Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 gennaio 2021, n. 703

Assegnazione della sede di lavoro, Risarcimento del danno,
Riferibìlità del “danno da sofferenza soggettiva” alla voce del danno
biologico, Danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti
inviolabili della persona, Risarcibilità anche quando non sussiste un
fatto-reato, Danno biologico (lesione della salute), morale (cioè la
sofferenza interiore) e dinamico-relazionale (peggioramento delle condizioni di
vita quotidiane), Pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti
risarcibili

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 15 febbraio 2016, la Corte
d’appello di Roma, in reiezione dell’impugnazione proposta da (…) ha
confermato la decisione del locale Tribunale che aveva parzialmente accolto la
domanda avanzata da (…) nei confronti della società, dichiarando
l’illegittimità dell’assegnazione del ricorrente alla sede di (…) in luogo di
quella di (…) da lui richiesta – nel cambio d azienda dalla (…) e condannato
la società di trasporto al pagamento della complessiva somma di euro 23.700,
oltre accessori e spese a titolo di risarcimento del danno.

1.1. In particolare, il giudice di secondo grado,
condividendo le conclusioni del primo giudice, ha ritenuto illegittima
l’assegnazione e corretta la quantificazione del danno operata dal Tribunale.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso,
assistito da memoria, la affidandolo a due motivi.

2.1. Resiste, con controricorso,

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., allegandosi, in particolare,
la inscindibilità del riconosciuto danno non patrimoniale rispetto al danno
biologico negato.

1.1. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la
violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,
2087, 2056 e 2059 cod. civ. allegandosi l’assenza di elementi
probatori atti a dimostrare il danno liquidato.

2. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per
l’intima connessione, non possono trovare accoglimento.

2.1. Va preliminarmente rilevato come debba essere
disattesa la censura afferente alla violazione del giudicato interno da parte
della Corte d appello.

Tale deduzione, infatti, è frutto di una erronea
interpretazione della domanda formulata in primo grado, nonché delle
conseguenze connesse al rigetto della richiesta di risarcimento del danno
biologico operata dal Tribunale atteso che, contrariamente a quanto asserito da
parte ricorrente, non sussiste la diretta riferibìlità del “danno da
sofferenza soggettiva” alla voce del danno biologico.

Giova premettere, al riguardo, come la decisione
delle Sezioni Unite n. 26972 dell’11 novembre 2008
(erroneamente indicata da parte ricorrente come 2973) abbia chiarito che il
danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della
persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di
una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. – anche quando non sussiste un
fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente
espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a)
che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza
costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via
interpretativa dell’art. 2059 cod. civ.,
giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e
cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che
la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia
minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le
minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti
dalla convivenza), (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non
consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto
immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

2.1.1. La giurisprudenza di legittimità (cfr. sul
punto, Cass. n. 901 del 17 gennaio 2018) afferma che la natura unitaria ed
onnicomprensiva del danno non patrimoniale, come statuita dalle Sezioni Unite
della S.C., deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà
rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente
protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il
giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze
derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di
evitare duplicazioni risarcitone, attribuendo nomi diversi a pregiudizi
identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo
ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di
prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di
esperienza, le presunzioni.

Invero, il danno biologico (cioè la lesione della
salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello
dinamico-relazionale (altrimenti definibile “esistenziale”, e
consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile
nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona)
costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti
risarcibili; né tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del
danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n.
26972 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacché quel
principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione
atomistica dei suoi effetti (Cfr., fra le altre, Cass.
n. 2285 del 3 ottobre 2013).

Questa Sezione ha poi chiarito che la liquidazione
del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire
l’intero pregiudizio a prescindere dai “nomina iuris” dei vari tipi
di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della
anzidetta liquidazione, nondimeno, sebbene il danno non patrimoniale
costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie del danno
biologico” e del “danno morale” continuano a svolgere una
funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in
esame dal giudice, al fine di parametrare la liquidazione del danno risarcibile
(Cass. n. 687 del 15/01/2014).

Orbene, va qui ulteriormente rilevato come in tema
di risarcimento del danno da demansionamento le Sezioni Unite (cfr. sul punto, SU n. 6572 del 24/03/2006) abbiano affermato che
il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non
meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul
fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti
relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione
e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio
con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo
rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di
precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità
all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione,
frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione
professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore
comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi
dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso
isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa,
attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto,
ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. cìv., a quelle nozioni
generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove.

3. Tale ultima massima consente di reputare
infondata la censura contenuta nel secondo motivo addotto da parte ricorrente
in ordine alla configurabilita di un automatismo risarcitorio nella
liquidazione operata dal giudice di primo grado e ritenuta congrua dalla Corte d’Appello.

3.1. Al riguardo, va premesso che, per consolidata
giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. IlI, n. 15107/2013) la
doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto
nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da
quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, atteso che il
giudice ha fatto corretta applicazione dei canoni vigenti in tema di prova del
danno.

Correttamente, la Corte d’appello ha infatti
rilevato che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, il ricorso
di primo grado conteneva specifiche allegazioni in ordine ai danni non
patrimoniali conseguiti alla mancata assegnazione presso la sede di Rieti,
avendo evidenziato che il ricorrente impiegava più di due ore e mezza per
raggiungere il posto di lavoro ed altrettante per tornare a (…)  essendo, quindi, costretto a percorrere una
distanza assai maggiore rispetto a quella percorsa per recarsi a  (…) (sede cui era assegnato prima di
chiedere il cambio d’azienda, proprio finalizzato al riavvicinamento alla
famiglia) con grave pregiudizio per la salute psico – fisica e l’impossibilità
di assistere adeguatamente la propria moglie, affetta da depressione
endoreattiva grave, richiedente il supporto assistenziale del marito, oltre che
quello farmacologico, come risultava dalla documentazione prodotta.

La Corte, quindi, sulla base della documentazione
medica, ed attribuendo rilevo anche ad una ricostruzione in chiave presuntiva
del danno fondata sull’id quod plerumque accidit, in termini di inferenza
probabilistica, ha ritenuto corretta la valutazione e determinazione equitativa
del danno operata dal giudice di primo grado, in tal modo conformandosi al
consolidato orientamento di legittimità secondo cui, nella prova per
presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e
quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale,
essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello
ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato “sull’id quod
plerumque accidit”, sicché il giudice può trarre il suo libero
convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari
prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e
concordanza (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 1163 del 21/01/2020).

Nel caso di specie, tali elementi sono stati
riscontrati nella notevole distanza chilometrica tra la sede assegnata e quella
cui (…) avrebbe avuto diritto, nel rilevante lasso di tempo occorrente per
coprire tale distanza, pari a cinque ore giornaliere, sottratte al tempo da
dedicare agli obblighi di assistenza familiare, nonche nel notevole periodo
temporale entro cui si è protratto l’inadempimento – pari ad oltre due anni –
nella natura della patologia sofferta dal coniuge convivente, tale da
richiedere, come confermato dalle certificazioni mediche in atti, controlli
clinici periodici e sostegno assistenziale da parte del marito.

4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, deve
ritenersi che qualsiasi diversa valutazione si tradurrebbe in un riesame nel
merito della vicenda, inammissibile in sede di legittimità.

4.1. Il ricorso, deve, quindi, essere respinto.

Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per ciascun ricorso, a norma
dell’art. 1 -bis dell’articolo 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente
alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, che
liquida in complessivi euro 3.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi,
oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 -bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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