Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 novembre 2020, n. 24772

Accertamento dell’illegittimità del recesso, Esonero
dall’obbligo di preavviso, Fittizietà della cessione del ramo d’azienda
Prescrizione dell’impugnazione del licenziamento

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza 19 febbraio 2016, la Corte d’appello di
Roma rigettava l’appello proposto da M.F.V. avverso la sentenza di primo grado,
che ne aveva respinto le domande di accertamento dell’illegittimità del
recesso, con reciproco esonero dall’obbligo di preavviso, comunicatole il 31
ottobre 2002 dalla datrice di lavoro ICCRI (alle cui dipendenze aveva svolto
fino ad allora le sue mansioni di avvocato, assegnata al servizio legale), sul
presupposto della fittizietà della cessione del ramo d’azienda a B.S.,
chiedendo l’accertamento del suo diritto alla prosecuzione del rapporto con
B.E. (cui fu trasferito il settore “bancario, sofferenze, incagli e
contenzioso”), nonché di condanna al risarcimento del danno per il
demansionamento subito e la mancata corresponsione del preavviso. La Corte
territoriale condivideva la già ritenuta infondatezza delle domande della
lavoratrice sulla base dell’assorbente rilievo della prescrizione
dell’impugnazione del licenziamento, per il decorso del termine quinquennale
alla data di presentazione del ricorso introduttivo (otto anni dopo la sua
comunicazione): e con esso delle domande risarcitorie, dato atto
dell’intervenuta rinuncia a quella di reintegrazione nelle mansioni di avvocato
presso B.E.. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la V., cui
resisteva il Banco Popolare soc.coop. a r.l. (poi B.B. s.p.a.).

Con sentenza n. 1141018 questa Corte rigettava il
ricorso condannando la lavoratrice al pagamento delle spese.

Con l’odierno ricorso la V. chiede (ex art. 391 bis c.p.c.) la revocazione della detta
sentenza per errore di fatto (art. 395 n.4 c.p.c.);
resiste il B.B. s.p.a. con controricorso.

Entrambe le parti hanno presentato memoria.

 

Motivi della decisione

 

La V. imputa alla sentenza un errore di fatto
individuato nella circostanza che essa si sarebbe basata sull’erronea
supposizione che la sua domanda, diretta alla declaratoria di illegittimità del
demansionamento, fosse subordinata alla declaratoria di illegittimità del
licenziamento.

La censura è infondata.

La sentenza n. 1141018 di questa Corte, infatti, ha
osservato che ai fini dell’accertamento del (contestato) demansionamento,
previa la declaratoria di illegittimità del licenziamento (la cui verifica
risultava preclusa dalla accertata prescrizione dell’azione di impugnazione),
sul quale la lavoratrice ha incentrato in via esclusiva le proprie pretese, a
seguito della rinuncia alla domanda di reintegrazione nelle mansioni di avvocato
presso B.E. s.p.a. (di cui è stato dato esplicitamente atto al primo capoverso
di pag. 4 della sentenza), la Corte di merito aveva inoltre affermato:
“Anche seguendo l’impostazione difensiva … secondo cui la missiva di
licenziamento … andrebbe intesa come missiva che annuncia … la cessione del
ramo aziendale a B.S. ed a prosecuzione del rapporto ex art. 2112 c.c. con tale ultima società” il
discorsa comunque non muta, ritenendo che tale affermazione, sorretta da valide
argomentazioni (al punto sub 2 di pg. 5 della sentenza) riguardanti il difetto
di “prova del dedotto demansionamento e della perdita o impoverimento di
professionalità imputabile al datore di lavoro” rimaste sostanzialmente
inconfutate, integrava autonoma ratio decidendi, su cui, in quanto non
censurata, si era formato il giudicato (Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass.
14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. s.u. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 6 luglio
2015, n. 13844).

In sostanza l’errore imputato alla sentenza di
questa Corte non è affatto percettivo ma semmai valutativo, e dunque
inammissibile. Ed infatti non è idonea ad integrare errore (di fatto)
revocatorio la valutazione, ancorché in ipotesi errata, del contenuto degli
atti di parte e della motivazione della sentenza impugnata, trattandosi di
vizio costituente errore di giudizio e non di fatto (Cass. n. 1018418).

Peraltro la sentenza qui oggetto di revocazione ha
anche accertato l’assenza di confutazione della ragione effettivamente posta a
base della ravvisata impossibilità oggettiva di svolgimento dell’attività
forense da parte della ricorrente, una volta definitivamente accertatane la sua
inclusione nel ramo d’azienda trasferito a B. S.C.G. (non più controvertibile,
alla luce in particolare del rigetto del quarto motivo): consistente
nell’accertamento, di essere “rimasto incontestato” l’impedimento di
carattere oggettivo dipendente dalla specifica natura e funzioni della predetta
azienda cessionaria, non più titolare delle pratiche legali, ma soltanto
mandataria delle aziende del gruppo.

Il ricorso deve pertanto dichiararsi inammissibile.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che
liquida in €.200,00 per esborsi, €.3.500,00 per compensi professionali, oltre
spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
1152, nel testo risultante dalla L. 24.12.12
n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

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