Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 novembre 2020, n. 25983

Stato passivo del Fallimento, Differenze retributive e TFR,
Attività dirigenziale, Insussistente formalizzazione di un contratto di lavoro
subordinato di dirigente, Natura autonoma del rapporto, Titolarità di cariche
sociali che ne fanno un alter ego dell’imprenditore, Necessaria verifica delle
modalità di svolgimento del lavoro, Caratterizzazione delle mansioni svolte

 

Premesso

 

che con decreto del 21 aprile 2017, depositato il 26
successivo, il Tribunale di Alessandria ha respinto l’opposizione proposta da
E.R. nei confronti del decreto che aveva reso esecutivo lo stato passivo del
Fallimento della F. S.r.l. e con il quale era stata rigettata l’istanza di
ammissione al passivo, in via privilegiata ex art.
2751 bis cod. civ., per la somma complessiva di euro 198.608,53 a titolo di
differenze retributive e t.f.r., in relazione all’attività dirigenziale che il
ricorrente assumeva di avere svolto a favore della società negli anni
2012-2016;

– che il Tribunale – premesso che il R. aveva in
sostanza rivestito la qualifica di institore in virtù dei poteri conferitigli
con procura speciale; richiamata la giurisprudenza di legittimità in tema di
subordinazione nel lavoro dirigenziale; esaminate le risultanze delle prove
testimoniali – ha concluso nel senso che gli elementi emersi dall’istruzione
erano da ritenersi incompatibili con il vincolo della subordinazione e tali,
invece, da evidenziare la natura autonoma del rapporto intercorso fra le parti;

– che, in particolare, il Tribunale ha osservato a
sostegno della propria decisione: – che al ricorrente era stato conferito
l’incarico di risanare la società e che lo stesso, al fine di realizzare tale
obiettivo, l’aveva amministrata di fatto; – che non era risultato che egli
fosse stato vincolato in qualche modo alle direttive dell’Amministratore, anche
nella forma c.d. attenuata propria del lavoro dirigenziale; – che il compenso
pattuito avrebbe dovuto essere corrisposto dopo il risanamento della società e
sempre che il ricorrente non avesse optato per l’attribuzione di quote sociali;

– che avverso detto decreto ha proposto ricorso per
cassazione il R. con due motivi, cui ha resistito il Fallimento F. S.r.l. con controricorso;

– che il ricorrente ha depositato memoria
illustrativa;

 

Rilevato

 

che con il primo motivo il ricorrente deduce il
vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.
in riferimento all’art. 2094 cod. civ., per
avere il Tribunale omesso di considerare fatti rilevanti e dimostrati in causa,
o per non avere attribuito ad essi l’importanza che era loro propria, in
particolare trascurando: le direttive di natura programmatica date all’inizio
del rapporto; lo stabile inserimento nella organizzazione aziendale; i rapporti
con i dipendenti della società e con i clienti e fornitori della medesima; la
messa a disposizione di una postazione aziendale; la pattuizione dì una
retribuzione fissa mensile;

– che con il secondo motivo il ricorrente deduce, in
relazione agli stessi elementi, il vizio di cui all’art.
360 n. 5, dolendosi di una motivazione che, per avere considerato soltanto
alcuni fatti e non altri e non avere compiuto un’approfondita disamina di
quelli trascurati, era da ritenersi solo apparente;

 

Osservato

 

che i motivi di ricorso possono essere esaminati
congiuntamente, in quanto connessi;

– che al riguardo, e in primo luogo, si deve
rilevare come il giudice di merito abbia fatto esatta applicazione del
principio di diritto, per il quale, ai fini della qualificazione come lavoro
subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di
cariche sociali che ne fanno un alter ego dell’imprenditore (e così pure nel
caso di preposizione institoria ex art. 2203 cod.
civ.: Cass. n. 2020/1993), è necessario – ove non sussista alcuna
formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di dirigente – verificare
se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all’interno
della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione
delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve
o attenuata, alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro
(e, in particolare, dell’organo di amministrazione della società nel suo
complesso), nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione
dell’assetto organizzativo aziendale (Cass. n.
9463/2016; conforme Cass. n. 18414/2013,
già cit. nel decreto impugnato); con la conseguenza che non è nella specie
configurabile alcuna violazione dell’art. 2094 cod.
civ.;

– che egualmente il decreto impugnato si sottrae
alla censura di motivazione apparente, tale essendo unicamente la motivazione
che, sebbene graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il
fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente
inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione
del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di
integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. U n. 22232/2016;
conforme Cass. n. 13977/2019);

– che, d’altra parte, il ricorso, là dove denuncia
il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.,
non si attiene al modello del nuovo vizio “motivazionale”, quale
risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito
con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134,
e delle precisazioni fornite da questa Corte a Sezioni Unite, quanto a
perimetro applicativo e oneri di deduzione, con le sentenze
n. 8053 e n. 8054 del 2014 e con le molte che ad esse si sono conformate;

– che, in realtà, nella sostanza delle censure
svolte con i motivi ora (congiuntamente) in esame, il ricorrente esprime un
dissenso “di merito” rispetto alle valutazioni espresse dal Tribunale
di Alessandria, proponendo una rilettura del materiale probatorio e un diverso
apprezzamento dei fatti e cioè sollecitando a questa Corte di legittimità una
pronuncia che non appartiene alle funzioni e al ruolo alla stessa assegnati
dall’ordinamento;

– che è del tutto consolidato il principio, secondo
il quale i vizi posti a base del ricorso per cassazione non possono risolversi
nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella
operata dal giudice di merito, o consistere in censure che investano la
ricostruzione della fattispecie concreta, o che siano attinenti al difforme
apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a
quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito individuare
le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne
l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie
quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza
all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla
legge (Cass. n. 2991/2009, fra le numerose conformi);

– che nel medesimo senso Cass.
n. 9900/2015 ha ribadito l’inammissibilità dei motivi, con i quali la parte
intenda far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal
giudice di merito alla propria valutazione di essi e, in particolare, prospetti
un soggettivo, migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati
acquisiti: posto che “tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della
discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti
del fatto, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili
vizi del percorso formativo rilevanti ai sensi dell’art.
360 n. 5 cod. proc. civ.” e che “diversamente il motivo del
ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di
revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni
raggiunte dal giudice di merito, cui non può imputarsi di aver omesso
l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e la disamina degli elementi di
giudizio ritenuti non significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono
richieste”;

 

Ritenuto

 

conclusivamente che il ricorso non può trovare
accoglimento;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 5.000,00 per
compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese
generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso, a
norma del comma 1 bis dello stesso articolo
13.

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