel dPCm 7 novembre 2000
si fosse inteso attribuire valore meramente descrittivo o vincolante alle
specificazioni relative all’inquadramento dei dipendenti presso l’INPDAP. dato
che in ogni caso le specificazioni al riguardo non potevano avere efficacia
vincolante, per la (radicale) mancanza di potere al riguardo”, con la
conseguenza che. al fine di contestare la correttezza dell’inquadramento
attribuitogli dall’INPDAP, non era necessario che il lavoratore avesse dedotto
specifici vizi dell’atto amministrativo riconducibili alle ipotesi di
incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, per ottenerne la
disapplicazione in senso tecnico, essendo sufficiente la deduzione della
erroneità dell’inquadramento in relazione alla posizione ricoperta nella
precedente fase del rapporto di lavoro ed alla corretta individuazione della
posizione corrispondente secondo la disciplina applicabile nell’ambito
dell’amministrazione di destinazione. Ed hanno altresì rilevato che. a questi
fini, tenuto conto della particolarità della vicenda relativa al trasferimento
di lavoratori – ormai formalmente alle dipendenze di un ente pubblico economico
– ad una pubblica amministrazione, doveva ritenersi che correttamente il
giudice a quo avesse fatto riferimento all’inquadramento rivestito nell’ambito
dell’ordinamento pubblicistico dai dipendenti postali transitati alle
dipendenze dell’INPDAP. dovendo considerarsi anche che tale criterio trovava
ulteriore giustificazione nella maggiore omogeneità tra i criteri di
inquadramento in vigore nell’ambito delle due amministrazioni pubbliche e nella
circostanza della minore idoneità specificativa delle dilatate e meno numerose
categorie di inquadramento introdotte dalla contrattazione collettiva dopo la
privatizzazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti postali.

6. – Da tali principi si è discostata la sentenza
impugnata con l’affermazione dell’efficacia vincolante per l’INPDAP del dPCM 18
ottobre 1999 ai fini dell’esatto inquadramento dei lavoratori ad esso
trasferiti dall’Ente Poste Italiane e della impossibilità di operare una
verifica della correttezza dell’inquadramento spettante ai predetti lavoratori,
se non previa individuazione di specifici vizi dell’atto amministrativo e
conseguente sua disapplicazione.

7. – Il ricorso deve essere pertanto accolto e la
sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa alla stessa Corte
d’appello in diversa composizione, perché provveda ad un nuovo esame delle
questioni controverse – uniformandosi ai principi di diritto enunciati al
precedente punto 5) – e così alla verifica sulla correttezza dell’inquadramento
spettante ai lavoratori, individuando, nel quadro della disciplina legale e
contrattuale applicabile nell’amministrazione di destinazione, la qualifica
maggiormente corrispondente a quella di inquadramento prima del trasferimento».

7. La Corte d’Appello di Venezia, adita in
riassunzione, con la citata sentenza n. 206/15 respingeva l’appello e
confermava la sentenza del Tribunale.

Affermava che la Corte aveva individuato il criterio
della maggiore corrispondenza nella comparazione tra i diversi inquadramenti
come quello da utilizzare per il concreto inquadramento dei lavoratoti presso
l’INPDAP.

L’analisi compiuta dalla sentenza di primo grado,
che aveva analiticamente individuato i profili di maggiore corrispondenza tra
le diverse qualifiche contrattuali, non risultava specificamente censurata
dall’ente appellante, che aveva invece prospettato il diverso criterio dell’analisi
delle mansioni concretamente svolte.

8. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre l’INPS, prospettando due motivi di impugnazione.

9. Resistono i lavoratori in epigrafe con
controricorso, assistito da memoria depositata in prossimità dell’adunanza
camerale.

 

Considerato

 

1. Che con il primo motivo di ricorso si deduce la
nullità della sentenza o del procedimento (art.
360. n. 4, cod. proc. civ.) in relazione alla violazione dei principi di
cui all’art. 111 Cost.. in particolare comma 2.
in una lettura integrata con l’art.
6 della CEDU.

Assume il ricorrente che, mentre nella motivazione
della sentenza si afferma la fondatezza della domanda dei lavoratori, nel
dispositivo della stessa l’appello veniva rigettato. Poiché i lavoratori nel
dispositivo venivano indicati come appellante, il rigetto dell’appello
significava rigetto della loro domanda.

Pertanto, la sentenza era nulla perché inidonea a
consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale.

2. Il motivo non è fondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare,
nel rito del lavoro soltanto il contrasto insanabile tra dispositivo e
motivazione determina la nullità della sentenza, da far valere mediante
impugnazione, in difetto della quale prevale il dispositivo (Cass., n. 21618 del 2019).

Tale contrasto, tuttavia, non è ravvisabile nel caso
di specie, atteso che nel giudizio rescissorio le parti continuano a trovarsi
nella medesima posizione processuale in cui versavano allorché fu pronunziata
la sentenza cassata (Cass., n. 456 del 2000).

Pertanto, il rigetto dell’appello contenuto nel
dispositivo (in cui non vi è alcuna indicazione dei lavoratori come parte
appellante) è il rigetto dell’appello proposto dall’INPS, con cui è coerente la
motivazione della sentenza, non potendo indurre in equivoco il ruolo di
appellante solo formale assunto dei lavoratori (nell’intestazione sono indicati
come appellanti) che. a seguito della cassazione con rinvio, hanno riassunto il
giudizio di appello che era stato introdotto dall’INPS appellato formale e
appellante sostanziale.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione di norme di diritto e di contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro, ovvero, in particolare, degli artt. 1362 cod. civ., e sgg., anche con
riferimento al dPCm 18 ottobre 1999. al dPCm 7 novembre 2000. alla legge n. 797
del 1981. ed al CCNL Poste 1994-1997, nonché
al dPR n. 285 del 1988. al CCNL EPNE 1998-2001,
ed al CCIE 1999-2001. dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2000 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). in relazione
alla violazione dei principi di cui all’art. 111
Cost., in particolare comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 della CEDU.

4. L’Istituto dopo aver ricordato che
l’inquadramento del personale era avvenuto in ragione delle indicazioni di cui
al dPCm 18 ottobre 1999 e dell’elenco di cui al dPCm 7 novembre 2000, senza
margini di discrezionalità, insiste, in ragione della disciplina applicabile
alla fattispecie, nel ritenere corretta l’attribuzione al Dipartimento della
funzione pubblica del potere di emettere il decreto di trasferimento con
indicazione dell’inquadramento.

Al line di vagliare la correttezza della sentenza di
appello il ricorrente trascrive stralci della sentenza Cass., S.U., n.503 del
2011, richiamata sia dalla sentenza di questa Corte, sia dalla sentenza di
appello. Richiama, altresì, giurisprudenza di merito. Afferma, quindi, che il
criterio dell’analisi delle mansioni concretamente svolte prospettato da esso
Istituto non era diverso rispetto a quello dell’esame delle declaratorie
contrattuali, ma necessario e complementare.

La non corrispondenza dei due inquadramenti era
stata effettuata sulla base di una mera valutazione astratta, senza alcun
riferimento alle mansioni svolte, che invece avrebbero dovuto essere poste in
correlazione con le declaratorie al fine di consentire una verifica concreta.

In proposito, il ricorrente, dopo avere richiamato
giurisprudenza di legittimità passa ad esaminare le declaratorie contrattuali
deducendo che:

la declaratoria relativa alla IV categoria del
personale postale descriveva mansioni del tutto simili e sovrapponibili a
quelle della IV qualifica funzionale degli enti pubblici non economici di cui
alla legge n. 70 del 1975, e non alla V
qualifica funzionale. Area B/B1. nell’attuale ordinamento INPDAP;

la declaratoria relativa alla V categoria personale
postale descriveva mansioni del tutto simili e sovrapponibili a quelle della V
qualifica funzionale degli enti pubblici non economici di cui alla legge n. 70 del 1975. e non alla VI qualifica
funzionale. Area B/B2. nell’attuale ordinamento INPDAP;

la declaratoria relativa alla VI categoria personale
postale descriveva mansioni del tutto simili e sovrapponibili a quelle della VI
qualifica funzionale degli enti pubblici non economici di cui alla legge n. 70 del 1975. e non alla VII qualifica
funzionale. Area C7 Cl. nell’attuale ordinamento INPDAP.

In conclusione deduce il ricorrente che non si era
tenuto in considerazione che in entrambi gli ordinamenti le mansioni di cui
alla IV, V e VI categoria, e di cui alla IV, V e VI qualifica funzionale, si
concretizzano in attività esecutive di supporto al processo produttivo.

Pertanto, seppure vi fossero stati i presupposti per
ritenere l’illegittimità e quindi disapplicare un dPCm, la Corte d’Appello
avrebbe dovuto comunque constatare la corrispondenza tra la IV, V, VI
categoria, e la IV, V, VI qualifica funzionale di cui al CCNL enti pubblici non
economici.

5. Il motivo è inammissibile.

6. A norma dell’art.
384, secondo comma, cod. proc. civ.. l’enunciazione del principio di
diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, con
conseguente preclusione della possibilità di rimettere in discussione
questioni, di fatto o di diritto, che siano il presupposto di quella decisione,
e di tenere conto di eventuali mutamenti giurisprudenziali della stessa Corte,
anche a Sezioni Unite, non essendo consentito in sede di rinvio sindacare
l’esattezza del principio affermato dal giudice di legittimità (cfr. fra le
tante Cass. n. 11290/1999; Cass. n. 16518/2004; Cass. n. 23169/2006; Cass. n.
17353/2010; Cass. n. 1995/2015).

Dall’irretrattabilità del principio di diritto
discende che la Corte di cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso
la sentenza pronunziata dal giudice di merito, deve giudicare muovendo dalla
regala iuris in precedenza enunciata, perché l’efficacia vincolante, che si
estende anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata oggetto
di giudicato implicito interno (Cass. n. 17353/2010 e Cass. n. 20981/2015), viene meno solo qualora la
norma, in epoca successiva alla pubblicazione della pronuncia rescindente, sia
stata dichiarata costituzionalmente illegittima ovvero sia divenuta
inapplicabile per effetto di ius superveniens (cfr. fra le tante Cass. n.
20128/2013; Cass. n. 13873/2012; Cass. n. 17442/2006).

Tali ultime condizioni non ricorrono nel caso di
specie, perché il quadro normativo è rimasto immutato rispetto a quello
apprezzato dalla sentenza rescindente, che ha con chiarezza indicato i limiti
del giudizio di rinvio.

7. Tanto premesso, nel richiamare il punto 5 del
“Ritenuto” occorre precisare, in sintesi, il dicium della sentenza
rescindente:

– in tema di mobilità del personale, con riferimento
al trasferimento del lavoratore dipendente dell’Ente Poste Italiane all’INPDAP,
presso il quale già si trovava in posizione di comando (ex art.4. comma 2, d.l.
n. 163 del 1994, conv. dalla legge n. 273 del 1995) compete all’ente di
destinazione l’esatto inquadramento e la concreta disciplina del rapporto di
lavoro dei dipendenti trasferiti;

– su tali profili non può operare autoritativamente
il dPCm 7 novembre 2000;

– l’equiparazione della 6 qualifica funzionale
dell’Ente Poste Italiane all’area B. posizione economica B2, dell’INPDAP,
contenuta nel citato dPCm, non ha efficacia vincolante;

– è giuridicamente giustificata la verifica compiuta
dal giudice di merito sulla correttezza dell’inquadramento spettante al
lavoratore, sulla base dell’individuazione, nel quadro della disciplina legale
e contrattuale applicabile all’amministrazione di destinazione, della qualifica
maggiormente corrispondente a quella di inquadramento prima del trasferimento.

8. La Corte d’Appello. dopo avere richiamato i
principi enunciati dalla sentenza di questa Corte, premette che la sentenza di
primo grado ha esaminato analiticamente le declaratorie contrattuali di
provenienza, quelle di inquadramento presso TINPDAP e quelle richieste in
giudizio, confrontandone i tratti caratteristici e riconducendo alla corretta
declaratoria contrattuale i profili professionali di appartenenza.

Deduce, quindi che l’INPS, nella memoria depositata
nel giudizio rescissorio, sosteneva che, al di là del principio di diritto
affermato dalla Corte, i lavoratori non avevano dimostrato di essere stati
addetti alle stesse mansioni svolte presso il precedente datore di lavoro.

L’analisi compiuta dal Tribunale che aveva
analiticamente individuato i profili di maggiore corrispondenza tra le diverse
qualifiche contrattuali non risultava specificamente censurato dall’Istituto
appellante, che invece aveva prospettato il diverso criterio dell’analisi delle
mansioni concretamente svolte.

Ugualmente la Corte d’Appello disattendeva il
rilievo riferito all’invarianza della spesa, nonché la domanda di manleva esperita
nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri.

9. In ragione di quanto sopra esposto si rilevano le
ragioni dell’inammissibilità del motivo.

Il motivo di ricorso in esame, da un lato, nel
prospettare la legittimità dell’inquadramento effettuato con dPCM, si pone in
contrasto con i principi affermati dalla sentenza n. 6714 del 2013 di questa
Corte, dei quali la Corte d’Appello ha fatto applicazione; dall’altro, ponendo
la questione dell’erronea comparazione delle declaratorie contrattuali non
impugna adeguatamente la statuizione di appello che ha affermato che l’Istituto
non aveva censurato l’individuazione dei profili di maggiore corrispondenza tra
le diverse qualifiche contrattuali effettuata dal Tribunale, prospettando
invece il diverso criterio dell’analisi delle mansioni concretamente svolte.

L’affermazione del ricorrente che il criterio
dell’analisi delle mansioni concretamente svolte non era diverso rispetto a
quello dell’esame delle declaratorie contrattuali, non soddisfa l’onere di specificità
dei motivi di ricorso che devono essere puntuali e circostanziati rispetto alla
statuizione impugnata, così sostanziandosi in una mera contrapposizione alla
qualificazione delle difese dell’Istituto operata dalla Corte d’Appello.

Costituiva onere del ricorrente, in ragione di una
specifica statuizione in senso contrario contenuta nella sentenza di appello,
non solo dedurre di aver proposto l’impugnazione con riguardo anche all’erronea
comparazione delle declaratorie contrattuali richiamando le relative difese, ma
per il principio di specificità, indicare elementi e riferimenti atti ad
individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il contenuto
dell’atto di appello e della memoria di costituzione in riassunzione,
indicandone il contenuto rilevante e dunque la censura formulata.

Peraltro, tale onere di specificità non viene meno
neppure qualora si deduca error in procedendo (Cass.. S.U., n. n. 8077 del
2012). La parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo
specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere
nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem
agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di Cassazione, anche quando è
giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex
actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli
atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. n. 15367/2014; Cass. n.
21226/2010).

10. Il ricorso deve essere rigettato.

11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

12. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002. art. 13.
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente. dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13. comma I-bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro 9.000.00 per compensi professionali, euro 200.00
per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13.
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13. comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 giugno 2020, n. 12441
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