Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2020, n. 15930

Licenziamento per giusta causa, Mansioni di impiegato addetto
alla contabilizzazione degli incassi, Numerose irregolarità di cassa
successivamente riscontrate, Contestazione tardiva, Assenza di precedenti
disciplinari, Giusta causa di integra una clausola generale che richiede di
essere concretizzata dall’interprete, Valorizzazione dei fattori esterni
relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla
norma

 

Fatti di causa

 

Il Tribunale di Palermo rigettava la domanda
proposta da M.C. nei confronti di S. By Car s.p.a. intesa a conseguire la
declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole in
data 14/9/2016, in ragione della mancata segnalazione – nell’esercizio delle
mansioni a lei ascritte quale impiegata addetta alla contabilizzazione degli
incassi – di una serie di vistose “discrepanze economiche nei pagamenti
effettuati nel corso degli anni 2012/2013/2014 e 2015 nonché nei pagamenti
delle fatture stesse…corrispondenti ad euro 456.000,42″…

Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte
distrettuale che con sentenza resa pubblica il 6/4/2018 dichiarava risolto il
rapporto di lavoro inter partes a far tempo dal licenziamento ed accordava alla
parte reclamante la tutela indennitaria forte disciplinata dal comma 5° dell’art. 18 L. 300/70 prò tempore
vigente, liquidandola nella misura di 18 mensilità.

Nel proprio incedere argomentativo, i giudici del
gravame osservavano – quanto alla contestazione datata 26/8/2016 – che,
diversamente da quanto dedotto dalla parte datoriale, era infondato l’addebito
formulato in relazione alla mancata informazione del Presidente in ordine alle
numerose irregolarità di cassa successivamente riscontrate, posto che era
emerso dal compendio istruttorio acquisito, come all’interno della azienda vi
fosse “una sostanziale distribuzione del potere gestionale e delle
connesse responsabilità”. Sotto altro versante veniva evidenziato che il
medesimo Presidente aveva avuto contezza delle predette discrepanze economiche
già dal 7/10/2015, sicché la relativa contestazione era da reputarsi tardiva
essendo intercorso un periodo di circa 10 mesi fra l’accertamento dei summenzionati
fatti e l’invio della lettera di addebito.

La Corte di merito riteneva, invece, fondati i fatti
oggetto della contestazione disciplinare del 5/8/2016, giacché la dipendente
nonostante la richiesta della Presidenza in data 3/6/2016, non aveva in alcun
modo provveduto a trasmettere un rapporto sulla situazione contabile del broker
FTI, disattendendo la direttiva aziendale già a lei impartita da oltre due
mesi.

Ciò nondimeno, deduceva la Corte che nello specifico
non ricorreva la fattispecie della giusta causa o del giustificato motivo di
licenziamento, argomentando in ordine alla unicità dell’addebito, alla assenza
di precedenti disciplinari a carico della lavoratrice, alla riscontrata
incertezza in merito all’ammontare del pregiudizio economico arrecato alla
società, alla predisposizione, seppur tardiva, della richiesta relazione
illustrativa; elementi tutti che consentivano di escludere l’idoneità della
condotta posta in essere dalla ricorrente, a ledere in maniera irreversibile il
vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.

Avverso tale decisione la società interpone ricorso
per cassazione affidato a due motivi successivamente illustrati da memoria ex art.378 c.p.c.

M.C. resiste con controricorso con cui propone
ricorso incidentale sostenuto da unico motivo.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo del ricorso principale si
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 l. 300/70 in relazione
all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c. nonché
omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di
discussione fra le parti ex art. 360 comma primo
n.5 c.p.c.

Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la
Corte di merito laddove ha ritenuto insussistenti, oltre che tardivi, i fatti
oggetto di contestazione di cui alla lettera 26/8/2016. Nella articolata
censura si fa leva innanzitutto sulla nozione di immediatezza della contestazione
invalso nella giurisprudenza di legittimità in senso di accentuato rilievo
relativo, sostenendosi il rispetto, nello specifico, dei canoni prescritti,
avendo la società avuto contezza degli ammanchi di cassa solo a seguito
“dell’accertamento dell’addebito disciplinare contestato alla sig.M.C. con
la nota del 5/8/2016” ed avendo formalizzato la contestazione disciplinare
il 26/8/2016 “solo qualche giorno dopo l’accertamento reale e specifico
dei fatti contestati”; si deduce poi la effettiva ricorrenza della
condotta oggetto di addebito, consistente nell’aver omesso di comunicare al
Presidente – unico titolare del potere disciplinare – “le discrepanze
economiche registrate” negli anni 2012-2015 e relative ai cospicui
pagamenti di fatture da parte di clienti privati e tour operator.

2. Il motivo è privo di fondamento.

Secondo i principi affermati da questa Corte, che
vanno qui ribaditi, il principio dell’immediatezza della contestazione
disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della
regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di
lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la
contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o
perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento
per giusta causa l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento
costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Peraltro, il criterio
di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della
specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per
l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa
l’organizzazione aziendale. La relativa valutazione del giudice di merito è insindacabile
in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi
logici” (vedi, ex multis, Cass. 25/1/2016
n.1248, Cass. 20/6/2006 n. 14115).

Nel caso in esame la motivazione addotta a sostegno
dell’impianto decisorio, appare congrua, logicamente coerente e puntualmente
riferita a tutti gli elementi del giudizio, avendo la Corte distrettuale
rimarcato – con valutazione delle acquisizioni probatorie del tutto congrua e
pertanto non censurabile in questa sede di legittimità – che l’assetto
organizzativo aziendale era improntato ad una sostanziale distribuzione del
potere gestionale e della connesse responsabilità, senza tralasciare di
considerare che il medesimo Presidente aveva avuto cognizione delle discrepanze
economiche oggetto di contestazione, sin dal 7 ottobre 2015, allorquando la
dipendente aveva comunicato l’elenco di ciascun tour operator con l’indicazione
delle relative partite debitorie.

In tal senso la critica, che prospetta il cattivo
esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del
giudice di merito, accreditando una tesi meramente contrappositiva rispetto a
quella elaborata in sede di decisione, non dà luogo ad alcun vizio denunciabile
irf con il ricorso per cassazione e va pertanto disattesa; non è infatti
inquadrabile nel paradigma dell’art.360, comma 1,
n. 5, c.p.c. – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra
le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio – né in quello del
precedente n.4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente
all’anomalia motivazionale e si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, non sussistente, nello specifico, per quanto
sinora detto (vedi ex multis, Cass. 26/9/2018 n.23153, Cass. 10/6/2016
n.11892).

3. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa
applicazione dell’art. 18 l.
300/70, degli artt.2119 e 2106 c.c., dell’art. 55 c.c.n.I. di settore in
relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.
nonché omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di
discussione fra le parti ex art.360 comma primo n.5
c.p.c.

Si censura in estrema sintesi il giudizio espresso
in ordine alla legittimità e proporzionalità del recesso intimato rispetto alle
mancanze accertate, per avere i giudici del gravame tralasciato di valutare
taluni addebiti, ritenendoli contestati tardivamente o insussistenti, ed
ingiustamente sottovalutando la estrema gravità della condotta della
lavoratrice, anche sotto il profilo della enormità del pregiudizio economico
arrecato alla parte datoriale.

4. Il motivo è infondato.

Occorre al riguardo premettere che, secondo quanto
affermato da questa Corte, la giusta causa di licenziamento integra una
clausola generale che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite
valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei
principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che
hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di
legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza
concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del
giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione
se privo di errori logici e giuridici (vedi Cass.
9/7/2015 n. 14324).

Il giudice di merito investito della domanda con cui
si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare, accertatane in primo
luogo la sussistenza in punto di fatto, deve quindi verificare che l’infrazione
contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o
del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale
delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell’addebito, essendo
pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione
dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia
idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza
dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica
di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all’adempimento dei
suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. 13/2/2012 n.
2013, Cass. 24/6/2016 n.13149).

Mentre il giudizio di sussunzione è giudizio di
diritto, in quanto tale sottoponibile anche a questa Corte, quello di mera
proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è
giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo
conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad
esempio, l’entità del danno, il grado della colpa o l’intensità del dolo,
l’esistenza o meno di precedenti disciplinari a carico del dipendente.

Non può poi, in via ulteriore, sottacersi che, secondo
i consolidati dieta di questa Corte espressi in tema di licenziamento
disciplinare nella vigenza della legge n.92 del
2012, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va
riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito non coincida con
alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici
disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa (in questi sensi
vedi Cass. 12/10/2018 n.25534).

Ed è proprio questa la fattispecie oggetto di
delibazione, in cui la Corte di merito, dato atto della sussistenza del fatto
contestato, ed espresso il motivato convincimento relativo alla inidoneità
dello stesso ad integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato
motivo di recesso, dopo aver rimarcato l’assenza di alcuna deduzione da parte
della C. in ordine alla inclusione della condotta addebitata fra quelle
punibili con una sanzione conservativa in base alle previsioni dei c.c.n.I. ovvero
dei codici disciplinari applicabili, ha disposto applicazione della tutela
risarcitoria approntata dal comma quinto del novellato art. 18 l. 300/70.

In tale prospettiva, occorre rimarcare che la critica
formulata con riferimento al giudizio reso dal giudice del gravame in ordine
alla riscontrata incertezza sull’esatto ammontare del concreto pregiudizio
economico effettivamente arrecato alla società ed alla assenza di precedenti
sanzioni disciplinari a carico della lavoratrice – elementi ritenuti idonei a
ridimensionare la gravità della condotta addebitata alla dipendente ed
effettivamente riscontrato – risulta veicolata attraverso le risultanze di
causa e mira ad attingere il giudizio di fatto espresso dalla Corte di merito,
sindacabile nei ristretti limiti in cui lo è il vizio di motivazione, secondo
la formulazione dell’art. 360 nr. 5, cod.proc.civ.
ratione temporis vigente; limiti che, nella specie, non consentono di pervenire
ad una riforma della statuizione, non versandosi nelle ipotesi di inesistenza o
incongruità del percorso motivazionale in relazione alle quali è esperibile il
sindacato in questa sede di legittimità (cfr., tra le molte, Cass. 27/4/2017
n.10416).

Infatti, come riportato nello storico di lite, con
motivazione immune da censure la Corte d’appello ha accertato nella sua portata
oggettiva la condotta assunta dalla lavoratrice, rapportandola agli standards
valutativi insiti nella coscienza generale conformi ai valori dell’ordinamento
e ne ha rimarcato la non gravità, dopo aver considerato i riflessi di natura
soggettiva della fattispecie, avuto riguardo alle condizioni personali della
lavoratrice, all’esito di una ponderata valutazione di tutti gli elementi
acquisiti in giudizio.

5. La pronuncia impugnata è del resto conforme a
diritto perché coerente coi principi invalsi nella giurisprudenza di questa
Corte secondo cui la novella del 2012 ha introdotto una graduazione delle
ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva dettata da motivi
disciplinari, facendo corrispondere a quelle di maggiore evidenza la sanzione
della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria all’ipotesi del difetto
di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto collettivo;
in particolare, la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto
al fatto contestato ed accertato rientra nell’art. 18, comma 4, della legge nr.
300 del 1970 solo nell’ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della
condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei
contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili nel senso che,
alla condotta accertata, corrisponda una sanzione conservativa.

Ne consegue che, in presenza di una condotta
accertata e coincidente con quella tipizzata dalle parti sociali, punita con
sanzione conservativa, la tutela sarà di tipo reintegratorio; al di fuori di
tale caso, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra
nelle «altre ipotesi» in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo
soggettivo o della giusta causa, per le quali l’art.18, comma 5, della legge nr.
300 del 1970 prevede la tutela indennitaria c.d. forte (vedi ex plurimis, Cass. cit. n.25534/2018).

Alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il
ricorso principale va, pertanto, respinto.

6. Con unico motivo di ricorso incidentale, si
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.112
c.p.c. e della I. 300/70.

Si deduce che, diversamente da quanto argomentato
dai giudici del gravame, in sede di ricorso introduttivo era stata
espressamente invocata l’applicazione della tutela reale.

7. Il motivo difetta assolutamente del requisito di
specificità secondo i dettami di cui all’art. 366
c. 1 n.3, 4, 6 c.p.c., non essendo riportato il tenore del ricorso
introduttivo del ricorso di primo grado con il quale si deduce sia stato
prospettato che il fatto contestato rientrasse fra le condotte punibili con una
sanzione conservativa.

Deve infatti richiamarsi il principio affermato da
questa Corte secondo cui nel giudizio di cassazione, l’autosufficienza del
controricorso, assolvendo alla sola funzione di contrastare l’impugnazione
altrui, è assicurata, ai sensi dell’art. 370, comma
2, c.p.c., che richiama l’art. 366, comma 1,
c.p.c., anche quando l’atto non contenga l’autonoma esposizione sommaria
dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella
sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso.
Tuttavia, l’atto, quando racchiuda anche un ricorso incidentale, deve
contenere, in ragione della sua autonomia rispetto al ricorso principale,
l’esposizione sommaria dei fatti della causa ai sensi del combinato disposto
degli artt. 371, comma 3, e 366, comma 1, n. 3, c.p.c., sicché è inammissibile
ove si limiti ad un mero rinvio all’esposizione contenuta nel ricorso
principale e non sia possibile, nel contesto dell’impugnazione, rinvenire gli
elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto
della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte
dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (vedi Cass. 21/9/2015 n.
18483).

8. Conclusivamente, il ricorso incidentale deve
essere dichiarato inammissibile.

La violazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della compensazione, in ragione della situazione di
reciproca soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 13 DPR 115/2002 – della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente
principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per
il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale, dichiara
inammissibile il ricorso incidentale. Compensa fra le parti le spese del
presente giudizio.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente
incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma
del comma 1 bis dello stesso articolo
13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2020, n. 15930
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