Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 febbraio 2021, n. 2829

Personale dipendente del Ministero, Trattamento di fine
rapporto, LSU con contratto a tempo determinato, Stabilizzazione ex art. 1, co. 519, L. n. 296/2006
– Liquidazione plurimi TFR

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Palermo, con l’ordinanza n.
4/R/2014, pronunciando ai sensi dell’art. 348-bis,
348-ter e 436-615, cod. proc. civ., sull’appello proposto
dall’INPS. quale successore INPDAP, nei confronti di L.P.A.M., avverso la
sentenza n. 417 del 2013 emessa tra le parti dal Tribunale di Trapani, ha
dichiarato inammissibile l’appello.

2. Il Tribunale aveva condannato l’INPS, quale
successore INPDAP, a corrispondere a favore della lavoratrice, dipendente del
Ministero della giustizia, il trattamento di fine rapporto maturato nel periodo
dal 2 novembre 2000 al 28 dicembre 2008, in cui aveva lavorato, quale LSU con
contratto a tempo determinato presso la suddetta amministrazione, con gli
interessi legali dal 28 settembre 2009 al saldo.

La Corte d’Appello con precedenti pronunce aveva già
disatteso le tesi dell’INPS, negando la supposta continuità giuridica tra i due
rapporti lavorativi e sottolineando come vi fosse stata la successione di un
rapporto del tutto nuovo ad un altro anteriore, estinto, con conseguente
diritto della lavoratrice a percepire l’importo di TFR, computato sulla durata
del contratto estinto.

4. Per la cassazione della sentenza del Tribunale di
Trapani ricorre l’INPS prospettando un motivo di impugnazione.

5. La lavoratrice è rimasta intimata.

 

Ragioni della decisione

 

1. Occorre premettere che il rapporto di lavoro a
termine che viene in rilievo si è svolto nell’arco temporale dal 2 novembre
2000 al 28 dicembre 2008.

Dal 29 dicembre 2008 è intervenuto tra le parti un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

2. Tanto premesso può passarsi ad esaminare il
motivo di ricorso dell’INPS.

Il ricorrente prospetta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 2120 cod. civ., dell’art. 2, commi 5, 6, 7, 8, e 9, della
legge n. 335 del 1995, nonché del d.P.C.m. 20
dicembre 1999, in particolare dell’art. 1 dello stesso.

2.1. Premette il ricorrente che la lavoratrice aveva
prestato e prestava servizio presso il Ministero della giustizia, dapprima in
virtù di contratto a tempo determinato stipulato secondo le modalità stabilite
dalla legge n. 242 del 2000, in relazione al collocamento dei cosiddetti
lavoratori socialmente utili, più volte prorogato, intervenendo poi la
stabilizzazione per effetto dell’art.
1, comma 519, della legge n. 296 del 2006.

Tale stabilizzazione, precisa il ricorrente, veniva
realizzata mediante la stipula di un contratto individuale di lavoro a tempo
indeterminato, previa estinzione del precedente rapporto a tempo determinato,
estinzione che andava perfezionata tramite recesso del lavoratore dal
contratto, o per mutuo consenso.

La lavoratrice aveva avanzato le proprie dimissioni
dal servizio a tempo determinato, con effetto dal 29 dicembre 2008,
sottoscrivendo un nuovo contratto a tempo indeterminato, avente efficacia dalla
data del 29 dicembre 2008.

Il Tribunale di Trapani aveva affermato che
trovavano applicazione l’art. 2120 cod. civ.,
nonché l’art. 1, comma 6, del
d.P.C.m. 20 dicembre 1999, per cui spettava alla lavoratrice il TFR
maturato alla data di cessazione del periodo di servizio a tempo determinato.

Tanto premesso, rileva il ricorrente che la
statuizione della Corte d’Appello presuppone, erroneamente, l’integrale
applicazione della disciplina privatistica al Comparto del pubblico impiego
privatizzato.

Nella fattispecie in esame, invece, trovavano
applicazione gli artt. 2, commi
5, 6, 7. 8. e 9 della legge n. 335 del 1995, e il d.P.C.M. 20 dicembre 1999.

Nel pubblico impiego il TFR non è corrisposto dal
datore di lavoro nell’ambito del rapporto bilaterale, ma dall’INPS, terzo
rispetto al rapporto di lavoro.

Inoltre, ai sensi dell’art. 1, comma 7, del suddetto
d.P.C.m., per la gestione del fondo TFR per i dipendenti dello Stato, è fissato
un contributo previdenziale a favore dell’INPDAP, ora INPS, e a carico
dell’Amministrazione del 9,60.

Dunque peculiarità oggettive e soggettive
comportavano una diversa connotazione della disciplina, e facevano venire in
rilievo la cd. continuità previdenziale.

Mentre per i lavoratori del settore privato, ad ogni
cessazione del servizio il datore di lavoro provvede ad erogare il TFR
accantonato, per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in caso di
contratti succedutisi senza soluzione di continuità, non possono essere
liquidati plurimi TFR.

Da un punto di vista sistemico, liquidare il TFR ai
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, applicando la disciplina
civilistica, comporterebbe una previa revisione delle aliquote contributive di
riferimento, necessaria per garantire l’equilibrio finanziario della gestione,
che nella specie non era intervenuta.

L’Istituto richiama, a sostegno delle proprie
argomentazioni, Cass., n. 24474 del 2011, che
aveva cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto ammissibile l’istituto
della anticipazione del TFR per i pubblici dipendenti.

Sempre a sostegno delle proprie argomentazioni,
l’INPS ha richiamato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Tribunale di Reggio Emilia con ordinanza del 5 marzo 2013.

Nella fattispecie in esame, vi era stato un nuovo
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, successivo ma senza soluzione di
continuità con quello precedente a tempo determinato, pertanto il rapporto
previdenziale non era venuto meno.

Inoltre, la stabilizzazione era avvenuta mediante
stipula di un contratto a tempo indeterminato avente ad oggetto non solo le
identiche mansioni già precedentemente svolte presso la medesima
amministrazione, ma anche lo svolgimento della prestazione nella medesima
destinazione.

Dunque, nella specie, non era intercorso alcun lasso
temporale, il datore di lavoro era lo stesso, le mansioni erano rimaste
identiche, la prestazione era svolta nella medesima sede.

3. Il motivo non è fondato.

3.1. L’art.
1, comma 2, della legge 18 agosto 2000, n. 242. in attesa della revisione
delle piante organiche, al fine di garantire, in particolare, la piena
attuazione del decreto legislativo n. 51 del 1998,
istitutivo del giudice unico di primo grado, ove richiesto da carenze di
organico presso i vari uffici giudiziari, ha previsto che il Ministero della
giustizia poteva provvedere, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore
della presente legge, alla stipulazione di contratti a tempo determinato per
diciotto mesi, prioritariamente, per i lavoratori impegnati in lavori
socialmente utili, relativamente a progetti aventi scadenza massima successiva
al Io aprile 2000. ovvero impegnati nei lavori socialmente utili nelle sedi
periferiche della giustizia minorile ovvero utilizzati per progetti di utilità
collettiva presso uffici giudiziari su autorizzazione del Ministero della giustizia
(citato art. 1, comma 2,
lettera a).

Detti contratti, venivano successivamente prorogati
in ragione di diverse ulteriori disposizioni di legge.

Infine, l’art. 1, comma 519, della legge n.
296 del 2006, prevedeva un generale programma di stabilizzazione a domanda
del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre
anni, anche non continuativi, o che conseguiva tale requisito in virtù di
contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006, o che fosse
stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio
anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, che ne avesse
fatto istanza.

Purché fosse stato assunto mediante procedure
selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge.

Alle iniziative di stabilizzazione del personale
assunto a tempo determinato mediante procedure diverse, si provvedeva previo
espletamento di prove selettive.

La norma aveva poi previsto che le Amministrazioni
continuavano ad avvalersi del personale di cui al medesimo comma già assunto
con contratti a termine come specificato, nelle more della conclusione delle
procedure di stabilizzazione.

3.2. Sul tema in esame della frazionabilità sono
intervenute le Sezioni Unite civili con la sentenza n. 24280 del 2014.

Le Sezioni Unite hanno posto in evidenza
l’intervenuto cambiamento del quadro normativo, perché il legislatore, con la
riforma delle pensioni (legge n. 335 del 1995),
ha “armonizzato” i molteplici trattamenti di fine servizio dei
dipendenti pubblici contrattualizzati, assoggettandoli tutti alla disciplina
privatistica dettata dall’art. 2120 cod. civ.
(come riformato dalla legge n. 297 del 1982).

Alla stregua di questa normativa, il TFR spetta “in
ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato” (art. 2120 cod. civ., comma 1), quindi il
collegamento, per espressa previsione normativa, è con la cessazione del
rapporto di lavoro subordinato.

All’interprete non è consentito modificare il
contenuto della norma operando il collegamento con l’estinzione del rapporto
previdenziale, qualora le estinzioni dei due rapporti non coincidano.

Inoltre, il TFR viene costituito mediante
l’accantonamento anno per anno di quella che l’art.
2120 cod. civ. definisce una quota della retribuzione determinata dividendo
per 13.50 la retribuzione annua corrisposta, a titolo non occasionale, in
dipendenza del rapporto di lavoro.

Hanno, quindi affermato le Sezioni Unite che è
pertanto chiaro il carattere “retributivo e sinallagmatico” del TFR. Di
conseguenza, viene meno il ponte concettuale che permetteva di sostenere la
tesi della infrazionabilità del trattamento di fine servizio pur in presenza di
un’estinzione del rapporto di lavoro, quando ciò non implicasse anche
l’estinzione del rapporto previdenziale.

3.3. La natura retributiva del TFR ha trovato
conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 159 del 2019.

La suddetta sentenza ha affermato, tra l’altro, che
l’evoluzione normativa, stimolata dalla giurisprudenza costituzionale, ha
ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al
paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione
previdenziale, nell’ambito di un percorso di tendenziale assimilazione alle
regole dettate nel settore privato dall’art. 2120
del codice civile (decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999).

Tale processo di armonizzazione, contraddistinto
anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza Corte cost. n.
213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine
rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase
deir uscita dalla vita lavorativa attiva.

3.4. Dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, con
la pronuncia n. 24280 del 2014, ha fatto applicazione, in fattispecie analoga a
quella in esame, la sentenza di questa Corte,
Sezione Lavoro, n. 5895 del 2020, la cui motivazione si richiama ai sensi
dell’art. 118. disp. att., cod. proc. civ.

Cass. n. 5895 del 2020,
nel richiamare i principi enunciati dalle S.U., sopra riportati, ha affermato,
tra l’altro, che “la esigibilità del TFR è stata cioè ancorata ai medesimi
presupposti previsti per il lavoro privato e, dunque, alla cessazione giuridica
del rapporto di lavoro e non alla cessazione della iscrizione al fondo per il
trattamento di fine rapporto, gestito dall’INPS.

Resta pertanto irrilevante, al pari di quanto
previsto per il lavoro privato, la eventuale continuità temporale, in fatto, di
più rapporti di lavoro, in forza della quale permanga la iscrizione al fondo;
assume, invece, esclusivo rilievo ai fini della esigibilità del TFR la “cessazione
dal servizio” ovvero la cesura sotto il profilo giuridico tra due rapporti di
lavoro, seppure in successione temporale tra loro ed alle dipendenze della
medesima amministrazione statale”.

3.5. A tali principi si intende dare continuità, né
argomenti a sostegno della tesi del ricorrente possono trarsi dalla
giurisprudenza di legittimità richiamata dallo stesso – Cass., n. 24474 del 2011- atteso il diverso
istituto dell’anticipazione dell’indennità di buonuscita che in quella sede
veniva in rilievo.

Quanto al richiamo da parte dell’INPS all’ordinanza
di rimessione del Tribunale di Reggio Emilia, occorre rilevare che la Corte
costituzionale con la sentenza n. 244 del 2014
ha rigettato la questione escludendo la disparità di trattamento prospettata
dal giudice a quo e sostenuta anche dall’INPS nel presente ricorso.

3.6. Dei principi enunciati da Cass. S.U., n. 24280
del 2014, e Cass., Sezione Lavoro, n. 5895 del
2020, ha fatto corretta applicazione la Corte d’Appello, atteso che nella
fattispecie di causa è pacifico che il rapporto di lavoro a termine è cessato
per dimissioni ed è stato costituito un nuovo rapporto di lavoro a tempo
indeterminato – seppure alle dipendenze della stessa amministrazione –
assumendo tale dato rilievo dirimente.

4. Il ricorso deve essere rigettato. Nulla spese
poiché la controparte è rimasta intimata.

5. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’”ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 febbraio 2021, n. 2829
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