Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 dicembre 2020, n. 36778

Lavoro, Violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni
sul lavoro, Accesso all’area pericolosa del macchinario senza azionare il
dispositivo di blocco, Responsbilità

 

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte d’appello di Bologna, in data 5 marzo
2019, ha riformato la sentenza con la quale il Tribunale di Rimini, in data 17
novembre 2015, aveva assolto G.C. dal reato di omicidio colposo con violazione
di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e la L.A.M. s.r.l.
dall’illecito amministrativo ex art. 25-septies
comma 2, D.Lgs. 231/2002, rispettivamente contestati come commessi in danno
di M.G., deceduto in San Giovanni di Marignano il 15 gennaio 2008. Per
l’effetto il C. veniva condannato alla pena di otto mesi di reclusione, con
pena sospesa, e la L.A.M. s.r.l. veniva condannata al pagamento della sanzione
amministrativa di euro 20.000,00.

Il C. risponde del reato nella sua qualità di datore
di lavoro della vittima e legale rappresentante della L.A.M. s.r.l. da cui il
G. dipendeva; l’infortunio mortale, secondo l’assunto accusatorio recepito
nella sentenza d’appello, si sarebbe verificato all’interno dello stabilimento
della società mentre il suddetto dipendente lavorava al quadro comandi di un
macchinario per la cesoiatura – punzonatura di fogli metallici; a un tratto il
meccanismo della macchina si inceppava e il G. si sarebbe introdotto nell’area
pericolosa attraverso un cancelletto realizzato abusivamente anziché attraverso
l’apposito varco protetto (munito di fotocellule che avrebbero bloccato il
funzionamento della macchina); perciò, mentre egli tentava di sbloccare la
macchina rimuovendo il materiale che l’aveva inceppata, il carrello di alimentazione
ripartiva e travolgeva il G., cagionandone la morte.

Secondo l’imputazione, formulata non solo a carico
del C. ma anche nei confronti di altri soggetti facenti parte dell’organigramma
della società, l’addebito era quello di aver disposto la realizzazione del
cancelletto abusivo da cui il G. era entrato nella zona a rischio del
macchinario, laddove, se egli si fosse introdotto in tale area attraverso
l’apposito varco munito di fotocellule, il macchinario si sarebbe
automaticamente bloccato, consentendo in sicurezza l’operazione di rimozione
del materiale che lo aveva inceppato. Alla L.A.M. s.r.l. veniva addebitato il
suddetto illecito amministrativo, correlato al reato attribuito al C. (soggetto
apicale), perché commesso nell’interesse e a vantaggio della predetta società
mediante l’omissione delle misure di prevenzione previste dalla legge allo
scopo di eseguire i lavori in modo più rapido e meno costoso.

Mentre la sentenza di primo grado aveva escluso che
fosse stato accertato che il G. aveva avuto accesso all’area pericolosa
passando dal cancelletto realizzato abusivamente, la Corte di merito ha
ritenuto acclarato che egli fosse entrato proprio da quest’ultimo varco, non
facendo così scattare il dispositivo di sicurezza che avrebbe altrimenti bloccato
il macchinario: a tale fine, sono stati risentiti in sede di rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale il teste G. e il perito ing. F.; e, a seguito di
tale integrazione probatoria, i giudici d’appello hanno ritenuto che fosse da
escludere il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza, con conseguente
certezza dell’accesso del G. all’area pericolosa attraverso il varco abusivo.
Di ciò, secondo la sentenza impugnata, deve rispondere il C., nella sua qualità
datoriale di garante generale della sicurezza dei lavoratori, avendo egli
omesso di vigilare in ordine alla realizzazione del cancelletto e all’utilizzo
dello stesso, la cui presenza – osserva la Corte di merito – era ampiamente
nota all’interno della fabbrica; sussiste conseguentemente, sempre per la Corte
distrettuale, anche l’illecito amministrativo contestato alla L.A.M. s.r.l..

2. Avverso la prefata sentenza ricorrono sia il C.
che la L.A.M. s.r.l..

3. Il ricorso del C. é articolato in quattro motivi.

3.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
violazione di legge processuale (con particolare riferimento agli artt. 521 e 522
cod.proc.pen.) in relazione al contenuto dell’imputazione mossa a carico
del C., cui si addebita di avere disposto la realizzazione del cancelletto
abusivo dal quale il G. sarebbe entrato nell’area a rischio. A fronte di tale
imputazione – sottolinea il ricorrente riportando un ampio stralcio della
sentenza impugnata – la sentenza con la quale é stata ribaltata la decisione
assolutoria di primo grado imputa al C. di non avere esercitato la dovuta
vigilanza sul corretto utilizzo del dispositivo di protezione (ossia l’accesso
collegato alle fotocellule): ossia una condotta omissiva – riferita a un
profilo di culpa in vigilando – diversa da quella oggetto di contestazione, ed
anzi costituente un fatto nuovo. In aggiunta a ciò, nessuna delle fonti di
prova orale (in particolare G. Corrado, sentito sia in primo che in secondo
grado; M.C., sentito in primo grado; e lo stesso coimputato F., che pure era
venuto a conoscenza della realizzazione del varco abusivo) ha riferito in
ordine a qualsivoglia comunicazione rivolta al datore di lavoro o alla
direzione aziendale circa la presenza del cancelletto, il quale peraltro era
camuffato dalla presenza di bulloni verniciati (e quindi praticamente
invisibile).

3.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta
vizio di motivazione in riferimento all’esclusione della penale responsabilità
dei coimputati R. F. (responsabile di produzione) e G.M. (responsabile di
stabilimento) e all’esclusiva attribuzione di tale responsabilità al C.:
richiamando stralci della sentenza impugnata e brani dell’audizione del F., il
ricorrente evidenzia che costui, nella sua qualità, era da tempo venuto a
conoscenza della presenza del cancelletto abusivo e non si era preoccupato di
avvisare il C., né di impedire l’utilizzo di quel varco pericoloso; quanto al
Montagna, anch’egli era certamente a conoscenza dell’avvenuta realizzazione del
cancelletto e, altrettanto certamente, non ne aveva reso edotto il C..
Quest’ultimo é stato invece ritenuto unico responsabile, in un’ottica molto
simile a quella della responsabilità oggettiva per fatto altrui, sebbene non vi
fossero elementi per affermare che egli fosse a conoscenza o potesse venire a
conoscenza della presenza di un varco abusivamente realizzato, che consentiva
di accedere all’area pericolosa del macchinario senza che venisse azionato il
dispositivo di blocco.

3.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta
violazione di legge processuale (con particolare riferimento all’art. 603, cod.proc.pen.). Sottolinea il deducente
che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, deliberata d’ufficio dalla
Corte di merito (dopo avere rigettato la richiesta del P.G. ricorrente in tal
senso), veniva espletata mediante nuova audizione del teste G.; quanto
all’audizione del perito G.R., pure disposta d’ufficio dal Collegio d’appello e
divenuta impossibile per il decesso del G., inopinatamente la Corte di merito
ne disponeva la sostituzione con l’audizione del consulente tecnico F., escusso
in sede di incidente probatorio – durante il quale i consulenti degli imputati
erano rimasti assenti – in modo da recuperare un pieno contraddittorio,
consentendo la partecipazione ed eventualmente la richiesta di audizione dei
consulenti di parte. Il tema di prova veniva tuttavia delimitato dalla Corte
territoriale al verificarsi o meno del blocco dell’organo lavoratore in sede di
esperimento giudiziale, in occasione del transito dal varco collegato alle
fotocellule, mentre venivano dichiarate inammissibili le domande relative, in
particolare, alle caratteristiche e al funzionamento del sistema di barriere a
fotocellule in relazione alla normativa comunitaria (c.d. Direttiva macchine).
Oltre a ciò, a fronte della richiesta difensiva di ammettere l’audizione anche
del consulente tecnico del C., ing. B., la Corte – che pure ne aveva anticipato
l’ammissione – dichiarava inammissibile ogni ulteriore richiesta istruttoria
(compresa l’audizione del C.T. B.).

3.4. Con il quarto e ultimo motivo di ricorso si
denuncia vizio di motivazione, anche con travisamento della prova, in ordine
alle finalità di realizzazione del varco abusivo, che la Corte di merito ha ritenuto
essere finalizzato a consentire di evitare l’interruzione del ciclo produttivo
a vantaggio della L.A.M. s.r.l., laddove non solo il C.T.D. ing. B., ma anche
il perito G.avevano attribuito a tale varco tutt’altra funzione, ossia quella
di evitare ai lavoratori un più faticoso trasporto degli utensili.

4. Il ricorso della L.A.M. s.r.l. consta di tre
motivi.

4.1. Con il primo motivo la Società ricorrente
denuncia violazione di legge processuale con riferimento al combinato disposto
degli articoli 191 e 403
cod.proc.pen., in relazione all’audizione – nel quadro della rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale – dell’ing. F., con conseguente recupero (come
già evidenziato nel terzo motivo del ricorso C.) di una fonte di prova
soggettivamente inutilizzabile perché precedentemente assunta con incidente
probatorio al quale la persona giuridica non aveva partecipato per il tramite
del proprio difensore. L’inutilizzabilità del contributo dell’ing. F. in sede
di incidente probatorio era stata peraltro dichiarata in primo grado con
apposita ordinanza del Tribunale, non impugnata dal Pubblico ministero
appellante e come tale da reputarsi definitiva. L’audizione dell’ing. F. in
appello si risolveva quindi nell’acquisizione di una prova dichiarativa il cui
contributo, determinante ai fini della condanna dell’Ente, costituiva la fase
terminale di altra prova che nei confronti della L.A.M. s.r.l. é certamente
inutilizzabile.

4.2. Con il secondo motivo la Società deducente
lamenta erronea applicazione della legge penale – segnatamente dell’art. 12, D.Lgs. 231/2001 – in
relazione alla commisurazione della sanzione amministrativa pecuniaria, che
doveva essere ridotta in misura compresa fra la metà e i due terzi in
applicazione del terzo comma del citato art. 12: in aggiunta al
risarcimento del danno (in relazione al quale la sanzione di € 30.000 é stata
ridotta in ragione di un terzo ex art.
12, comma 2, lettera A) doveva infatti tenersi conto che la L.A.M. s.r.l.,
prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, aveva adottato e reso
operativo un modello di organizzazione, gestione e controllo ex art. 8 del D.Lgs. 231/2001,
idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

4.3. Con il terzo motivo si deduce vizio di
motivazione in relazione al “travisamento per omissione” delle
testimonianze fornite dal perito ing. G.e dal consulente tecnico della difesa
ing. B., in base alle quali la funzione del cancelletto abusivo non aveva nulla
a che vedere con logiche di risparmio, ma era quella di consentire agli operai
di caricare più agevolmente gli utensili: sulla questione il motivo di ricorso
in esame si sovrappone sostanzialmente alle argomentazioni del quarto motivo
del ricorso C.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso del C. é fondato sotto più profili.

In primo luogo, e con specifico riferimento al primo
motivo di ricorso, deve ravvisarsi un’evidente discrasia fra l’oggetto
specifico dell’imputazione – che poneva a carico di tutti gli imputati, ed
anche del C., l’addebito di avere disposto la realizzazione del cancelletto
abusivo – e la condotta criminosa ravvisata dalla Corte d’appello come
colpevole da parte dell’odierno ricorrente, qualificabile come culpa in
vigilando, per non avere il C. esercitato il dovuto controllo su quanto
accadeva all’interno dello stabilimento e, dunque, anche sulla realizzazione
del varco da cui sarebbe transitato il G.

Non si tratta unicamente di una condanna per colpa
omissiva a fronte di un’imputazione per colpa commissiva, ma di una modalità
affatto diversa e del tutto incompatibile con l’originaria qualificazione
dell’oggetto dell’imputazione, per di più in seguito a una pronunzia di
assoluzione in primo grado dall’addebito originario. In altre parole, a carico
del C. si é ravvisato un fatto radicalmente diverso rispetto a quello
contestato.

In giurisprudenza si é, invero, affermato – sia pure
in una situazione in parte diversa rispetto a quella in esame – che, una volta
contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la
sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello della
condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di
correlazione tra accusa e sentenza; ma ciò a condizione che l’imputato abbia
avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in
relazione ad ogni possibile profilo dell’addebito (Sez. 4, n. 27389 del
08/03/2018, Siani, Rv. 273588). Nel caso di specie, il C. era chiamato a
rispondere dell’evento non voluto per una condotta volontaria e, comunque, consapevole
(quella di aver disposto che venisse realizzato il cancelletto) e, dopo un
procedimento di primo grado in cui egli era stato assolto da tale addebito, é
stato condannato in appello per una condotta omissiva ispirata a negligenza,
ossia quella di non avere adempiuto al suo dovere di vigilanza. E’ evidente
l’eterogeneità dei due addebiti, con conseguente compromissione del diritto di
difesa.

Tanto emerge soprattutto in relazione al thema
probandum esplorato dalla Corte di merito – e, per vero, anche dal Tribunale in
primo grado – ossia quello del funzionamento o del malfunzionamento
dell’accesso collegato alle fotocellule (essendosi ritenuto in primo grado che
tale punto non fosse stato chiarito, e in appello che il buon funzionamento del
dispositivo di sicurezza ad esso collegato fosse la prova logica che il G. era
entrato nell’area pericolosa dal varco vietato); non emerge in alcuno dei
passaggi argomentativi della sentenza di condanna che l’istruttoria abbia
riguardato la consapevolezza, da parte del C., della presenza del cancelletto
abusivo.

Venendo a quest’ultimo profilo (trattato anch’esso
nel primo motivo di lagnanza), é di tutta evidenza che l’accertamento della
conoscenza, da parte del C., dell’avvenuta realizzazione del varco incriminato
non é stato effettuato nel corso dell’istruzione dibattimentale e di quella
suppletiva effettuata in appello a seguito di rinnovazione parziale
dell’istruttoria.

La questione é liquidata dalla Corte felsinea con
poche battute, laddove si afferma – senza il benché minimo riferimento al
materiale probatorio raccolto – che non solo era pacifica la realizzazione «da
diverso tempo» del varco incriminato, ma anche «che la presenza di tale
apertura era ampiamente nota all’interno della fabbrica». Null’altro si dice a
proposito di tale cruciale aspetto, che – se sviluppato – avrebbe permesso al
C. di difendersi anche da tale (diverso) addebito, ossia quello di essere a
conoscenza del cancelletto realizzato abusivamente; né si fa alcun riferimento
alle fonti di prova in base alle quali tale diffusa conoscenza (peraltro non
riferita specificamente all’odierno ricorrente) sarebbe stata accertata
processualmente. Nulla risulta accertato in ordine a chi avrebbe disposto o
eseguito il varco. Nulla risulta accertato, inoltre, a proposito del fatto che
vi fosse una prassi illegittima all’interno dello stabilimento, costituita
dall’utilizzo più o meno ricorrente di tale accesso per entrare nell’area
pericolosa ove il G. rimase ucciso. Risulta invece accertato che il cancelletto
era realizzato con la stessa colorazione della recinzione di protezione
(sebbene la Corte di merito sostenga, senza fornire elementi specifici, che
esso fosse «comunque visibile», salvo poi definire “irrilevante” tale
aspetto ai fini della responsabilità del C. in quanto datore di lavoro e, come
tale, portatore di un debito di sicurezza di ordine generale nei confronti dei
dipendenti).

E’, allora, del tutto pertinente il richiamo del
ricorrente all’arresto giurisprudenziale in base al quale non può essere ascritta
al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in
vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della
conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale
(ossia sulla base di una finalizzazione di tali prassi a una maggiore
produttività), dalle quali sia scaturito l’evento (Sez.
4, n. 20833 del 15/05/2019, Stango, n.m.). Del resto in termini affatto
analoghi si é espressa la giurisprudenza di legittimità in altro, recente
arresto, in base al quale, in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una
prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della
sicurezza, non é ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo
dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della
sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez. 4, n.
32507 del 16/04/2019, Romano, Rv. 276797).

Nel caso di specie, si ripete, neppure é stata
argomentata nella sentenza impugnata la prova dell’esistenza di una prassi in
tal senso; ma, quand’anche tale prova fosse emersa in giudizio, sarebbe stato
comunque necessario accertare ulteriormente – quanto meno in via logica, e non
certo sulla sola base dell’astratta posizione di garanzia – che il datore di
lavoro fosse, o dovesse necessariamente essere, a conoscenza della prassi
incauta.

Invero, anche sul piano dell’utilità del cancelletto
abusivo in chiave di maggiore produttività (tema, questo, affrontato nel quarto
motivo di ricorso), la motivazione della sentenza impugnata si presenta del
tutto carente, limitandosi alla deduzione – pervero affatto assertiva e
sprovvista di uno specifico sostegno logico e probatorio – che il cancelletto
serviva a impedire l’interruzione del ciclo produttivo. A parte quanto si dirà
fra un attimo a proposito della mancata audizione del consulente della difesa
ing. B. da parte della Corte di merito nel corso del giudizio d’appello, deve
constatarsi che non solo costui, ma anche il perito d’ufficio G.aveva escluso
esplicitamente che lo scopo del cancelletto sarebbe stato quello di mantenere
la continuità del ciclo produttivo ed aveva affermato che esso serviva a far
«risparmiare fatica ai lavoratori».

Infine, é fondato anche il terzo motivo di lagnanza.
In luogo dell’audizione del perito G., deceduto nelle more del giudizio, la
Corte di merito aveva disposto l’audizione del perito F. (peraltro unicamente
sugli esiti dell’esperimento giudiziale relativo al funzionamento del varco collegato
alle fotocellule, e non anche sugli ulteriori temi di prova richiesti dalla
difesa); la deposizione del perito, diversamente da quanto pure la Corte di
merito aveva anticipato, non é stata però seguita da quella del consulente
della difesa ing. B., in quanto “inammissibile” secondo la Corte di
merito, pervenuta poi al convincimento di penale responsabilità del C.. Più in
generale, poi, la parziale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale che ha
preceduto il ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado non ha
avuto in alcun modo ad oggetto il tema della conoscenza o della conoscibilità,
da parte del C., della realizzazione del cancelletto, non essendo state
riesaminate fonti di prova orale decisive a tal fine.

In proposito va ricordato che sussiste l’obbligo,
per il giudice d’appello che intenda pervenire a reformatio in peius, di
rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che
abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini
del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016,
Dasgupta, Rv. 267487); merita pure di essere richiamato il principio in base al
quale, in tema di rinnovazione dell’istruttoria, il giudice di appello che
fondi sulle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico, nel corso
del dibattimento di primo grado, la riforma della sentenza di assoluzione, ha
l’obbligo di procedere alla loro rinnovazione, anche nel caso in cui in secondo
grado sia stata disposta nuova perizia, rendendo quest’ultima ancora più
pregnante l’esigenza di procedere al confronto dialettico tra le tesi sostenute
dai periti (Sez. 4, n. 31865 del 10/04/2019, Provincia di Massa Carrara, Rv.
276795); nel caso di specie, non essendo stata possibile una nuova audizione
del perito G.ma essendosi disposta nuova audizione del perito sentito in sede
di incidente probatorio (che era pervenuto a conclusioni diverse, oltretutto su
un tema estremamente ristretto e specifico), proprio la necessità di un
maggiore confronto dialettico tra tesi opposte, in una prospettiva di
ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado, avrebbe imposto di
procedere a nuovo esame del consulente tecnico della difesa.

2. Le ragioni suesposte risultano assorbenti, sul
piano logico, anche dei motivi posti a base del ricorso della L.A.M. s.r.l., la
cui posizione ai fini dell’attribuzione di responsabilità quanto al contestato
illecito amministrativo risulta strettamente dipendente dall’accertamento
dell’illecito penale e della sua attribuzione al soggetto apicale (il C.).

3. In base alle considerazioni che precedono, la
sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte d’appello di Bologna.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo
giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 dicembre 2020, n. 36778
Tag:
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: