Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 gennaio 2021, n. 3255

Rapporto di lavoro, Impianti di videosorveglianza, Strumenti
di controllo lesivi della libertà e dignità dei lavoratori, Accertamento

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 19 giugno 2019, il
Tribunale di Viterbo ha dichiarato K.W.Y. colpevole del reato di cui agli artt. 4, primo e secondo
comma, e 38, legge 20 maggio
1970, n. 300, e gli ha irrogato la pena di 200,00 euro di ammenda, previa
concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Secondo quanto ricostruito dal Tribunale,
l’imputato, quale titolare di una ditta esercente l’attività di commercio al
dettaglio, aveva installato impianti video all’interno dell’azienda
utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto
l’accordo delle rappresentanze sindacali aziendali o dell’Ispettorato del
lavoro; il fatto è stato accertato il 16 maggio 2016.

2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la
sentenza del Tribunale indicata in epigrafe K.W.Y., con atto a firma
dell’avvocato A.B., articolando due motivi.

2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di
legge, in riferimento agli artt.
4, primo e secondo comma, e 38
legge 20 maggio 1970, n. 300, a norma dell’art.
606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla
configurabilità del reato ritenuto in sentenza.

Si deduce che gli impianti video installati non
erano strumenti di controllo lesivi della libertà e dignità dei lavoratori,
bensì sistemi difensivi a tutela del patrimonio aziendale. Si rappresenta che
questi impianti erano stati adottati a seguito del verificarsi di mancanze di
merce nel magazzino ed erano rivolti solo verso la cassa e le scaffalature. Si
segnala che, secondo la giurisprudenza, è sanzionabile l’installazione non concordata
di strumenti di controllo solo in caso di possibile controllo a distanza
dell’attività lavorativa dei dipendenti.

2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di
motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen., avendo riguardo ancora alla configurabilità del reato
ritenuto in sentenza.

Si deduce che la sentenza impugnata si pone in netto
contrasto con le risultanze istruttorie, e, in particolare con le dichiarazioni
della moglie dell’imputato, dalle quali si desume come gli impianti erano stati
installati a tutela del patrimonio aziendale, e non per controllare l’attività
dei dipendenti.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni
di seguito precisati.

2. La questione da esaminare è se sia configurabile
il reato per la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge 20 maggio 1970, n.
300 (c.d. “statuto dei lavoratori”), quando l’impianto
audiovisivo installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le
rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del
Lavoro, abbia la funzione di tutelare il patrimonio aziendale.

3. Sembra utile premettere che la fattispecie in
esame, originariamente prevista come reato dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970, è a
tutt’oggi penalmente sanzionata.

Chiarissima, in effetti, è l’indicazione data dall’art. 171 d.lgs. 30 giugno 2003, n.
196, nel testo vigente per effetto delle modifiche recate dall’art. 15, comma 1, lett. f), d.lgs.
10 agosto 2018, n. 101, il quale prevede: «La violazione delle disposizioni
di cui agli articoli 4, comma
1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui
all’articolo 38 della
medesima legge».

L’art.
38 legge n. 300 del 1970, a sua volta, nel testo attualmente vigente dopo
le modifiche di cui all’art. 179
d.lgs. n. 196 del 2003, stabilisce: «Le violazioni degli articoli 2, 5, 6 e 15, primo comma, lettera a),
sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l’ammenda
da euro 154 a euro 1.549 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno». Risulta
evidente, quindi, che la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge n. 300 del 1970
costituisce illecito penale in forza di quanto dispone l’art. 171 d.lgs. n. 196 del 2003,
nel testo vigente dopo la riforma di cui alla legge
n. 101 del 2018, il quale rinvia all’art. 38 della legge n. 300 del
1970 per la individuazione delle sanzioni applicabili.

Deve aggiungersi che la configurabilità
dell’illecito penale medio tempore, dopo le riforme recate all’art. 38 dall’art. 179 d.lgs. n. 196 del 2003 e
dall’art. 23 d.lgs. 14 settembre
2015, n. 151, ma prima della riforma di cui alla legge n. 101 del 2018, è stata ripetutamente
ribadita dalla giurisprudenza (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 4564 del 10/10/2017,
dep. 2018, Malagnino, Rv. 272032-01, nonché Sez. 3, n. 45198 del 07/04/2016,
Luzi, Rv. 268342-01, massimata per altro).

4. Il problema di una precisa individuazione dei
limiti di configurabilità della fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 e 179 d.lgs. n. 196 del 2003 emerge
da un esame complessivo della giurisprudenza, anche civile, di legittimità,
stante la, almeno apparente, diversità di soluzioni.

4.1. La descrizione della fattispecie incriminatrice
si rinviene nell’art. 4 della
legge n. 300 del 1970, atteso che, come anticipato, l’art. 38 della medesima legge
e l’art. 179 d.lgs. cit. sono
funzionali esclusivamente alla determinazione delle sanzioni.

Il testo dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970,
è stato modificato nel tempo.

Per quanto interessa in questa sede, il testo
originario dell’art. 4, nei
primi due commi, prevedeva: «[Primo comma] È vietato l’uso di impianti
audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza
dell’attività del lavoratore. [Secondo comma] Gli impianti e le apparecchiature
di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero
dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di
controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati
soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in
mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su
istanza del datore di lavoro, provvede l’ispettorato del lavoro, dettando, ove
occorra, le modalità per l’uso di tali impianti».

Il testo vigente dell’art. 4, comma 1, per effetto
delle riforme recate prima dall’art.
23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, e poi dall’art. 5, comma 2, d.lgs. 24 settembre
2016, n. 185, dispone: «Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai
quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e
produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio
aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla
rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali.
In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse
province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere
stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al
primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede
territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso
di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più
sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I
provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi». Sembra ragionevole
ritenere che la successione di discipline normative non ha apportato variazioni
significative alla fattispecie incriminatrice. In effetti, la condotta vietata
consisteva e consiste nella installazione degli impianti audiovisivi e gli
altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza
dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per
esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la
tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze
sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro. Le
modifiche legislative, piuttosto, sono relative all’individuazione dei soggetti
cui compete il potere di concordare o autorizzare l’installazione degli
impianti.

La precisazione appena compiuta, oltre che escludere
modifiche apprezzabili a norma dell’art. 2 cod. pen.,
evidenzia l’utilità e la rilevanza dell’analisi, ai fini della individuazione
degli elementi costitutivi della fattispecie, delle interpretazioni
giurisprudenziali anche in relazione al testo previgente dell’art. 4 legge n. 300 del 1970.

4.2. La specifica elaborazione in tema di
configurabilità del reato relativo alla illegale installazione di impianti
audiovisivi sui luoghi di lavoro ritiene penalmente rilevante anche la sola
potenzialità del controllo a distanza dei dipendenti.

Costituisce, infatti, principio ripetutamente
affermato quello secondo cui, ai fini della integrazione del reato di pericolo
previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori
e 114 e 171 del d.lgs. n. 196 del 2003,
che punisce l’installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo
con le rappresentanze sindacali aziendali, non è necessaria la verifica della
funzionalità dell’impianto né del concreto utilizzo dello stesso (cfr., in
particolare Sez. 3, n. 45198 del 07/04/2016, Luzi, Rv. 268342-01, e Sez. 3, n.
4331 del 12/11/2013, dep. 2014, Pezzoli, Rv. 258690-01, la quale ha ritenuto
penalmente rilevante la installazione all’interno di un supermercato di otto
micro-camere a circuito chiuso di cui alcune puntate direttamente sulle casse).

A fondamento di questa conclusione, si è rilevato
che la fattispecie in esame costituisce reato di pericolo, essendo diretta a
salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.

Appare importante evidenziare, tuttavia, che,
secondo una precedente decisione, «ai fini dell’operatività del divieto di
utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori ex L. n. 300 del
1970, art. 4 è necessario che il controllo riguardi (direttamente o
indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori
dall’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare
condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)» (così, in
motivazione, Sez. 3, n. 8042 del 15/12/2006, Fischnaller, Rv. 236077-01,
massimata per altro, la quale cita anche, quale ulteriore precedente, «Cass. 16
giugno 2002, n. 8388»).

4.3. Occorre tener conto, poi, della elaborazione
giurisprudenziale in tema di utilizzabilità come prove nel processo penale dei
risultati delle videoriprese effettuate sul luogo di lavoro a tutela del
patrimonio aziendale, in assenza di previo accordo con le rappresentanze sindacali
competenti e di previa autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

Secondo un orientamento ampiamente consolidato, sono
utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore
subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere
installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per
esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da
possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello
Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono
i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano
pertanto l’esistenza di un divieto probatorio (cfr., in particolare: Sez. 2, n.
2890 del 16/01/2015, Boudhraa, Rv. 262288-01; Sez. 5, n. 34842 del 12/07/2011,
Volpi, Rv. 250947-01; Sez. 5, n. 20722 del
18/03/2010, Baseggio, Rv. 247588-01).

In particolare, Sez. 5,
n. 20722 del 2010, Baseggio, cit., ha formalmente enunciato il seguente
principio: «Gli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori
implicano l’accordo sindacale a fini di riservatezza dei lavoratori nello
svolgimento dell’attività lavorativa, ma non implicano il divieto dei cd.
controlli difensivi del patrimonio aziendale da azioni delittuose da chiunque
provenienti.

Pertanto in tal caso non si ravvisa inutilizzabilità
ai sensi dell’art. 191 c.p.p. di prove di reato
acquisite mediante riprese filmate, ancorché sia perciò imputato un lavoratore
subordinato». A fondamento di questo principio, la decisione richiama la
precedente elaborazione della giurisprudenza di legittimità civile e penale (si
cita, in particolare, Sez. 2, n. 8687 del 28/05/1985, Gambino, Rv. 170591-01),
ed evidenzia che le norme di cui agli artt. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970
tutelano la riservatezza del lavoratore nello svolgimento della sua attività,
«anche perché la sua libertà di comportamento contribuisce al risultato che con
il lavoro assicura all’azienda», per cui, «inversamente, la tutela della sua
riservatezza si correla all’osservanza del proprio dovere di fedeltà», e,
quindi, «la finalità di controllo a difesa del patrimonio aziendale non è da
ritenersi sacrificata dalle norme dello Statuto dei lavoratori».

4.4. Ancora, la giurisprudenza civile di
legittimità, anche nei suoi arresti più recenti, ritiene che esulano
dall’ambito di applicazione dell’art.
4 della legge n. 300 del 1970, e non richiedono l’osservanza delle garanzie
ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare
comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto
più quando disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in
addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della
prestazione lavorativa (cfr., tra le tante: Sez. L
civ., n. 13266 del 28/05/2018, Rv. 649009-01; Sez.
L civ., n. 10636 del 02/05/2017, Rv. 644091-01; Sez.
L civ., n.22662 del 08/11/2016, Rv. 641604- 01).

Questo principio è affermato sul presupposto che
«l’interpretazione della disposizione [l’art. 4 legge n. 300 del 1970]
va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni
costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del
lavoratore nell’esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino
al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), ed il libero esercizio delle attività
imprenditoriale (art. 41 Cost.), con
l’ulteriore considerazione che non risponderebbe ad alcun criterio
logico-sistematico garantire al lavoratore – in presenza di condotte illecite
sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva – una tutela alla sua
“persona” maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei
all’impresa» (così, testualmente, in motivazione, Sez.
L civ., n. 10636 del 2017, cit.). Costante, inoltre, è l’osservazione che
tale soluzione ermeneutica risulta coerente con i principi dettati dall’art. 8 della CEDU in base al quale
nell’uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio
fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della
“ragionevolezza” e della “proporzionalità” (cfr. Corte EDU,
12/01/2016, Erarbulescu c. Romania secondo cui lo strumento di controllo deve
essere contenuto nella portata e, dunque, proporzionato).

5. Ad avviso del Collegio, deve escludersi la
configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui
all’art. 4 legge 20 maggio
1970, n. 300, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza,
sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le
rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del
Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale,
sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo
sull’ordinario svolgimento dell’attività 
lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente
“riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite
degli stessi.

5.1. Limiti ad una interpretazione eccessivamente
ampia della previsione di cui all’art. 4 della legge n. 300 del 1970
risultano desumibili sulla base del dato letterale e di considerazioni
sistematiche.

Per quanto concerne il primo aspetto, va rilevato
che il testo della disposizione appena citata, nell’originaria come nella
vigente formulazione, prevede la necessità di un preventivo accordo con le
organizzazioni sindacali, o di una preventiva autorizzazione dell’Ispettorato
del Lavoro, quando derivi «anche» la possibilità di controllo a distanza
dell’attività dei lavoratori. Di conseguenza, la previsione normativa non
sembra riferibile ad impianti che possano controllare in via del tutto
occasionale l’attività del singolo dipendente, come, ad esempio, potrebbero
essere, almeno tendenzialmente, quelli puntati sulla cassaforte o sugli
scaffali.

Per quanto attiene al secondo profilo, poi, appare
persuasiva l’osservazione che non risponderebbe ad alcun criterio
logico-sistematico garantire al lavoratore – in presenza di condotte illecite
sanzionabili penalmente o con il licenziamento – una tutela alla sua
“persona” maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei
all’impresa (così Sez. L civ., n. 10636 del 2017,
cit., ma anche Sez. 3, n. 8042 del 2006, Fischnaller, cit.).

5.2. Questi limiti all’operatività divieto di cui
all’art. 4 cit., però,
debbono essere intesi in senso non estensivo.

Tale precisazione risulta imposta già da quanto
espressamente stabilito dall’art.
4 legge n. 300 del 1970. Innanzitutto, infatti, l’art. 4 cit., prevede l’accordo
con le rappresentanze sindacali legittimate, o l’autorizzazione
dell’Ispettorato del Lavoro anche quando ricorrono «esigenze […] per la
tutela del patrimonio aziendale». Non è senza significato, poi, che l’art. 4 cit. prefigura, per il
caso di mancato accordo con le organizzazioni sindacali, la possibilità di
ottenere l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro: in questo modo, il
legislatore ha inteso tutelare le ragioni dell’impresa evitando, però,
soluzioni che possano determinare una significativa interferenza sul diritto
del lavoratore alla dignità e libertà nell’esercizio delle sue prestazioni
sulla base di determinazioni unilaterali del datore di lavoro.

Una conferma di questa opzione ermeneutica, ancora,
sembra offerta dalla giurisprudenza della Corte EDU. In effetti, i giudici di
Strasburgo, pur affermando la possibilità, per gli ordinamenti giuridici
nazionali, di prevedere limiti al diritto al rispetto della propria vita
privata e della propria corrispondenza nell’ambito lavorativo, hanno anche
sottolineato l’esigenza di contenere tali limiti nel rispetto del principio di
proporzionalità, la necessità di assicurare garanzie procedurali contro
possibili arbitri, e l’occorrenza di «misure protettive» di diritto penale
(cfr., in particolare, Corte EDU, Grande Camera, 05/09/2017, Bàrbulescu c.
Romania, spec. §§113-123).

6. L’interpretazione accolta in ordine all’ambito di
applicazione del reato concernente la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge 20 maggio 1970, n.
300, evidenzia le lacune della motivazione della sentenza impugnata,
denunciate, sia pure in termini più generali, nel ricorso.

Il Tribunale, in effetti, ha affermato la penale
responsabilità del ricorrente osservando che nell’esercizio commerciale del
medesimo era installato un sistema di videosorveglianza dei lavoratori non
concordato con i sindacati, né altrimenti autorizzato, ma anche riportando,
senza alcun esame critico, le dichiarazioni testimoniali della moglie
dell’imputato, secondo cui l’impianto era stato posizionato a seguito del
rilievo di mancanze di merci, ed era rivolto solo verso la cassa e le
scaffalature.

In questo modo, la decisione oggetto di ricorso non
ha chiarito se l’installazione del sistema di videosorveglianza rilevato fosse
strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, né se l’utilizzo
del precisato impianto comportasse un controllo non occasionale sull’ordinario
svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o, comunque, dovesse
restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di
gravi condotte illecite di questi ultimi.

7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere
annullata con rinvio per nuovo giudizio.

Il giudice del rinvio accerterà, compiendo tutti gli
accertamenti ritenuti necessari, se l’installazione del sistema di
videosorveglianza riscontrato dagli Ispettori del Lavoro fosse strettamente
funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, e, in caso di risposta
affermativa, se l’utilizzo dell’impianto avesse comportato un controllo non
occasionale sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti,
oppure dovesse restare necessariamente “riservato” per consentire
l’accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo
giudizio al Tribunale di Viterbo in diversa persona fisica.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 gennaio 2021, n. 3255
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: