Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 14 ottobre 2020, n. 212

Questione di legittimità costituzionale, Art. 6, co. 2, L. 15 luglio 1966,
n. 604, Norme sui licenziamenti individuali, lmpugnazione stragiudiziale
inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal
deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa, Sussiste

 

Ritenuto in fatto

 

1.‒ Il Tribunale ordinario di Catania, sezione
lavoro, con ordinanza del 17 maggio 2019, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 6,
secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti
individuali), nella parte in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale
di cui al primo comma della stessa disposizione è inefficace se non è seguita,
entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dagli adempimenti
ivi indicati, anche dal deposito del ricorso cautelare ante causam ex artt. 669-bis, 669-ter
e 700 del codice di procedura civile, per
violazione degli artt. 3, 24, 111, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo
in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848.

2.‒ Il giudice rimettente riferisce che un
lavoratore disabile aveva impugnato, con ricorso d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., anteriore alla causa, il
provvedimento con il quale il datore di lavoro ne aveva disposto il
trasferimento presso un’altra sede (in una diversa regione isolana) e che, nel
costituirsi nel procedimento cautelare, la società resistente aveva formulato
due eccezioni di decadenza, fondate, l’una, sulla mancata impugnazione stragiudiziale
della comunicazione di trasferimento entro il termine di sessanta giorni
previsto dal primo comma dell’art.
6 della legge n. 604 del 1966 e, l’altra, sull’omessa impugnazione
giudiziale, nel termine di decadenza di centottanta giorni contemplato dal
secondo comma della stessa disposizione, mediante la proposizione di un ricorso
di merito ex art. 414 cod. proc. civ. ovvero la
comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato. In
particolare, per la difesa della parte datoriale, la proposizione, prima dello
spirare del termine in questione, di un ricorso d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ. non potrebbe ritenersi
idonea a impedire la predetta decadenza.

Il Tribunale di Catania, ciò premesso in fatto,
ritenuto di poter superare la prima eccezione di decadenza perché
l’impugnazione stragiudiziale era stata in realtà tempestivamente proposta,
assume che, al fine della statuizione sulla domanda di tutela in via d’urgenza
del lavoratore ‒ il quale non aveva proposto, entro il termine previsto a
pena di decadenza dall’impugnazione degli atti datoriali ivi contemplati dall’art. 6, secondo comma, della legge
n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, comma 1, della legge 4
novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), il ricorso di merito, né formulato richiesta di conciliazione o di
arbitrato – è rilevante la decisione sulle sollevate questioni di legittimità
costituzionale, stante il costante indirizzo interpretativo della Corte di
cassazione, costituente ormai diritto vivente, secondo cui il ricorso cautelare
ante causam non è idoneo a impedire la decadenza da tale impugnazione.

In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale
rimettente sottolinea che la norma denunciata determina il risultato
paradossale di precludere al giudice della cautela, adito con ricorso ante
causam, di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, ove il termine di
decadenza di cui all’art. 6,
secondo comma, della legge n. 604 del 1966 spiri nelle more del processo,
per intervenuta inoppugnabilità dell’atto.

Il Tribunale ritiene, quindi, che la disposizione
censurata, comporti una sanzione eccessivamente grave, sproporzionata e
irragionevole rispetto agli obiettivi perseguiti con la sua introduzione, nella
misura in cui impedisce definitivamente al lavoratore, per motivi meramente
formali e di rito, di avere una decisione sulla sua impugnazione, ancorché
abbia attivamente e tempestivamente contestato l’atto datoriale con la
proposizione di un mezzo idoneo, come il ricorso cautelare, ad anticipare gli
effetti del giudizio di merito.

La sproporzione della sanzione rispetto alle
esigenze di certezza del datore di lavoro deriva – sottolinea il giudice
rimettente – dalla circostanza che le stesse potrebbero essere perseguite anche
riconoscendo l’idoneità del ricorso cautelare a impedire il verificarsi della
decadenza, sia in quanto il procedimento introdotto dallo stesso è destinato a
concludersi con una decisione anticipatoria degli effetti della sentenza di
merito, sia per la possibilità riconosciuta a entrambe le parti in causa, e
quindi anche al datore di lavoro, di instaurare il giudizio di merito ove ne
abbiano interesse.

Osserva il giudice rimettente che la disposizione
denunciata renderebbe inutiliter data un’eventuale ordinanza cautelare di
accoglimento pronunciata prima dello spirare del termine di decadenza
nell’ipotesi in cui, entro lo stesso termine, non venga proposto ricorso di
merito o comunicato il tentativo di conciliazione o la richiesta di arbitrato.

Assume, dunque, il Tribunale che la preclusione
all’accesso alla tutela giurisdizionale finisce per gravare – con una sanzione
eccessiva rispetto allo scopo perseguito ‒ sulla parte debole del
rapporto, violando tanto il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., quanto gli artt. 24 e 111 Cost.
in tema di giusto processo e l’art. 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, CEDU, poiché
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ritenuto illegittime le
limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali, prive
di uno scopo legittimo ovvero in caso di sproporzione tra mezzo impiegato e scopo,
pur legittimo, perseguito.

Nella prospettazione del giudice a quo, inoltre, i
dubbi di legittimità sollevati sono ulteriormente corroborati, in ordine alla
dedotta irragionevolezza (ex art. 3 Cost.)
della norma censurata, dalla circostanza che quest’ultima, interpretata dal
diritto vivente nel senso di non attribuire alcuna rilevanza al ricorso
cautelare, la assegna invece espressamente ad atti di natura stragiudiziale,
che possono concludersi anche senza la definitiva regolazione dei rapporti tra
le parti, come la richiesta di tentativo di conciliazione e di arbitrato,
neppure prevedendo, come avviene per l’ipotesi del mancato accordo per
l’espletamento di tali mezzi, che dopo la conclusione del giudizio cautelare il
lavoratore possa incardinare il giudizio di merito entro un determinato
termine.

Secondo il giudice rimettente, tale complessivo
assetto normativo deve ritenersi irragionevole, poiché la domanda cautelare
ante causam è atto almeno equipollente al tentativo di conciliazione o alla
richiesta di arbitrato rispetto alla manifestazione al datore di lavoro
dell’interesse del lavoratore a ottenere la rimozione dell’atto impugnato.
L’incoerenza del sistema sarebbe tanto più evidente per il sostanziale
impedimento della tutela cautelare in relazione ad atti fortemente incisivi
sulla sfera giuridica del lavoratore, come il licenziamento e il trasferimento,
in relazione ai quali il dipendente avrebbe maggiore esigenza di ricorrere alla
tutela d’urgenza.

Sottolinea, inoltre, il Tribunale di Catania che il
contrasto della disposizione denunciata con i parametri invocati si
disvelerebbe anche per la ragione che, sul piano letterale, nell’espressione
«ricorso» utilizzata dall’art.
6, secondo comma, della legge n. 604 del 1966, si presterebbe a rientrare
anche il ricorso cautelare, con conseguente incertezza della parte in ordine ai
mezzi di difesa di cui può disporre.

3.- Nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale promosso dal rimettente, si è costituita la parte datoriale
Auchan spa.

Nelle proprie deduzioni scritte, la società ha
eccepito, in via pregiudiziale, l’inammissibilità delle questioni sollevate dal
giudice a quo per erronea identificazione della norma di legge oggetto di
censura, costituita, piuttosto che dall’art. 6, secondo comma, della legge
n. 604 del 1966, dall’art.
32, comma 3, della legge n. 183 del 2010, che ha esteso la decadenza ivi
contemplata anche ad altri atti, tra i quali il trasferimento del lavoratore.

Nel merito, la società deduce la manifesta
infondatezza delle questioni, in relazione a ciascuno dei parametri invocati.
Osserva, per un verso, che non è precluso al lavoratore l’accesso alla tutela
cautelare, ben potendo lo stesso, entro il termine di decadenza, da ritenersi a
tal fine congruo, di centottanta giorni contemplato dalla norma, una volta
proposto il ricorso cautelare, dare inizio al giudizio di merito. La società
sottolinea, per altro verso, rispetto alla denunciata irragionevolezza della
norma per aver previsto una disciplina “più favorevole” con riferimento alla
richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato, l’inidoneità del
tertium comparationis, costituito dal ricorso cautelare, in virtù della
possibilità, mediante i predetti strumenti, di addivenire a una risoluzione
della controversia con mezzi alternativi rispetto a quello giudiziario.

La difesa di Auchan spa esclude infine che possa
ritenersi sussistente, in virtù del costante orientamento della giurisprudenza
di legittimità, un’incertezza per il lavoratore circa la nozione di «ricorso»,
cui fa riferimento la disposizione censurata.

4.- Con atto del 29 ottobre 2019, è intervenuto nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto delle questioni
sollevate dall’ordinanza di rimessione per manifesta infondatezza.

In particolare, premesso lo scopo delle modifiche
introdotte dall’art. 32, comma 1,
della legge n. 183 del 2010 all’art. 6, primo e secondo comma,
della legge n. 604 del 1966, e richiamata la costante giurisprudenza
costituzionale circa l’ampia discrezionalità del legislatore ordinario nella
conformazione degli istituti processuali, la difesa dello Stato evidenzia che,
nel non breve termine complessivo di «duecentoquaranta giorni» previsto dalla
predetta disposizione normativa, il lavoratore, che si avvale di un difensore
tecnico, ben può depositare tempestivamente il ricorso di merito dopo aver
proposto la domanda cautelare ante causam.

La difesa erariale osserva, inoltre, che i
provvedimenti a strumentalità cosiddetta attenuata, come quelli d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., determinano, in
contrasto con le finalità della decadenza contemplata dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966,
una permanente instabilità nella regolamentazione del rapporto, non essendo
previsto un termine perentorio per l’instaurazione del giudizio di merito.

Rileva, per altro verso, la difesa statale che la
proposizione del ricorso cautelare non sarebbe comparabile con la possibilità
per la parte di avvalersi di strumenti alternativi di risoluzione delle
controversie, quali la conciliazione e l’arbitrato.

Infine, l’obbligo della difesa tecnica del lavoratore,
in uno alla consolidata giurisprudenza di legittimità sulla questione,
renderebbero infondata, secondo l’Avvocatura, la censura circa la lesione
dell’affidamento della parte rispetto all’interpretazione del termine «ricorso»
da parte della giurisprudenza di legittimità.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il Tribunale ordinario di Catania, sezione
lavoro, con ordinanza del 17 maggio 2019, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge
15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nella parte
in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale di cui al primo comma
della stessa disposizione è inefficace se non è seguita, entro il successivo
termine di centottanta giorni, oltre che dagli adempimenti ivi indicati, anche
dal deposito del ricorso cautelare ante causam proposto ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter
e 700 del codice di procedura civile.

In particolare, il giudice rimettente dubita della
legittimità costituzionale della predetta norma, nel testo novellato dall’art. 32, comma 1, della legge 4
novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, ossia nel senso
di ritenere non ricompreso nel termine «ricorso» idoneo a impedire il maturare
della decadenza, contemplata dalla stessa norma, anche il ricorso per
provvedimento d’urgenza ante causam, in quanto finisce con il precludere, nella
sostanza, l’accesso del lavoratore, a fronte di incisivi atti datoriali, alla
tutela cautelare, pur costituzionalmente necessaria ex art. 24 Cost.

Il Tribunale rimettente obietta che la disposizione
censurata, da un lato, finisce per impedire al giudice della cautela, adito con
ricorso ante causam, di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente ove il
termine di decadenza, di cui all’art.
6, secondo comma, della legge n. 604 del 1966, spiri nelle more dello
stesso procedimento cautelare, per intervenuta inoppugnabilità dell’atto e,
dall’altro, ha l’effetto di rendere inutiliter data persino un’eventuale
ordinanza di accoglimento della domanda cautelare nell’ipotesi in cui, entro il
previsto termine di decadenza, non venga proposto il ricorso di merito o
comunicata alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di
arbitrato.

Inoltre, il giudice a quo rileva che la disposizione
censurata contempla una sanzione irragionevole, in quanto sproporzionata
rispetto agli obiettivi perseguiti con la sua introduzione, impedendo al
lavoratore, per motivi meramente formali e di rito, l’impugnazione di un atto
che pure abbia attivamente e tempestivamente contestato con la proposizione di
un mezzo idoneo ad anticipare gli effetti del giudizio di merito, come il
ricorso cautelare. In particolare, osserva che lo scopo perseguito dalla norma,
ovvero l’esigenza di certezza del datore di lavoro rispetto all’emersione del
contenzioso giudiziario sull’atto datoriale, ben potrebbe essere soddisfatto
riconoscendo l’idoneità del ricorso cautelare a impedire il verificarsi della
decadenza, sia in quanto destinato a concludersi con una decisione
anticipatoria degli effetti della sentenza di merito, sia per la possibilità
riconosciuta a entrambe le parti in causa, e quindi anche al datore di lavoro,
di instaurare il giudizio di merito ove ne abbiano interesse.

Pertanto il Tribunale ritiene che l’art. 6, secondo comma, della legge
n. 604 del 1966, nella parte in cui non ricomprende il ricorso per
provvedimento d’urgenza ante causam tra quelli idonei a impedire la decadenza
dallo stesso prevista, violi tanto il principio di eguaglianza e di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., quanto
gli artt. 24 e 111
Cost. in tema di giusto processo, nonché l’art.
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, CEDU, poiché
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ritenuto illegittime le
limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali, prive
di uno scopo legittimo ovvero sproporzionate rispetto allo scopo, pur
legittimo, perseguito.

Sotto un distinto, ma correlato profilo, il giudice
rimettente sottolinea, in relazione allo stesso parametro di cui all’art. 3 Cost., che la disposizione censurata
risulta irragionevole anche perché, pur non assegnando alcuna rilevanza, al
fine di impedire la decadenza, alla proposizione di un ricorso cautelare,
ritiene invece idonei, oltre al ricorso introduttivo del giudizio di merito,
anche atti di natura stragiudiziale, che possono concludersi senza la
definitiva regolazione dei rapporti tra le parti, come la richiesta di
tentativo di conciliazione e di arbitrato.

Sarebbe ingiustificatamente deteriore – secondo il
giudice rimettente – il trattamento processuale riservato al ricorso per
provvedimento d’urgenza ante causam, con cui il lavoratore ricorrente riversa
direttamente in una sede giudiziaria – quale non è né il procedimento di
conciliazione, né quello arbitrale – l’impugnazione stragiudiziale già comunicata
al datore di lavoro.

2.- In via pregiudiziale, deve essere dichiarata
inammissibile la costituzione in giudizio della società A. spa in quanto nella
procura speciale a margine delle deduzioni depositate non è indicato il
nominativo dell’avvocato al quale la procura stessa è conferita.

L’attribuzione del potere rappresentativo al legale
non può ritenersi desumibile, peraltro, dalla circostanza che l’avvocato
indicato nell’epigrafe dell’atto sia lo stesso che abbia certificato
l’autenticità della sottoscrizione in calce alla procura del legale
rappresentante della società, trattandosi di un soggetto cui non era stato
conferito alcun mandato.

3.- Va inoltre preliminarmente affermato che
sussistono le condizioni di ammissibilità delle questioni di costituzionalità
sollevate.

Quanto alla loro rilevanza, deve considerarsi che
nel giudizio a quo il lavoratore ha impugnato stragiudizialmente, nel previsto
termine di decadenza di sessanta giorni, il trasferimento disposto dal datore
di lavoro da un’unità produttiva a un’altra (sita in altra regione isolana) e,
nell’ulteriore termine di centottanta giorni, ha proposto ricorso al giudice ai
sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 del
codice di procedura civile. per ottenere in via d’urgenza ante causam
l’annullamento del trasferimento, contestandone la legittimità e facendo valere
anche la sua condizione di disabile, così invocando la disciplina speciale – e
di maggior favore – del trasferimento.

Dopo l’instaurazione del contradditorio, il giudice
adito, sentite le parti, è chiamato a decidere se può proseguire con il
compimento degli «atti di istruzione necessari» (ex art.
669-sexies cod. proc. civ.) per poi pronunciare, o no, il provvedimento
d’urgenza richiesto dal ricorrente, oppure deve arrestarsi per essere
sopravvenuta l’inefficacia dell’impugnazione del trasferimento, atteso che nel
suddetto termine di centottanta giorni il lavoratore ha sì proposto il ricorso
per provvedimento d’urgenza, ma non anche il ricorso ordinario ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ.

È quindi rilevante, al fine dell’adozione di tale
decisione, il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal giudice
rimettente in riferimento ai plurimi parametri sopra richiamati.

La disposizione censurata è stata correttamente
indicata dal giudice a quo nell’art.
6, secondo comma, della legge n. 604 del 1966, come novellato dall’art. 32, comma 1, della legge n. 183
del 2010, che prevede appunto il regime della perdita di efficacia
dell’impugnazione stragiudiziale comunicata dal lavoratore ai sensi del primo
comma della stessa norma, applicabile a una serie di atti datoriali e negoziali
riguardanti il rapporto di lavoro, tra cui proprio il trasferimento comunicato
dal datore di lavoro e adottato ai sensi dell’art.
2103 del codice civile, come atto unilaterale di gestione del rapporto,
condizionato alla sussistenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive».

4.- Passando al merito delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Catania, è opportuno
premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento, nel
quale si colloca la disposizione censurata.

L’art.
6, primo comma, della legge n. 604 del 1966, nella sua formulazione
originaria, contemplava l’onere per il lavoratore di impugnare, a pena di
decadenza, il solo licenziamento entro sessanta giorni dalla ricezione della
sua comunicazione ovvero da quella dei relativi motivi (se non contestuale a
quella del licenziamento), con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale,
idoneo a rendere nota la volontà dello stesso di impugnare il recesso
datoriale.

Una volta assolto tempestivamente il predetto onere,
operava il regime ordinario dell’azione diretta all’accertamento del vizio
dell’atto di recesso datoriale. In particolare, il lavoratore poteva proporre
l’azione giudiziaria di annullamento del licenziamento illegittimo per mancanza
di giusta causa o di giustificato motivo, previsti rispettivamente dagli artt. 1 e 3 della stessa legge n.
604 del 1966, entro il termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 cod. civ.

L’introduzione del regime della reintegrazione nel
posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, previsto dall’art. 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento), ha comportato che l’eventuale ritardo nella proposizione
dell’azione di annullamento del licenziamento rendeva più gravose per il datore
di lavoro le conseguenze dell’accoglimento della domanda, essendo quest’ultimo
tenuto a risarcire il danno patito dal lavoratore nella misura di un’indennità
commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
sino a quello dell’effettiva reintegrazione ordinata dal giudice, nel regime
poi novellato dall’art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali).

Una situazione analoga – e anzi ancor più accentuata
– poteva verificarsi in caso di ritardo da parte del lavoratore nell’esercitare
l’azione di nullità – questa invece non soggetta a prescrizione ai sensi dell’art. 1422 cod. civ. – riferita all’apposizione del
termine al contratto di lavoro in mancanza delle condizioni di legge che
consentivano l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato.

Questo assetto normativo, rimasto per lungo tempo
vigente, è stato modificato dall’art.
32 della legge n. 183 del 2010.

L’intervento del legislatore ha seguito una duplice
direttrice.

Da una parte, la prescrizione della previa
impugnativa, anche stragiudiziale, entro il termine di decadenza di sessanta
giorni, di cui è onerato il lavoratore che intenda contestare l’atto datoriale
(art. 6, primo comma, della
legge n. 604 del 1966), è stata estesa – ad opera del suddetto art. 32, commi 3 e 4 – dal
licenziamento a una serie di atti negoziali (quale la clausola di apposizione
del termine al contratto di lavoro) e datoriali di gestione del rapporto, tra
cui in particolare il trasferimento del lavoratore, oggetto del giudizio
promosso innanzi al giudice rimettente. La contestazione stragiudiziale della
validità dell’atto, da parte del lavoratore che ne assume la illegittimità, è
stata assoggettata all’onere della previa impugnazione stragiudiziale nel
medesimo termine di decadenza (di sessanta giorni), originariamente previsto
per la sola fattispecie del licenziamento. L’art. 32, comma 2, della legge n. 183
del 2010, ha poi precisato che tale onere della previa impugnativa
stragiudiziale riguarda tutti i casi di invalidità del licenziamento e quindi
non solo l’annullabilità, ma anche la nullità dell’atto.

Dall’altra parte, è stato introdotto (nell’art. 6, secondo comma,
censurato) un nuovo e ulteriore termine, ritenuto dalla giurisprudenza essere
anch’esso di decadenza, sollecitatorio dell’iniziativa giudiziaria del
lavoratore, il cui mancato rispetto è sanzionato con l’inefficacia sopravvenuta
della precedente impugnativa stragiudiziale e quindi con il venir meno di un
presupposto per l’esercizio dell’azione, sia essa di annullamento che di
nullità.

In particolare, l’art. 32, comma 1, della legge n. 183
del 2010 ha riformulato i primi due commi dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966.

Ha stabilito, al primo comma, che «[i]l
licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni
dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla
comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con
qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà
del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale
diretto ad impugnare il licenziamento stesso».

Ha poi prescritto, al secondo comma, che
l’impugnazione è inefficace se, entro il successivo termine di duecentosettanta
giorni – poi ridotto a centottanta giorni dall’art. 1, comma 38, della legge 28
giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita), ma comunque di durata sufficiente ad
assicurare l’accesso alla tutela giurisdizionale (ciò di cui, in realtà, non
dubita il giudice rimettente) – essa non è seguita dal deposito del ricorso
nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla
comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o
arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi
dopo il deposito del ricorso. Ha aggiunto poi che, qualora la conciliazione o
l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario
al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena
di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Inoltre, il medesimo art. 32, ai commi 3 e 4, ha
contemplato, come evidenziato, l’estensione della disciplina del novellato art. 6, primo e secondo comma,
a una serie di ulteriori fattispecie, tra cui quella del trasferimento del
lavoratore.

Ha infatti previsto (al comma 3), nella formulazione
originaria (poi modificata, ma in termini che non rilevano ai fini dell’esame
delle presenti questioni di legittimità costituzionale), che le disposizioni di
cui all’art. 6 della legge n.
604 del 1966, come modificato dal comma 1 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010,
«si applicano inoltre: a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di
questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla
legittimità del termine apposto al contratto; b) al recesso del committente nei
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a
progetto, di cui all’articolo 409, numero 3), del
codice di procedura civile; c) al trasferimento ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, con termine
decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; d)
all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi
degli articoli 1, 2 e 4 del
decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni,
con termine decorrente dalla scadenza del medesimo».

Lo stesso art. 32 ha altresì stabilito (al
comma 4) che le medesime disposizioni si applicano anche: «a) ai contratti di
lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto
legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di
entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del
termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione
di disposizioni di legge previgenti al decreto
legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata
in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata
in vigore della presente legge; c) alla cessione di contratto di lavoro
avvenuta ai sensi dell’articolo 2112 del codice
civile con termine decorrente dalla data del trasferimento; d) in ogni
altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo
10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un
rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto».

Con la modifica dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966
e l’estensione della sua operatività, prevista dall’art. 32, commi 3 e 4, della legge n.
183 del 2010, il legislatore ha quindi perseguito l’intento di evitare che
un possibile contenzioso, attivabile dal lavoratore, possa rimanere latente per
tutto il tempo di prescrizione dell’azione di annullamento ovvero per un tempo
lungo e indefinito in caso di azione di nullità.

Il legislatore, in vero, non ha modificato il regime
dell’imprescrittibilità di quest’ultima, né quello della prescrizione
quinquennale della prima, con la previsione di un unico, uniforme, termine di
decadenza. Il legislatore è invece intervenuto in modo indiretto, introducendo,
proprio nel censurato secondo comma dell’art. 6, un meccanismo sollecitatorio
dell’iniziativa del lavoratore che intenda esercitare l’azione di annullamento
o di nullità dell’atto datoriale, quale nella specie il trasferimento (o altre
fattispecie negoziali elencate nei commi 3 e 4 dell’art. 32 citato).

Anche il trasferimento del lavoratore da un’unità
produttiva a un’altra, oggetto del giudizio a quo, può essere sia annullabile –
ove, in ipotesi, non ricorrano «comprovate ragioni tecniche, organizzative e
produttive», come prescrive l’articolo 2103 codice
civile. – sia nullo, ove, ad esempio, risulti essere discriminatorio ex art. 15 della legge n. 300 del
1970. Ancorché rimanga diverso – perché non derogato – l’ordinario regime
della prescrizione, è invece uniforme il regime della decadenza dell’efficacia
dell’impugnazione stragiudiziale, quale previsto dalla disposizione censurata.
Nell’una e nell’altra fattispecie – quella della nullità e quella
dell’annullabilità dell’atto – il legislatore del 2010 ha voluto che il
lavoratore dia apertamente seguito alla sua contestazione dell’atto datoriale e
coltivi l’impugnazione stragiudiziale nella sede giudiziaria, portandola
innanzitutto alla cognizione di un giudice, oppure la faccia valere in una sede
conciliativa o arbitrale.

Pertanto, la ratio dell’attuale formulazione del
censurato art. 6, secondo
comma, della legge n. 604 del 1966, può essere individuata nell’esigenza,
ritenuta dal legislatore meritevole di tutela, di far emergere in tempi brevi
il contenzioso sull’atto datoriale.

Questa Corte, proprio con riferimento all’estensione
delle decadenze contemplate dai primi due commi dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966
a una nuova fattispecie (ossia a quella dei contratti e rapporti di lavoro a
tempo determinato), ha già precisato che la finalità della norma è «quella di
contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo
assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al contratto» (sentenza n. 155 del 2014).

La direttrice lungo la quale va condotto lo
scrutinio delle prospettate censure di legittimità costituzionale è, dunque,
l’indicata finalità acceleratoria dei tempi di emersione del contenzioso
relativo alla contestata validità – sub specie dell’annullabilità o della
nullità – di una serie di atti negoziali riguardanti il rapporto di lavoro,
quale, nel caso in esame, il trasferimento contro cui ricorre il lavoratore nel
giudizio a quo.

Nell’ottica di questa finalità va anche considerato
che le norme contenute nell’art.
6, primo e secondo comma, della legge n. 604 del 1966 sono disposizioni di
natura eccezionale ex art. 14 delle disp. prel.
cod. civ. – e quindi di stretta interpretazione – in quanto derogatorie
della disciplina generale delle impugnative negoziali, nella misura in cui
l’azione di nullità e quella di annullamento risultano entrambe condizionate
dalla previa proposizione di una tempestiva impugnativa stragiudiziale, poi
coltivata nella sede giudiziaria (o analoga) entro un termine di decadenza.

5.- Ciò premesso, può ora esaminarsi innanzitutto la
denunciata violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.).

Sotto questo profilo, la questione è fondata, con
conseguente assorbimento degli altri parametri.

6.- Per conservare l’efficacia dell’impugnazione
stragiudiziale prevista dal primo comma dell’art. 6 – evitando così che nel
termine di decadenza di cui al secondo comma della stessa disposizione
sopravvenga l’inefficacia della stessa con il conseguente venir meno di un
presupposto dell’azione di annullabilità o di nullità dell’atto – il lavoratore
può percorrere tre strade alternative.

Quella principale è costituita dalla possibilità,
per il lavoratore che ha proposto l’impugnativa stragiudiziale, di riversare
quest’ultima nella sede contenziosa mediante il «deposito del ricorso nella
cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro». Benché il
riferimento testuale della disposizione sia al «ricorso» tout court, la
specificazione che segue, secondo cui resta «ferma […] la possibilità di
produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso», mostra che in
realtà è (indirettamente) richiamato il ricorso ordinario, il quale appunto
deve contenere fin dalla sua proposizione l’indicazione specifica dei documenti
offerti in comunicazione (art. 414, numero 5, cod.
proc. civ.). In tal senso è la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis,
Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 9 dicembre 2019, n. 32073) che
ha pertanto negato che l’inefficacia sopravvenuta dell’impugnazione
stragiudiziale sia esclusa anche dalla proposizione del ricorso al giudice del
lavoro per ottenere la tutela cautelare d’urgenza ante causam ai sensi degli
artt. 669-bis, 669-ter
e 700 cod. proc. civ.; il quale appunto, quanto
alla forma della domanda, non è soggetto alle preclusioni tipiche del ricorso
ordinario nel processo del lavoro.

La giurisprudenza ha poi riconosciuto che costituisce
ricorso ordinario, ai fini della disposizione censurata, anche quello che, dopo
la legge n. 183 del 2010, è stato introdotto
dall’art. 1, comma 48, della legge
n. 92 del 2012 per la domanda avente ad oggetto, in particolare,
l’impugnativa di quei licenziamenti che ricadono nella fattispecie di cui al
precedente comma 47, benché il suo contenuto sia quello più essenziale
prescritto dall’art. 125 cod. proc. civ. e non
sia invece richiesta inizialmente l’indicazione specifica dei documenti offerti
in comunicazione.

Anche se questo rito speciale e quello uniforme per
i procedimenti cautelari sono entrambi connotati da un’istruttoria semplificata
deformalizzata – essendo previsto, sia per il primo (art. 1, comma 49, della legge n. 92
del 2012), sia per il secondo (art. 669-sexies
cod. proc. civ.), che il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità
non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno
agli atti di istruzione indispensabili – la giurisprudenza (in particolare,
Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 15 novembre 2018, n. 29429) ha
sottolineato la differenza tra un giudizio (quello ordinario) che può
concludersi con la formazione della cosa giudicata formale (art. 324 cod. proc. civ.) e un giudizio (quello
cautelare anticipatorio del merito) che si conclude invece con un provvedimento
non pienamente stabile, la cui autorità non è invocabile in un diverso
procedimento (art. 669-octies, nono comma, cod.
proc. civ.), ma che – pur rimanendo efficace senza che le parti debbano
necessariamente iniziare il giudizio di merito (art.
669-octies, sesto comma, cod. proc. civ.) – può comunque essere travolto
dalla pronuncia eventualmente resa in quest’ultimo giudizio, ove una parte abbia
esercitato la facoltà di promuoverlo.

7.- La disposizione censurata prevede, poi, due
ulteriori possibilità per il lavoratore che abbia proposto l’impugnazione
stragiudiziale: la «comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo
di conciliazione o arbitrato».

È la stessa legge n.
183 del 2010 che, all’art. 31,
ha altresì dettato nuove norme in tema sia di tentativo (facoltativo) di
conciliazione, sia di arbitrato. Da una parte, ha sostituito gli artt. 410 e 411 cod.
proc. civ. sul procedimento di conciliazione innanzi alla relativa
commissione individuata secondo i criteri di cui all’art.
413 cod. proc. civ.; dall’altra, ha dettato un’articolata disciplina per la
risoluzione della controversia innanzi al collegio arbitrale, intervenendo
sugli artt. 412, 412-ter
e 412-quater cod. proc. civ.

Esercitando una di queste due facoltà alternative
alla proposizione di un ricorso al giudice con l’instaurazione di un giudizio
contenzioso – ossia la domanda volta all’attivazione della procedura di
conciliazione oppure la richiesta di costituzione di un collegio arbitrale –
non si verifica la decadenza prevista dalla disposizione censurata. È esclusa
la perdita di efficacia dell’impugnazione sempre che la conciliazione o l’arbitrato
richiesti non siano rifiutati dalla controparte datoriale o non sia raggiunto
l’accordo necessario al relativo espletamento.

Il dato testuale della disposizione censurata è
inequivocabile, come ha chiarito la giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione
lavoro, sentenza 1° giugno 2018, n. 14108): il
rifiuto o il mancato accordo riguardano l’attivazione – non già la conclusione –
della procedura conciliativa o arbitrale. Ciò, peraltro, conferma che la
finalità della disposizione censurata è – come già sopra rilevato – l’emersione
del contenzioso potenzialmente recato dall’impugnazione stragiudiziale.

Nell’evenienza in cui il lavoratore veda sbarrata la
strada di questi due canali alternativi, in ragione del difetto di consenso
della controparte datoriale all’espletamento della procedura conciliativa o
arbitrale, lo stesso censurato art.
6, secondo comma, della legge n. 604 del 1966 recupera la via giudiziaria
ordinaria: il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza,
entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Se invece la procedura conciliativa si conclude
positivamente con un accordo delle parti, questo, quantunque versato nel relativo
verbale reso esecutivo dal giudice, non costituisce certo cosa giudicata
formale (art. 324 cod. proc. civ.), né
sostanziale (art. 2909 cod. civ.).

Parimenti, l’art.
412-quater cod. proc. civ. prevede espressamente che il lodo aggiudicativo
del merito della controversia, emanato a conclusione dell’arbitrato
(irrituale), sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli
effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, quarto comma, cod. civ., ed è impugnabile ai
sensi dell’art. 808-ter cod. proc. civ. Anche
in tal caso, non c’è la prospettiva della cosa giudicata, ma un accertamento di
tipo negoziale.

8.‒ Orbene, in questo complesso meccanismo
processuale, la mancata previsione anche del ricorso per provvedimento
d’urgenza ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 cod.
proc. civ., quale atto idoneo a impedire, se proposto nel termine di
decadenza, l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale del primo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966,
e a dare accesso alla tutela giurisdizionale, è contraria al principio di
eguaglianza (art. 3 Cost.), se posta in
comparazione con l’idoneità riconosciuta, invece, dalla stessa disposizione
censurata alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o
arbitrale.

Ed è, altresì, contraria al principio di
ragionevolezza (riconducibile anch’esso all’art. 3
Cost.), in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di
decadenza in esame, essendo la domanda di tutela cautelare idonea a far
emergere il contenzioso insito nell’impugnazione dell’atto datoriale.

9.- Occorre infatti premettere che la giurisprudenza
di questa Corte ha più volte riconosciuto che la tutela cautelare è strumentale
all’effettività della tutela giurisdizionale e, pur potendo venire variamente
configurata e modulata, essa è necessaria e deve essere effettiva (sentenze n.
236 del 2010, n. 403 del 2007; n. 165 del 2000, n. 437 e n. 318 del 1995, n. 190
del 1985; ordinanza n. 225 del 2017), costituendo espressione paradigmatica del
principio per il quale «la durata del processo non deve andare a danno
dell’attore che ha ragione» (sentenza n. 253 del 1994). Essa, infatti, in
quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, e
in particolare a non lasciare vanificato l’accertamento del diritto,
costituisce uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema
processuale, anche indipendentemente da una previsione espressa (sentenza n. 403 del 2007).

Con la riforma contenuta nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge,
con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005,
n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo
sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica
del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di
arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali), il legislatore ha accentuato, seguendo il modello di altri
sistemi processuali, la natura autonoma della tutela cautelare (e quindi della
relativa azione) rispetto a quella di merito, rendendo soltanto funzionale,
almeno per i provvedimenti cautelari anticipatori e per quelli di urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., il relativo nesso di
strumentalità, stante l’idoneità di detti provvedimenti a restare efficaci
indipendentemente dall’instaurazione del giudizio di merito, divenuta per gli
stessi solo eventuale.

In sostanza, i provvedimenti cautelari “a strumentalità
attenuata” – ossia quelli previsti dall’art.
669-octies, sesto comma, cod. proc. civ. – sono caratterizzati da una sorta
di “definitività” condizionata in modo risolutivo a una differente decisione
assunta nel giudizio di merito, eventualmente incardinato dalla parte in causa
che non si ritenga soddisfatta dall’assetto di interessi provvisorio, ma
potenzialmente stabile, recato dal provvedimento cautelare, e che voglia
ottenere una pronuncia sul merito del diritto controverso, idonea al giudicato
sostanziale, sempre che nelle more essa non abbia posto in essere, anche in
ipotesi con la prolungata inerzia, atti incompatibili con la volontà di
rimuovere il provvedimento d’urgenza di accoglimento o di rigetto della domanda
cautelare.

Il legislatore ha così introdotto un nuovo modello
di tutela che può esitare in un provvedimento celere, reso, sul presupposto del
periculum in mora, a cognizione sommaria e a seguito di un procedimento
deformalizzato, che si iscrive nell’ambito di una più ampia tendenza normativa,
espressa anche mediante riti di natura diversa (semplificati, sommari,
camerali), a svincolare la decisione concreta della lite dalla necessità
dell’accertamento con il “crisma” del giudicato sostanziale.

Un segno dell’evoluzione del procedimento cautelare
per provvedimento d’urgenza è costituito dal mutamento di giurisprudenza in
tema di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio dalla
società ai sensi dell’art. 2533 cod. civ.;
opposizione che il socio può proporre al tribunale nel termine, ritenuto essere
di decadenza, di sessanta giorni dalla sua comunicazione. Tale termine – come
evidenziato dal rimettente – è rispettato non solo con la notifica di un
ordinario atto di citazione, ma anche con il ricorso per provvedimento
d’urgenza ante causam atteso che «il rimedio cautelare anticipatorio presenta
nell’attuale sistema ordinamentale le caratteristiche di una azione, in quanto
potenzialmente idoneo a soddisfare attraverso l’intervento giudiziario
l’interesse sostanziale della parte, anche in via definitiva» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 25 maggio 2016, n. 10840).

10.- Vi è, altresì, che nel processo del lavoro la
tutela cautelare riveste un’importanza peculiare in quanto il ritardo della
risposta di giustizia comporta un pregiudizio particolarmente grave, atteso che
le controversie regolate dagli artt. 409 cod. proc.
civ. e seguenti hanno spesso ad oggetto situazioni sostanziali di rilievo
costituzionale in quanto attinenti alla dignità del lavoro.

La cruciale importanza della tutela d’urgenza
nell’ambito delle controversie di lavoro ha avuto da tempo riconoscimento nella
giurisprudenza di questa Corte con l’affermazione – fatta con riferimento ai
diritti dei lavoratori del settore pubblico, assoggettati, all’epoca, alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in un processo che non
prevedeva ancora una tutela cautelare diversa dalla sospensione dell’efficacia
dell’atto impugnato – del principio per il quale dall’art. 700 cod. proc. civ. è lecito enucleare la
direttiva secondo cui, quante volte il diritto assistito da fumus boni iuris è
minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile provocato dalla cadenza
dei tempi necessari per farlo valere in via ordinaria, spetta al giudice il
potere di emanare i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le
circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione
sul merito (sentenza n. 190 del 1985).

11.- Deve poi considerarsi, sotto altro profilo, che
lo scopo perseguito dal legislatore ordinario, nell’ambito della propria
discrezionalità, mediante la legge n. 183 del 2010
con la riformulazione del secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966
– ossia quello di far emergere tempestivamente il contenzioso avente ad oggetto
l’impugnativa dell’atto datoriale – si giustifica senz’altro perché è
funzionale a superare l’incertezza, gravante sul datore di lavoro e
suscettibile di incidere in modo significativo sull’organizzazione e sulla
gestione dell’impresa. È a tal fine che è stata introdotta la perdita di
efficacia dell’impugnativa stragiudiziale dell’atto datoriale, se non coltivata
tempestivamente nella sede giudiziaria o in altra analoga (quella conciliativa
o arbitrale).

Ma, rispetto a tale legittimo scopo del legislatore,
l’inidoneità del ricorso per provvedimento d’urgenza ante causam a impedire la
decadenza di cui al secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966
costituisce una conseguenza sproporzionata, nonchè irragionevole.

Infatti, con la proposizione del ricorso cautelare
la controversia sull’atto impugnato è portata dinanzi al giudice ed è quindi
raggiunto lo scopo di far emergere il contenzioso su tale atto, affinché il
datore di lavoro non resti in uno stato di perdurante incertezza circa la sorte
dello stesso.

A fronte della proposizione di un ricorso cautelare
d’urgenza, non sussiste più il rischio che il regime della decadenza in esame
vuole evitare – ovvero quello di una contestazione della legittimità del
trasferimento (o di un altro atto datoriale, quale innanzitutto il
licenziamento) che rimanga silente per lungo tempo, nel solo rispetto del
termine prescrizionale dell’azione di annullamento o addirittura senza questo
limite nel caso di imprescrittibilità dell’azione di nullità – perché il
lavoratore è già uscito allo scoperto nel momento in cui ha adito il giudice
della cautela.

Né l’emersione del contenzioso può dirsi svalutata
dalla circostanza che i provvedimenti di urgenza ante causam – come in genere
quelli cautelari anticipatori del contenuto della decisione di merito – sono
assoggettati al regime della strumentalità attenuata introdotto dalla legge n. 80 del 2005 e hanno dunque, sul piano
degli effetti, una definitività “condizionata” alla mancata introduzione del
giudizio di merito. Invero, una volta definita la vicenda cautelare, ben può il
datore di lavoro assumere l’iniziativa per far venir meno ogni incertezza sul
rapporto giuridico sostanziale in essere – ove ne residui alcuna – promuovendo egli
stesso il giudizio di merito.

Pertanto, la sanzione della perdita di efficacia
dell’impugnativa del trasferimento, ovvero di un altro atto datoriale
assoggettato al regime di cui al secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966,
nonostante il tempestivo deposito di un ricorso cautelare, è sproporzionata
rispetto al fine perseguito dal legislatore e si pone, altresì, in contrasto
con il principio di ragionevolezza.

È costante l’orientamento di questa Corte nel senso
che, sebbene in materia di conformazione degli istituti processuali il
legislatore goda di ampia discrezionalità, e il controllo di costituzionalità
deve limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato il limite della manifesta
irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, nel relativo sindacato
deve essere verificato che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente
rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il
sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto
incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi
proprio attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi
prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle
esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto
conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti (ex
plurimis, sentenze n. 71 del 2015, n. 17 del 2011,
n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n.
1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2001).

12.- In conclusione e in sintesi, se l’effetto di
precludere la perdita di efficacia dell’impugnazione dell’atto datoriale consegue
alla circostanza che la doglianza del lavoratore, recata dall’impugnazione
dell’atto datoriale, è portata innanzi a una commissione di conciliazione o a
un collegio arbitrale, ove il datore di lavoro accetti l’espletamento della
procedura, analogo effetto non può disconoscersi, senza che sia leso il
principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), alla
più pregnante iniziativa del lavoratore che proponga la sua impugnazione
direttamente alla cognizione di un giudice, sia esso anche il giudice della
tutela cautelare, iniziativa alla quale – diversamente dal procedimento di
conciliazione e arbitrato – il datore di lavoro non può sottrarsi. La tutela
cautelare, essendo riconducibile all’esercizio della giurisdizione (art. 24, primo comma, Cost.) e alla garanzia del
giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.),
non può avere un trattamento deteriore rispetto ai sistemi alternativi di
composizione della lite, qual è l’inidoneità, prevista dalla disposizione
censurata – secondo la giurisprudenza, che nella fattispecie costituisce
diritto vivente – a precludere l’inefficacia dell’impugnazione dell’atto
datoriale.

Inoltre, con il promovimento dell’azione cautelare
da parte del lavoratore, il contenzioso conseguente all’impugnazione dell’atto
datoriale emerge in piena luce e si avvia sul binario della composizione
giudiziale senza che ci sia più il rischio di pretese del lavoratore latenti
per lungo tempo. La realizzazione della finalità sottesa alla norma censurata
rende sproporzionata, e quindi irragionevole (ancora ex art. 3 Cost.), la sanzione della perdita di
efficacia dell’impugnazione per la mancata proposizione anche del ricorso
ordinario; attività processuale ulteriore, priva di concreta utilità fin quando
non è definito il procedimento cautelare e che ridonda in un ingiustificato
onere per il lavoratore.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge
n. 604 del 1966 è quindi fondata in riferimento all’art. 3 Cost., con assorbimento degli altri
parametri.

Va pertanto dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 6,
secondo comma, della legge n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, comma 1, della legge n. 183
del 2010, nella parte in cui non prevede che l’impugnazione è inefficace se
non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal
deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del
lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di
conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore
alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 del
codice di procedura civile..

 

P.Q.M.

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, della legge
15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), come sostituito
dall’art. 32, comma 1, della
legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori
usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione,
di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di
lavoro), nella parte in cui non prevede che l’impugnazione è inefficace se non
è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal
deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del
lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di
conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore
alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 del
codice di procedura civile.

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 14 ottobre 2020, n. 212
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