Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2020, n. 31273

Mobbing e stalking occupazionale, Plurime condotte
persecutorie, poste in essere nella qualità di amministratore delegato, Motivi
originariamente proposti e motivi di ricorso nuovi od aggiunti, Rapporto di
connessione, Limite del necessario riferimento ai motivi principali

1. Con l’ordinanza impugnata del 20 dicembre 2019,
depositata il 14 gennaio 2020, il Tribunale di Torino ha, in riforma
dell’ordinanza del Gip in sede, impugnata dal Pubblico ministero, applicato a
(…) la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. in riferimento a plurime
condotte persecutorie, poste in essere, nella qualità di amministratore
delegato di (…) s.r.l., in danno di (…), dipendente della predetta società
e responsabile dell’ufficio risorse umane.

2. Avverso l’indicata ordinanza del Tribunale del
riesame di Torino ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, con atto a
firma del difensore di fiducia, Avv. (…), affidando le proprie censure a
quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo, deduce violazione della
legge processuale in riferimento alla produzione del pubblico ministero,
all’udienza di appello, di un’annotazione di PG del 13 dicembre 2019,
trattandosi di materiale innovativo non attinente ai fatti oggetto di
provvisoria incolpazione in quanto relativo ad ulteriori presunte condotte
poste in essere nel novembre 2019 in danno di soggetti terzi e, pertanto, esorbitante
il thema decidendum devoluto con l’appello.

2.2. Con il secondo, articolato, motivo, censura il
ricorrente violazione della legge penale e correlato vizio della motivazione in
riferimento ai gravi indizi di colpevolezza del reato oggetto di provvisoria
incolpazione.

2.2.1. Con un primo argomento, evidenzia il
ricorrente come il Tribunale del riesame abbia ribaltato la decisione del Gip
seguendo il medesimo criterio metodologico, ma approdando a soluzione difforme
in violazione degli artt. 612-bis cod. pen. e 2087 cod. civ., sovrapponendo il mobbing allo
stalking occupazionale, pur non esplicandosi la contestata condotta nella vita
privata della persona offesa, ma esaurendosi esclusivamente nell’ambito del
rapporto di lavoro.

2.2.2. Con un secondo punto, censura la ritenuta
sussistenza degli elementi costitutivi del reato di atti persecutori,
enucleando – per ciascun segmento dell’imputazione – elementi di criticità
della motivazione, illogica, presuntiva apparente e non attestata sulla
Integrale disamina degli stessi atti allegati alla querela e delle produzioni
difensive e sulla valutazione del contesto di conflittualità tra gli
amministratori (reperibilità in giorno festivo; files audio di colloqui tra le
parti; contestazioni via mail mosse alla (…) inviate per conoscenza a terzi;
esercizio del potere disciplinare; licenziamento; pedinamento), operando una
indebita delibazione dei profili giuslavoristici della vicenda e risolvendo la
prova del dolo nella soggettiva percezione della persona offesa.

2.3 Con il terzo motivo, deduce analoghe censure in
riferimento al reato di violenza privata, oggetto di provvisoria incolpazione
in riferimento ai fatti occorsi il 7 ottobre 2019, avendo reso al riguardo il
tribunale una motivazione del tutto carente, attestata sulla mera visione dei
filmati, asseritamente esplicativi di un “livello di prevaricazione che il
(…) ha quel giorno esercitato sulla persona offesa”, in assenza della
disamina degli elementi costitutivi della fattispecie, in punto di costrizione,
e della produzione difensiva, inerente la querela per diffamazione proposta –
per il medesimo episodio – dall’indagato contro la persona offesa, contenente
l’indicazione di persona (…….) presente ai fatti, di cui si ignora
l’assunzione a teste.

2.4. Con il quarto, articolato, motivo, censura il
ricorrente violazione di legge penale e correlato vizio della motivazione in
riferimento alle esigenze cautelari.

2.4.1. Con il primo punto, contesta la ritenuta
sussistenza del pericolo di recidiva, impropriamente risolto nella valutazione
dei gravi indizi e fondato su una visione meramente retrospettiva, delineata
dai documenti allegati all’annotazione di PG del 4 dicembre 2019 e riferibili
alle dimissioni, nel 2018, di quindici dipendenti della società, e senza tener
conto della sopravvenuta divisione aziendale e della conseguente
delocalizzazione delle due società derivate, con conseguente carenza dei
requisiti di attualità e concretezza del giudizio prognostico di reiterazione
del reato, travisando l’occasionale incontro tra le parti del 29 novembre 2019
e l’intrusione dell’indagato negli uffici di (…) s.r.l., antecedenti alla
notifica di fissazione dell’udienza di appello del procedimento incidentale e
senza che l’indagato fosse a conoscenza della pendenza di richieste di misure
cautelari a suo carico.

2.4.2. Con il secondo punto, deduce analoghe censure
in riferimento al pericolo di inquinamento probatorio, apoditticamente ritenuto
pur a fronte della completezza del quadro indiziario e della richiesta
dell’indagato di rendere interrogatorio.

2.4.3. Il terzo punto censura la valutazione di
proporzionalità ed adeguatezza della misura applicata, anche rispetto alla meno
afflittiva prescrizione del divieto di avvicinamento, in presenza di una
motivazione meramente astratta ed assertiva in punto di prognosi di
inosservanza e di una valutazione di proporzionalità, pura fronte degli opposti
esiti decisori della fase cautelare.

3. Con motivi nuovi trasmessi alla Cancelleria,
anticipati a mezzo pec il 3 marzo 2020, il ricorrente ha ulteriormente
presidiato il ricorso.

3.1. Con il primo motivo, deduce nullità
dell’ordinanza ex art. 309, commi 5 e 10 in
relazione all’art. 291 comma 1 cod.proc. pen.
in riferimento all’omessa trasmissione ai giudici della cautela del verbale di
sommarie informazioni testimoniali di (…), contenenti elementi favorevoli
all’Indagato riguardo il reato di violenza privata.

3.2. Con il secondo, articola analoga censura
riguardo il verbale di sommarie informazioni testimoniali di (…), contenente
elementi favorevoli all’indagato riguardo II reato di atti persecutori.

3.3. Il terzo motivo lamenta travisamento della prova
in ordine al file audio prodotto dalla parte offesa (identificato come …..),
per esserne stato interpretato il contenuto in modo enfatizzante, non
rivelando, invece, la registrazione – analiticamente commentata – alcun atto
prevaricatorio.

3.4. Il quarto motivo reitera la stessa censura in
relazione al ritenuto pedinamento, tanto in relazione al documento già
richiamato che alle registrazioni dell’Impianto di videosorveglianza aziendale,
prodotti dalla persona offesa.

 

Considerato in diritto

 

Il ricorso è complessivamente infondato.

1. La notevole mole di atti e documenti, allegati al
ricorso ed ai motivi nuovi, prodotti in più tempi dall’indagato, rende, a
parere del collegio, non inopportuno richiamare una serie di principi inerenti
al corretto svolgimento del giudizio di legittimità.

1.1. Secondo il consolidato orientamento di questa
Corte (Sez. 1, n. 46711 del 14/07/2011, Rv. 251412; Sez. 2, n. 15693 del
08/01/2016, Rv. 266441), costituisce principio generale in tema di impugnazioni
la necessità che tra i motivi originariamente proposti ed i motivi di ricorso
nuovi od aggiunti sussista un rapporto di connessione, non essendo consentito,
con motivi definiti dalla parte proponente “nuovi” od
“aggiunti”, dedurre vizi non introdotti con l’impugnazione originaria.

Invero, la facoltà conferita al ricorrente dall’art. 585, comma 4, cod. proc. pen., deve trovare
necessario riferimento nei motivi principali e rappresentare soltanto uno
sviluppo o una migliore e più dettagliata esposizione dei primi, anche per
ragioni eventualmente non evidenziate in precedenza, ma sempre collegabili ai
capi e punti della decisione impugnata oggetto delle censure già dedotte: ne
consegue che “motivi nuovi” ammissibili sono soltanto quelli con i quali,
a fondamento del petitum già proposto nei motivi principali d’impugnazione, si
alleghino argomentazioni (e non anche richieste) ulteriori rispetto a quelle
originarie, non potendo essere ammessa l’introduzione di censure nuove in
deroga ai termini tassativi entro i quali il ricorso va presentato. I motivi
nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono, pertanto, avere ad oggetto,
a pena di inammissibilità, i medesimi capi o punti della decisione impugnata
che siano stati oggetto di doglianza nell’originario atto d’impugnazione (Sez.
6, n. 73 del 21 settembre 2011, dep. 2012, Rv. 251780).

In altri termini, in materia di termini per
l’impugnazione, la facoltà del ricorrente di presentare “motivi
nuovi” o “aggiunti” incontra il limite del necessario riferimento
ai motivi principali, dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare mero
sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non
evidenziate, ma risultando sempre ricollegabili ai capi ed ai punti già
censurati; ne consegue che sono ammissibili soltanto i “motivi nuovi”
o “aggiunti” con i quali, a fondamento del petitum formulato nei
motivi principali, si alleghino argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già
svolte, non anche quelli con i quali si intenda ampliare l’ambito del predetto
petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini
per l’impugnazione» (Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Nuzzi, Rv. 276954, in
motivazione).

1.2. L’art. 585, comma
4, cod. proc. pen. consente alla parte ricorrente unicamente la produzione
di “motivi nuovi” – intesi nell’accezione ut supra delineata – non
anche di “atti” o “documenti nuovi”; dato testuale già ex
se significativo.

Sul punto, questa Corte (Sez. 4, n. 3396 del
06/12/2005, dep. 2006, Rv. 233241; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013,
Rv. 254302; Sez, 3, n. 5722 del 07/01/2016, Rv. 266390; Sez. 1, n. 42817 del
06/05/2016, Rv. 267801) ha chiarito che non è ammissibile la produzione per la
prima volta in sede di legittimità di “documenti nuovi”, ovvero già
non facenti parte del fascicolo, diversi da quelli di natura tale da non
costituire “nuova prova” e da non esigere alcuna attività di
apprezzamento sulla loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte,
perché tale attività è estranea ai compiti istituzionali della Corte di
cassazione.

I documenti di natura diversa esibiti per la prima
volta in sede di legittimità non sono, al contrario, ricevibili, perché il
nuovo codice di rito non ha previsto (diversamente dall’art. 533 del codice di rito abrogato), tale
facoltà: si è, in tal modo, inteso esaltare il ruolo di pura legittimità della
Suprema Corte, che procede non ad un esame degli atti, ma soltanto alla
valutazione dell’esistenza e della logicità della motivazione. Ciò in quanto –
come, ancora una volta, già evidenziato da questa Corte (Sez, 3, n. 43307 del
19/10/2001, Rv. 220601), – non può ritenersi ammissibile nel giudizio di
legittimità, anche dopo l’entrata in vigore della L.
7 dicembre 2000, n. 397, la produzione di nuovi documenti attinenti al
merito della contestazione ed all’applicazione degli istituti sostanziali, non
potendo interpretarsi come una deroga ai principi generali del procedimento e
del giudizio dinanzi alla Corte di cassazione la lettera dell’art. 327-bis, comma 2, cod. proc. pen., nella
parte in cui attribuisce al difensore la facoltà di svolgere “in ogni
stato e grado del processo” le investigazioni in favore del proprio
assistito previste dal comma 1, “nelle forme e per le finalità stabilite
nel titolo VI-bis” del libro V del codice di rito.

Con la conseguenza per cui nel giudizio di
legittimità possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato
non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che
essi non costituiscano “prova nuova” e non comportino un’attività di
apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto
delle prove già raccolte e valutate dai giudici del merito, ma richiedano una
mera presa d’atto del loro contenuto.

1.3. Nel quadro così delineato, i motivi formalmente
definiti come “nuovi”, trasmessi dall’avv. P. nell’interesse
dell’indagato, sono ad un tempo – i primi due – inammissibili In quanto
esorbitanti dai temi devoluti con il ricorso e – il terzo ed il quarto –
esplicitamente diretti alla rivalutazione della piattaforma indiziaria che,
attraverso l’allegazione di fonti documentali ed orali, dovrebbero variamente produrre
efficacia in riferimento al contesto delle prove già raccolte e valutate nei
gradi di merito, e che la Corte di cassazione dovrebbe conseguentemente essere
chiamata a (ri)valutare.

Ed invero, le deduzioni rassegnate nei primi due
motivi nuovi (par. 3 punti 1 e 2) sono state, per la prima volta, introdotte
con la memoria del 3 settembre 2020 e, ponendosi in termini di assoluta
eccentricità rispetto al ricorso principale, sono proposti fuori dei casi
previsti dalla legge. Il terzo ed il quarto motivo, invece, si risolvono
nell’analitica rilettura di fonti probatorie, fisicamente allegate anche in
formato digitale, invocando – mediante il richiamo al travisamento della prova
– un inammissibile sindacato di questa Corte.

La deduzione del vizio di travisamento della prova
in sede cautelare, peraltro, è compatibile con II ricorso per cassazione ex art. 311 cod. proc. pen. solo quando il suddetto
vizio emerga in maniera evidente dalla mera lettura del provvedimento impugnato
o dal suo confronto con specifiche deduzioni scritte presentate precedentemente
alla sua adozione, non essendo Invece sufficiente, in assenza dell’illustrata
condizione, l’allegazione al ricorso degli atti o dei documenti probatori di
cui si lamenta la mancata considerazione (Sez. 6, n. 31390 del 08/07/2011,
D’Amato, Rv. 250686), sempre che l’errore accertato sia idoneo a disarticolare
l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la
essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermo
restando il limite dell’intangibilità della valutazione nel merito del
risultato probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758).

Ne viene la complessiva Inammissibilità dei motivi
nuovi.

2. E’, invece, infondato il primo motivo del ricorso
principale.

2.1 Questa Corte ha già affermato – e con specifico
riferimento all’appello cautelare, e finanche nel giudizio di rinvio a seguito
di annullamento – come il pubblico ministero e l’indagato possano introdurre
elementi probatori, sia in ordine alla gravità indiziaria, sia con riguardo
all’esistenza delle esigenze cautelari, a condizione che le produzioni siano
relative agli stessi fatti già oggetto di valutazione da parte del primo
giudice della cautela (Sez. 2, n. 53645 del 08/09/2016, Luca, Rv, 268978 in
fattispecie in cui la Corte ha ritenuto ammissibile la produzione di
documentazione attestante la pendenza di procedimenti relativi ad altri fatti
di reato, in quanto elementi in astratto rilevanti ai fini del giudizio devoluto).

Il Collegio condivide la autorevole giurisprudenza
secondo cui, nel procedimento conseguente all’appello proposto dal pubblico
ministero contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare
personale, è legittima la produzione di documentazione relativa ad elementi
probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, sempre che,
nell’ambito dei confini segnati dal “devolutum”, quelli prodotti dal
pubblico ministero riguardino lo stesso fatto contestato con l’originaria richiesta
cautelare ed in ordine ad essi sia assicurato nel procedimento camerale il
contraddittorio delle parti, anche mediante la concessione di un congruo
termine a difesa, e quelli prodotti dall’indagato, acquisiti anche all’esito di
investigazioni difensive, siano idonei a contrastare i motivi di gravame del
P.M. ovvero a dimostrare che non sussistono le condizioni e i presupposti di
applicabilità della misura cautelare richiesta (Sez. un,, n. 18339 del
31/03/2004, Donelli Rv. 227357). Si tratta di un’opzione ermeneutica finalizzata
a chiarire la struttura dell’impugnazione cautelare che, pur non essendo del
tutto sovrapponibile a quella del processo di cognizione, ne ripete sia la
natura devolutiva, sia la “apertura” a nuovi apporti probatori:
questi ultimi, come chiarito dalle Sezioni Unite, possono fare ingresso nel
compendio indiziario sottoposto alla valutazione del giudice dell’appello, a
condizione: a) che sia garantito il contraddittorio, che deve svilupparsi
comunque, seppur con modalità compatibili con la struttura contratta del rito
camerale; b) che riguardino i fatti già oggetto della valutazione del primo
giudice della cautela.

Naturalmente al pubblico ministero è impedito, dalla
stessa struttura della cognizione cautelare (che prevede diversi
“gradi” di giudizio), la facoltà di proporre elementi indiziari
relativi a fatti diversi da quelli in relazione ai quali ha avanzato la
richiesta originaria, poiché in caso contrario sarebbe irrimediabilmente
compromessa la natura impugnatoria del giudizio d’appello, che prevede che il
“primo” vaglio del compendio indiziario sia sempre effettuato da
altro giudice (con il controllo eventuale del giudice del riesame, cui è
devoluta l’intera valutazione cautelare). Al giudice dell’appello cautelare
spetta, invece, solo il “controllo” della legittimità del
provvedimento cautelare nei limiti del devoluto, ma non la valutazione
cautelare “originaria”, ovvero quella relativa a fatti diversi da
quelli già vagliati dal primo giudice della cautela.

2.2 Nel caso di specie, gli elementi prodotti dal
pubblico ministero sono riferiti a fatti di reato sicuramente
“diversi” da quelli per cui era stata applicata la misura cautelare;
la produzione, peraltro, è avvenuta in udienza con attivazione del
contraddittorio, che si è sviluppato in modo compatibile con la struttura
contratta del rito camerale.

Nondimeno, rileva il Collegio come, sebbene riferita
a fatti di reato “diversi” da quelli per cui si procede, la
produzione del pubblico ministero sia comunque pertinente al fatto contestato:
gli elementi introdotti sono stati, infatti, prodotti all’esclusivo fine di
accrescere il compendio indiziario disponibile per la valutazione
dell’intensità del pericolo di reiterazione e tale specifica finalità
dimostrativa rende irrilevante il fatto che i documenti riguardino fatti
diversi da quelli per cui si procede, con conseguente infondatezza della
censura proposta al riguardo.

3. Non colgono nel segno le doglianze proposte, con
differenti accentuazioni, nel secondo motivo di ricorso in riferimento alla
qualificazione giuridica dei fatti.

3.1. L’elaborazione giurisprudenziale
giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro ha delineato i
tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo, che si configura ove ricorra
l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del
datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore
medesimo (Ex multis Sez. L, n. 12437 del
21/05/2018, S. contro N., Rv, 648956) che unifica la condotta,
unitariamente considerata.

Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una
peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una
ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di
plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore
alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti
datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato
alla prevaricazione (Sez. L, n. 10992 del 09/06/2020, V. contro A., Rv, 657926,
N. 4222 del 2016 Rv. 639204, N. 12437 del 2018 Rv. 648956, N. 26684 del 2017 Rv. 646150).

In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di
«mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere
ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente
nell’ambiente di lavoro».

3.2. In riferimento alla rilevanza penale delle
condotte di mobbing, questa Corte ha affermato come le pratiche persecutorie
realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua
emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia,
qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura
para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da
consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei
confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del
rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6, n. 14754 del
13/02/2018, P.C. in proc. M., Rv. 272804, N. 28603
del 2013 Rv. 255976, N. 13088 del 2014 Rv.
259591, N. 24057 del 2014 Rv. 260066, N. 24642
del 2014 Rv. 260063).

Sempre valorizzando il piano della relazione –
verticale – tra le parti, si è precisato come, in tema di esercizio del potere
di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto
dall’art. 571 cod. pen. la condotta del datore
di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella
specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con
frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la condotta del datore di
lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto
avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad
assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla
libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di
disagio psichico (Sez. 6, n. 51591 del 28/09/2016, V., Rv. 268819, N. 10090 del
2001Rv. 218201).

Si è, in tal senso, rimarcato il profilo di abuso di
quegli obblighi di protezione che caratterizzano tanto il rapporto di lavoro
subordinato, dalla parte datoriale, che i vincoli latu sensu (para)familiari,
in un’ottica indirizzata alla verifica della lesione all’integrità fisica, che
ha sciolto l’alternativa tra la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 582 o degli artt.
571 e 572 cod. pen. e limitando l’Indagine
al bene- interesse della salute (V. Sez. 5, n.
33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv. 237439).

3.3. Siffatta visione, tutta incentrata sulla tutela
dell’integrità psico-fisica della vittima, insiste, nondimeno, sulla
connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di
plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e
preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro; e
non esclude – ma, anzi, conferma – la riconducibilità dei fatti vessatori alla
norma incrimlnatrice di cui all’art. 612-bis cod.
pen., ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in
particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati.

Ed invero il delitto di atti persecutori – che ha
natura di reato abituale e di danno – è integrato dalla necessaria reiterazione
dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo
inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento,
che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso,
sicché ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una
condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi,
alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 7899
del 14/01/2019, P., Rv. 275381), che condividono il medesimo nucleo essenziale,
rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle
condotte persecutorie (Sez. 5, n. 11931 del 28/01/2020, R., Rv. 278984).

Ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare
giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in
qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene interesse
tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della
necessaria verifica causale.

In altri termini, il contesto entro il quale si
situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia
determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa,
determinando uno degli eventi previsti dall’art.
612-bis cod. pen.. Ed assume mero contenuto descrittivo, che peraltro
registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a
diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche
“ambientazioni” (cd. stalking condominiale, giudiziario…).

Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto,
alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612-bis cod. pen. laddove quella «mirata
reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità
verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente
nell’ambiente di lavoro», elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza
del fenomeno (V, supra §, 3.1), sia idonea a cagionare uno degli eventi
delineati dalla norma incriminatrice.

4. Alla luce di quanto premesso, s’appalesano
inconducenti le censure rassegnate dal ricorrente.

4.1. Del tutto infondato il rilievo volto a
ritagliare una sorta di zona franca dalla ravvisabilità dello stalking in
ambito lavorativo, che ignora in foto la verifica causale e la natura di danno
della fattispecie e che, peraltro, prospetta una visione atomistica della
libertà morale, oggetto di tutela, limitandola nel diversi settori della vita
in cui si esplica la personalità individuale,

4.2. Le censure mirate, invece (punto 2.2 del
secondo motivo), alla qualificazione giuridica del fatto devoluto al giudice
del merito si risolvono in una analitica rivisitazione della piattaforma
indiziaria, di cui si contesta non già la motivazione, bensì il fondamento
decisionale, come tale sottratto al controllo di questa Corte.

Il ricorso Indugia, difatti, nella diretta
valutazione delle fonti di prova, proponendone una valenza alternativa e,
sostanzialmente, atomistica e frammentaria dei molteplici episodi invece
unitariamente ricondotti nell’ordinanza impugnata.

Ed in tal senso, si richiamano le osservazioni già
rassegnate supra ai parr. 1.2 e 1.3..

L’ordinanza impugnata ha, per contro, ampiamente
rassegnato i plurimi atti vessatori a cui è rimasta esposta la persona offesa,
culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, enucleandone – con
argomentazione corretta in diritto e del tutto razionalmente giustificata – i
tratti essenziali del reato sub a) in considerazione delle comprovate
conseguenze (stato d’ansia e di paura; modifica delle abitudini di vita), in
piena conformità allo standard per cui, in tema di appello cautelare, il
tribunale della libertà, che accoglie l’appello del pubblico ministero avverso
decisione di rigetto della misura cautelare del giudice per le Indagini
preliminari, seppure non è tenuto ad una motivazione rafforzata, necessaria
solo In sede di giudizio quando viene riformata una sentenza assolutoria, deve
comunque procedere ad una verifica, sia pure implicita, degli argomenti a
sostegno della decisione impugnata, se interferenti con i presupposti della
divergente valutazione adottata In sede di appello, configurandosi altrimenti
un vizio della motivazione (Sez. 5, n. 10995 del 12/12/2019, Di Matteo, Rv.
278797).

Il secondo motivo di ricorso è, pertanto, infondato.

5. E’, del pari, inconducente il terzo motivo.

5.1. Anche in riferimento all’incolpazione
provvisoria del reato di cui all’art. 610 cod. pen.,
il ricorrente riproduce le medesime censure in fatto, lamentando la preterizione
di elementi a discarico di cui non è dedotta la decisività nella prospettiva di
un diverso epilogo decisorio ma, ancora una volta, la diversa lettura elaborata
dalla difesa.

L’ordinanza impugnata ha, per contro, dato atto di
una condotta di costrizione della persona offesa, alla quale veniva impedito di
lasciare l’ufficio e che si risolveva con l’intervento persino degli operatori
del 118, rispetto alla quale il contributo conoscitivo delle fonti indicate a
discarico non s’appalesa risolutivo in senso diverso da quello ritenuto – e
rappresentato senza evidenti disarticolazioni – in sede cautelare.

5.2. Né il ricorso si confronta con il principio per
cui è configurabile il concorso tra il delitto di violenza privata e quello di
atti persecutori, non sussistendo tra di essi un rapporto strutturale di
specialità unilaterale ai sensi dell’art. 15 cod. pen., dal momento che II
delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen.,
diversamente dal primo, non richiede necessariamente l’esercizio della violenza
e contempla un evento – l’alterazione delle abitudini di vita della vittima –
di ampiezza molto maggiore rispetto alla costrizione della vittima ad uno
specifico comportamento, che basta ad integrare il delitto previsto dall’art. 610 cod. pen. (Sez. 5, n. 22475 del
18/04/2019, P., Rv. 276631, N. 4011 del 2016: in motivazione, la Corte ha
precisato che neppure impiegando il criterio della “specialità reciproca
per specificazione” potrebbe pervenirsi all’assorbimento del delitto di
violenza privata in quello di atti persecutori, sussistendo al più tra le due
fattispecie astratte, in ragione di quanto detto, un rapporto di
“specialità reciproca per aggiunta”; Rv. 265639, N. 2283 del 2015 Rv.
262727), avendo anche al riguardo il Tribunale correttamente Isolato la
condotta sub b), connotata di un autonomo disvalore per l’intensità della
lesione, rispetto al più ampio contesto persecutorio.

6. Sono infondate le censure rivolte alle esigenze
cautelari.

6.1. in punto di (in)adeguatezza della diversa
misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa, l’ordinanza impugnata
ha ampiamente argomentato riguardo gli indicatori di inaffidabilità
dell’indagato, esplicitamente richiamando non solo la perdurante condotta
illecita, ex se espressiva di incontinenza comportamentale, anche nel quadro di
vessazioni rivolte ad altre dipendenti, ma anche i pretestuosi ritorni presso
l’ufficio di (omissis) e i reiterati tentativi di avvicinamento alla persona
offesa, successivi alla querela, giustificati ancora una volta da una
prospettazione del tutto soggettiva e che resta comunque indenne dal vizio
denunciato, anche in riferimento alla circostanza che l’indagato fosse o meno
consapevole dell’esistenza di una richiesta di misura cautelare a suo carico.

Di guisa che la circostanza della intervenuta
separazione societaria e della diversa collocazione delle parti è stata
ritenuta, con motivazione ineccepibile, non sufficiente a scongiurare il
pericolo di reiterazione.

Ne viene che anche le critiche rivolte alla
valutazione di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione del reato
non si confrontano con il giudizio prognostico puntualmente svolto dal
tribunale, mirato sulla personalità dell’indagato come ricostruita alla stregua
dei fatti accertati e prospetticamente ritenuta inaffidabile, in piena aderenza
ai canoni che governano l’applicazione delle misure restrittive in termini di
extrema ratio.

6.2. Le doglianze svolte in relazione al pericolo di
inquinamento probatorio sono meramente assertive ed astrattizzanti, avendo
anche sul punto il Tribunale evidenziato concreti indici di compromissione
delle prove in fieri nella pervicace ed insistente ricerca di contatto
dell’indagato con la persona offesa ed il complessivo contesto ambientale, non
disgiunta da una componente di tipo intimidatorio.

Non sussiste, pertanto, la violazione di legge
denunciata.

7. Al rigetto del ricorso segue la condanna del
ricorrente ex art. 616 cod. proc. pen, al
pagamento delle spese processuali.

8. Va disposto l’oscuramento delle generalità e
degli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03, in caso di
diffusione.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento
omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03 in quanto
imposto dalla legge.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2020, n. 31273
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