Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 01 aprile 2021, n. 59

Manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Questione di legittimità
costituzionale dell’art. 18,
co. 2, secondo periodo, L. 20 maggio 1970, n. 300, Sussiste, Carattere
meramente facoltativo della reintegrazione, Lesione del principio di
eguaglianza, Scelta tra due forme di tutela profondamente diverse, rimessa a
una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta al
n. 101 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Ravenna, in
funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 41,
primo comma, 24 e 111,
secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 18, settimo comma,
secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela
della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), «nella parte in cui
prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di
un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. [giustificato motivo
oggettivo], “possa” e non “debba” applicare la tutela di cui al 4° comma dell’art. 18 (reintegra)».

1.1.- Il rimettente espone di dover decidere
sull’opposizione di un datore di lavoro contro l’ordinanza che, a conclusione
della fase sommaria del cosiddetto “rito Fornero”, ha reintegrato un
lavoratore, licenziato «nel giro di alcuni mesi» due volte per giusta causa e
una volta per giustificato motivo oggettivo. L’opponente non ha impugnato le
statuizioni relative ai licenziamenti per giusta causa e si duole unicamente
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dei provvedimenti di
reintegrazione adottati a tale riguardo dal giudice della fase sommaria.

La società datrice di lavoro ha chiesto di
respingere le domande del lavoratore e di condannarlo alla restituzione delle
somme incassate per effetto dell’ordinanza provvisoriamente esecutiva, o di
limitare l’accoglimento delle domande «ai minimi indennitari». Il lavoratore,
in via riconvenzionale, ha chiesto l’esatta determinazione dell’indennità
sostitutiva della reintegrazione che ha scelto di ottenere, dopo l’ordinanza
conclusiva della fase sommaria.

In punto di rilevanza, il giudice a quo evidenzia
che la disposizione censurata «viene in diretta ed immediata applicazione nel
caso di specie», concernente un’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto
posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Né la rilevanza delle questioni potrebbe essere
esclusa per il sol fatto che il lavoratore abbia optato per l’indennità
sostitutiva della reintegrazione, in quanto il giudice sarebbe comunque
chiamato a decidere tra una tutela reintegratoria, pur sostituita
dall’indennità, e una tutela meramente indennitaria.

1.2.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente
osserva che la disposizione censurata, in quanto caratterizzata da un tenore
letterale inequivocabile, non si presta a una interpretazione adeguatrice.

Il diniego della reintegrazione, che la legge non
subordina a criteri di sorta, rappresenterebbe un nuovo licenziamento, intimato
dal giudice sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale.

Il carattere meramente facoltativo della
reintegrazione lederebbe il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, per effetto di una
«insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o
nell’altro l’atto espulsivo», determinerebbe un’arbitraria disparità di
trattamento tra «situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per
giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si
sia accertata in giudizio l’infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza
per il G.M.O.)».

La disposizione censurata violerebbe anche l’art. 41 Cost., poiché attribuirebbe al datore di
lavoro «un potere di scelta di tipo squisitamente imprenditoriale», che si
tradurrebbe nell’intimazione di «un nuovo ed autonomo atto espulsivo».

Il giudice a quo prospetta, inoltre, il contrasto
con l’art. 24 Cost., che tutela il diritto di
agire in giudizio. Il lavoratore «si troverebbe esposto all’esercizio di una
facoltà giudiziale totalmente discrezionale», senza avere alcuna facoltà di
difendersi.

L’art. 24 Cost., in
connessione con l’art. 3 Cost., sarebbe violato
anche perché l’insindacabile qualificazione del datore di lavoro
condizionerebbe «le tutele del lavoratore».

Inoltre, il nuovo licenziamento, che il giudice
intima allorché nega la reintegrazione, sarebbe assoggettato a un trattamento
«ingiustificatamente differente e deteriore» rispetto agli altri licenziamenti
determinati in generale dal giustificato motivo oggettivo e, in particolare, da
un motivo legato agli stessi mutamenti organizzativi che precludono la tutela
reintegratoria. Ad avviso del rimettente, non sarebbero rispettate le procedure
di garanzia previste dall’art.
7 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali)
e sarebbe ammessa la sola impugnativa in sede di gravame, con conseguente
«abolizione di un grado di giudizio».

Sarebbe compromessa anche la terzietà del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.), costretto a
vestire i panni dell’imprenditore e a compiere «un’opzione di gestione
dell’impresa».

2.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondata la
questione sollevata dal Tribunale di Ravenna.

2.1.- La questione sarebbe inammissibile per un
triplice ordine di ragioni.

2.1.1.- Il rimettente, anzitutto, non avrebbe
dimostrato l’effettivo e concreto rapporto di strumentalità fra la risoluzione
della questione di legittimità costituzionale e la definizione del giudizio
principale e non avrebbe descritto in maniera adeguata la fattispecie concreta
sottoposta al suo esame.

2.1.2.- Il giudice a quo, in secondo luogo, avrebbe
trascurato di interpretare la disposizione censurata in senso conforme alla
Costituzione.

2.1.3.- L’Avvocatura generale dello Stato ha
eccepito, infine, l’inammissibilità della questione per il carattere additivo o
manipolativo del petitum, in un contesto in cui non si riscontrano «vincoli
costituzionali positivi in merito al tipo di tutela da accordare al lavoratore
illegittimamente licenziato».

2.2.- Quanto al merito, la questione non sarebbe
comunque fondata.

2.2.1.- Le censure muoverebbero dall’assunto
dell’omogeneità tra la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, da un
lato, e il giustificato motivo oggettivo, dall’altro.

Tale assunto, tuttavia, non sarebbe condivisibile.
Se la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo si riconnettono alle
condotte del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo investe la «sfera
organizzativa del datore di lavoro». L’eterogeneità delle fattispecie
impedirebbe dunque di porle a raffronto.

Le censure di violazione dell’art. 3 Cost. sarebbero infondate anche perché il
giudice ben potrebbe disattendere una qualificazione pretestuosa, che non
rispecchi le reali ragioni giustificatrici del licenziamento.

2.2.2.- L’Avvocatura non ravvisa alcun contrasto con
l’art. 41 Cost.

La disposizione censurata, nel richiedere una
valutazione di compatibilità della reintegrazione con le esigenze organizzative
dell’impresa, sarebbe coerente con le indicazioni del giudice a quo, che auspica
una limitazione del sindacato giurisdizionale sulle scelte imprenditoriali. Il
richiamo all’eccessiva onerosità della reintegrazione, unito al requisito della
manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, intenderebbe
scongiurare il rischio di «un’intromissione diretta ed incondizionata del
potere giurisdizionale nelle scelte organizzative dell’impresa».

2.2.3.- Sarebbero infondate, infine, anche le
censure di violazione della terzietà e dell’imparzialità del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.).

La disposizione censurata non attribuirebbe al
giudice alcun potere di licenziare ex novo il lavoratore, ma subordinerebbe il
potere di ripristinare il rapporto di lavoro preesistente a una valutazione ulteriore
sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa. Lungi dallo
schierarsi dalla parte dell’imprenditore, il giudice si limiterebbe a
contemperare «le esigenze di tutela del lavoratore e quelle organizzative del
datore di lavoro».

 

Considerato in diritto

 

1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n.
101 del 2020), il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del
lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo
periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui
prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto
posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa – e non
debba – disporre la reintegrazione del lavoratore.

1.1.- Il rimettente denuncia, anzitutto, il contrasto
con l’art. 3 della Costituzione, alla luce del
«trattamento irragionevolmente discriminatorio» che il legislatore avrebbe
riservato a «situazioni identiche». La reintegrazione, obbligatoria nel
licenziamento per giusta causa nell’ipotesi di insussistenza del fatto, sarebbe
meramente facoltativa e sarebbe subordinata a una valutazione in termini di non
eccessiva onerosità nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, che peraltro presuppone una insussistenza manifesta del fatto e una
iniziativa del datore di lavoro «del tutto pretestuosa».

Dall’insindacabile scelta del datore di lavoro di
qualificare il licenziamento come determinato da giusta causa o da giustificato
motivo oggettivo deriverebbe «una distinzione estremamente rilevante in punto
della tutela del lavoratore». Neppure le diversità che intercorrono tra la
giusta causa e il giustificato motivo oggettivo potrebbero spiegare tale
distinzione, poiché, nell’ipotesi di insussistenza del fatto, si configura in
ogni caso un recesso illegittimo, a prescindere dalle ragioni addotte,
attinenti alla giusta causa o al giustificato motivo oggettivo.

Il rimettente osserva che, nel caso di specie, non
viene in rilievo il tema della «mancanza di copertura costituzionale per la
reintegra», ma l’arbitraria disparità di trattamento tra situazioni identiche
negli elementi costitutivi. Una volta che abbia scelto di disporre la tutela
reintegratoria al ricorrere di determinati presupposti, il legislatore non potrebbe
introdurre «ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche».

Il fatto che il lavoratore possa optare – come è
avvenuto nel giudizio principale e come spesso avviene nella pratica – per una
indennità sostitutiva della reintegrazione dimostrerebbe «l’irragionevolezza
del sistema complessivamente adottato». In questo caso, difatti, il richiamo
all’eccessiva onerosità non sarebbe pertinente. Anche da questo punto di vista,
emergerebbe l’inidoneità del criterio indicato a indirizzare la scelta del
giudice.

1.2.- Il rimettente argomenta che il potere
discrezionale del giudice di disporre o negare la reintegrazione,
«nell’assoluta mancanza di criteri normativi in base ai quali orientare
l’interprete», si configura come un potere «essenzialmente assimilabile
all’esercizio dell’attività di impresa». Il legislatore sacrificherebbe la
libertà dell’iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost., e porrebbe «limiti proprio ai
limiti all’iniziativa economica privata», che la Carta fondamentale individua
nel rispetto della sicurezza, della libertà, della dignità umana.

Nel negare la tutela reintegratoria allorché risulti
eccessivamente onerosa, il giudice intimerebbe «un ulteriore e nuovo
licenziamento per giustificato motivo oggettivo» e compirebbe «scelte
organizzative riservate all’imprenditore».

1.3.- Il giudice a quo, inoltre, censura l’art. 18, settimo comma,
secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, in quanto lesivo dell’art. 24 Cost.

La disposizione in esame, nell’attribuire al giudice
il potere di disporre un nuovo licenziamento, pregiudicherebbe il diritto di
difesa delle parti, che non sarebbero poste nelle condizioni di interloquire
sulla compatibilità della reintegrazione con le esigenze organizzative
aziendali, «nel mezzo di un processo avente un altro oggetto».

L’art. 24 Cost., in
connessione con l’art. 3 Cost., sarebbe violato
sotto due ulteriori profili.

Il diritto di azione del lavoratore sarebbe
«ingiustamente sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge
ordinaria, di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla mera insindacabile
(nemmeno ex post) volontà qualificatoria datoriale».

Inoltre, il licenziamento, che il giudice intima
allorché nega la tutela reintegratoria, riceverebbe un trattamento
«ingiustificatamente differente e deteriore […] rispetto ad ogni altro normale
licenziamento intimato dal datore di lavoro» e anche rispetto ai licenziamenti
per giustificato motivo oggettivo, intimati sulla base di quello stesso
mutamento organizzativo che ha precluso l’applicazione della tutela
reintegratoria. Il licenziamento disposto ope iudicis, difatti, non sarebbe
rispettoso delle procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966,
n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e potrebbe essere impugnato solo
in sede di gravame contro la decisione del giudice che l’ha intimato, con la
conseguente perdita di un grado di giudizio.

1.4.- Il giudice a quo denuncia, infine, il
contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost.
e con i princìpi del giusto processo.

La disposizione censurata imporrebbe al giudice di
ricoprire il ruolo di una parte in causa, e in particolare dell’imprenditore,
senza neppure indicare «i criteri ai quali il giudice dovrebbe attenersi».
Sarebbe compromessa, pertanto, la terzietà del giudice.

2.- Occorre esaminare, preliminarmente, le eccezioni
di inammissibilità formulate nell’atto di intervento.

2.1.- Secondo il Presidente del Consiglio dei
ministri, intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, la questione sarebbe inammissibile per carente
motivazione in ordine al requisito della rilevanza.

2.1.1.- Il rimettente non avrebbe dimostrato la
necessità di applicare la previsione censurata per decidere su una o più
domande formulate nel giudizio principale e non avrebbe offerto alcun
ragguaglio sull’incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento sugli
esiti della controversia. Il giudice a quo avrebbe omesso di far luce
sull’imprescindibile rapporto di strumentalità tra la soluzione del dubbio di
costituzionalità e la definizione del giudizio principale.

Anche la descrizione della fattispecie concreta
sarebbe lacunosa.

Il giudice a quo non avrebbe svolto alcun rilievo in
merito alla illegittimità del licenziamento impugnato, alla manifesta
insussistenza del fatto addotto come giustificazione del licenziamento stesso,
alla necessità di applicare la disposizione che esclude il rimedio della
reintegrazione e impone di riconoscere una tutela meramente indennitaria.

2.1.2.- La motivazione in ordine alla rilevanza non
presenta i profili di inammissibilità eccepiti dalla difesa dello Stato.

Questa Corte ha affermato che «[a]nche nella
prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del 2018, punto 8 del Considerato
in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione
alla Carta fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica
nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2 del Considerato
in diritto)» (sentenza n. 174 del 2019, punto
2.1. del Considerato in diritto).

La rilevanza si configura come «necessità di
applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla
decisione e si riconnette all’incidenza della pronuncia di questa Corte su
qualsiasi tappa di tale percorso» (sentenza n. 254
del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto). L’applicabilità della
disposizione censurata è dunque sufficiente a fondare la rilevanza della
questione proposta (fra le molte, sentenza n. 174
del 2016, punto 2.1. del Considerato in diritto).

Nella vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa
Corte, il giudice a quo ha descritto la fattispecie concreta in modo idoneo a
suffragare il requisito della rilevanza del dubbio di costituzionalità.

Il rimettente riferisce che il giudizio principale
verte in via esclusiva su una fattispecie di licenziamento per giustificato
motivo oggettivo. L’opponente non ha coltivato le contestazioni relative ai due
licenziamenti intimati per giusta causa e annullati dal giudice della fase
sommaria, con conseguente reintegrazione del lavoratore.

Nella fase sommaria è stata accertata la manifesta
insussistenza del fatto dedotto dal datore di lavoro a sostegno del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo e – su questo tema controverso –
si dispiegano le argomentazioni delle parti nella fase a cognizione piena
introdotta dall’opposizione.

Il giudice a quo soggiunge che le parti non
contestano la necessità di applicare la previsione censurata, anche alla luce
della data di assunzione del ricorrente (2001) e delle dimensioni dell’impresa,
che occupa circa cinquanta dipendenti.

Secondo il rimettente, la rilevanza della questione
di legittimità costituzionale non è scalfita neppure dalla scelta del
lavoratore di conseguire l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

La valutazione del giudice a quo, avvalorata da una
pluralità di argomenti, non è implausibile e supera, pertanto, il controllo
“esterno” demandato a questa Corte in ordine al requisito della rilevanza (da
ultimo, sentenza n. 32 del 2021, punto 2.1.1. del Considerato in diritto).

Le contrapposte domande delle parti – quella del
datore di lavoro, volta a ottenere la restituzione dell’indennità corrisposta,
e quella del lavoratore, concernente l’esatta determinazione dell’importo
dovuto – presuppongono la valutazione della fondatezza della domanda di
reintegrazione nell’àmbito del giudizio incardinato con l’opposizione di cui
all’art. 1, comma 51, della legge
28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del
lavoro in una prospettiva di crescita).

Ai fini della decisione della controversia, è dunque
ineludibile l’applicazione della disposizione censurata, che delinea i
presupposti della reintegrazione in un licenziamento per giustificato motivo
oggettivo quale è quello dedotto – per concorde ammissione delle parti – nel
giudizio principale. Tanto basta a radicare la rilevanza della questione.

2.2.- L’Avvocatura dello Stato imputa al rimettente
di non avere sperimentato una interpretazione adeguatrice della previsione
censurata.

2.2.1.- Il giudice a quo si sarebbe limitato a
enucleare il significato letterale dell’art. 18, settimo comma,
secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, senza confrontarsi con
un’interpretazione sistematica mediante un «ragionevole e bilanciato potere
esegetico». La questione sarebbe, pertanto, inammissibile.

2.2.2.- Neppure tale eccezione è fondata.

Ai fini dell’ammissibilità della questione di
legittimità costituzionale, è necessario e sufficiente che il giudice a quo
abbia esplorato la praticabilità di una interpretazione adeguatrice e l’abbia
consapevolmente esclusa (da ultimo, sentenza n. 32 del 2021, punto 2.3.1. del
Considerato in diritto), alla luce di un accurato esame delle alternative che
si profilano nel dibattito ermeneutico (sentenza n. 123 del 2020, punto 3.3.1.
del Considerato in diritto).

Se l’interpretazione prescelta dal rimettente sia la
sola persuasiva, è profilo che non attiene all’ammissibilità, ma al merito
della questione di legittimità costituzionale e – nello scrutinio del merito –
dovrà essere esaminato (sentenza n. 95 del 2016, punto 2.2. del Considerato in
diritto).

Il rimettente muove dalla premessa che la disposizione
censurata sia contraddistinta da un significato letterale inequivocabile e che
l’interpretazione costituzionalmente orientata si risolva in «una
interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo», in
contrasto con il sindacato accentrato di costituzionalità.

Il giudice a quo mostra di recepire
l’interpretazione accreditata dalla «giurisprudenza di legittimità
maggioritaria», che riconosce il potere discrezionale di negare la
reintegrazione, «se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del
provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura
organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione
lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).

Il Tribunale di Ravenna non reputa condivisibile il
diverso indirizzo, «numericamente minoritario», che configura come obbligatoria
la reintegrazione nelle ipotesi di manifesta insussistenza del fatto (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenze 13 marzo
2019, n. 7167 e 14 luglio 2017, n. 17528)
e si traduce in «una interpretazione essenzialmente abrogativa di un testuale
elemento normativo».

All’esito di un circostanziato esame delle diverse interpretazioni
prospettate, il giudice ha escluso la sostenibilità di un’interpretazione
adeguatrice e ha così ottemperato in maniera adeguata all’onere di attribuire
alla disposizione un significato conforme ai principi costituzionali.

Anche da questa angolazione, pertanto, non si
ravvisano ostacoli alla disamina del merito.

2.3.- La questione sarebbe inammissibile, anche
perché formulata in modo da ottenere «una pronuncia additiva o manipolativa non
costituzionalmente obbligata» in un ambito in cui il legislatore gode di
un’ampia discrezionalità.

2.3.1.- La scelta della tutela che spetta al
lavoratore illegittimamente licenziato sarebbe demandata all’apprezzamento
discrezionale del legislatore. Il riconoscimento della reintegrazione
rappresenterebbe «solamente una delle molteplici alternative prospettabili».

2.3.2.- Anche tale eccezione non è fondata.

Il rimettente sollecita in maniera puntuale,
mediante l’indicazione di un chiaro termine di raffronto, l’intervento
correttivo di questa Corte, che dovrebbe ripristinare, in ordine
all’obbligatorietà della reintegrazione, un trattamento omogeneo tra il
licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, da un
lato, e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dall’altro. Anche
nella seconda ipotesi la reintegrazione dovrebbe essere obbligatoria, quando
sia accertata l’insussistenza manifesta del fatto.

La molteplicità dei possibili rimedi contro i
licenziamenti illegittimi e l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate
non escludono che le difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette
da giustificazioni razionali e non sottraggono le scelte adottate dal
legislatore al sindacato di questa Corte.

3.- Nel merito, la questione è fondata.

4.- I dubbi di costituzionalità si concentrano sull’art. 18, settimo comma, secondo
periodo, dello statuto dei lavoratori, così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della
legge n. 92 del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle
tutele contro i licenziamenti illegittimi.

Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più
equo le tutele dell’impiego» anche mediante l’adeguamento della disciplina dei
licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la
previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la
definizione delle relative controversie» (art. 1, comma 1, lettera c, della
legge citata).

All’originario modello, incentrato sulla tutela
reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del
licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo
indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015.

A decorrere da questa data si dispiega la disciplina
introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015,
n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in attuazione della legge 10
dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza per una diversa ratio e per un
diverso regime di tutele.

Si deve ricordare che la tutela reintegratoria
piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, si applica nelle
ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di
maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato
inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice reintegra il lavoratore e
gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione
globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva
reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per
effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum).
L’importo minimo, invalicabile, è di cinque mensilità.

Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione,
può chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza rinunciare al risarcimento del
danno patito nel periodo tra l’estromissione e la richiesta dell’indennità
sostitutiva, che già risolve il rapporto di lavoro.

L’art.
18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012, prevede,
inoltre, una tutela reintegratoria attenuata e una tutela indennitaria,
declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce l’applicazione ai datori di
lavoro che occupino più di quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese
agricole) nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o
nell’àmbito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, sia pure in
diverse unità produttive, più di sessanta dipendenti.

La tutela reintegratoria attenuata, invocata
nell’odierno giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari
della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilità l’ammontare
dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere
dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da
tale importo, peraltro, deve essere detratto non solo quel che il lavoratore
abbia guadagnato in virtù di altre occupazioni (l’aliunde perceptum), ma anche
quel che avrebbe potuto guadagnare adoperandosi con l’ordinaria diligenza nella
ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde percipiendum). Anche in
questo caso il lavoratore ha la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio
principale – di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Tale tutela si applica ai licenziamenti
disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorché il
giudice riscontri l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità del
fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari.

La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i
licenziamenti intimati senza giustificazione «per motivo oggettivo consistente
nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in violazione
delle regole che, nell’àmbito del licenziamento per malattia, disciplinano il
periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).

Nei licenziamenti economici, la tutela
reintegratoria attenuata può essere applicata nelle ipotesi di «manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo».

5.- Quanto al licenziamento per giustificato motivo
oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, che
rappresenta il fulcro dell’odierna questione di legittimità costituzionale, il
nuovo regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del
1970, come modificato dalla legge n. 92 del
2012, prescrive di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria,
compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità.

Il ripristino del rapporto di lavoro, con un
risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi
della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei
presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19
marzo 2020, n. 7471).

Tale requisito, che il rimettente non censura, si
correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare.
Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale
che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine,
l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (Corte
di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 novembre 2019, n. 29102). Perché
possa operare il rimedio della reintegrazione, è sufficiente che la manifesta
insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12
dicembre 2018, n. 32159).

Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio
applicativo, si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del
datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare, senza sconfinare in un
sindacato di congruità e di opportunità. Il vaglio della genuinità della
decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur
sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio.

6.- Il rimettente prende le mosse dall’assunto,
avallato anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 3
febbraio 2020, n. 2366), che la reintegrazione non sia obbligatoria,
neppure quando l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento si
connoti come manifesta.

Il dato testuale conferma una tale premessa
ermeneutica. Nel contesto dell’art.
18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, al perentorio «applica»
del primo periodo fa riscontro il «può applicare» del secondo periodo e
sottende, secondo il significato proprio delle parole, una facoltà
discrezionale del giudice.

L’elemento letterale è poi corroborato dalla ratio
legis, così come si ricava dall’esame dei lavori preparatori. L’attuale
formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un
acceso dibattito parlamentare. Le critiche alle “disarmonie” della previsione
censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge presentato
dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla
reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese.

La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di
scongiurare le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe
ingenerato (Corte di cassazione, sezione lavoro,
sentenza 8 luglio 2016, n. 14021), ha provato a definire i criteri che
presiedono alla valutazione discrezionale del giudice e ha posto l’accento, in
particolare, sui principi generali in tema di risarcimento in forma specifica (art. 2058 cod. civ.), che precludono la restitutio
in integrum quando si riveli eccessivamente onerosa; norma applicabile anche
alla responsabilità contrattuale.

Nella ricostruzione della Corte di cassazione, che
costituisce diritto vivente, il richiamo alla disciplina del risarcimento del
danno in forma specifica offre «un parametro di riferimento per l’esercizio del
potere discrezionale del giudice», che impone di valutare se la reintegrazione
sia «al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente
incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta
dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione
lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).

Il giudice, pertanto, potrà pronunciare la
reintegrazione del lavoratore «subordinatamente all’ulteriore valutazione
discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2930).

7.- La disposizione censurata, nel sancire una
facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per i
motivi di séguito esposti.

8.- Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del
lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art.
35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di
circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie
di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965,
punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso
dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9
del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo
delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e
dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018,
punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità
dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le
dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non
rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali
(sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla
Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale
europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata
e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea – CDFUE -, proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono
essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore
arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza
n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la
persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento
che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di
ragionevolezza.

9.- La disposizione censurata entra in conflitto con
tali princìpi.

Il carattere meramente facoltativo della
reintegrazione rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema
delineato dalla legge n. 92 del 2012 e viola
il principio di eguaglianza.

Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha
previsto la reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio
l’insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro. Per i
licenziamenti economici, l’insussistenza del fatto può condurre alla
reintegrazione ove sia manifesta. L’insussistenza del fatto, pur diversamente
graduata, assurge dunque a elemento qualificante per il riconoscimento del più
incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore.

Secondo la valutazione discrezionale del
legislatore, l’insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di
rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione
organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende
possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della
ricostituzione del rapporto di lavoro.

In un sistema che, per consapevole scelta del
legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto
e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si
rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere
facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici,
a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del
ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura
e semplice del fatto.

Le peculiarità delle fattispecie di licenziamento,
che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la
violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel
giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative
dell’imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà
o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza
del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il
licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto
dell’insussistenza manifesta.

L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento,
sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si
appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del
lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda
traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore.
L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle
singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il
principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che
questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4
e 35 Cost. (sentenza
n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).

Tali elementi comuni alle fattispecie di
licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso
legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di
una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio
meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici.

È sprovvisto di un fondamento razionale anche
l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di
eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che
incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non
meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore.

10.- Alla violazione del principio di eguaglianza e
alla disarmonia interna a un sistema di tutele, già caratterizzato da una
pluralità di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio
distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di
trattamento.

Il rimettente scorge nella previsione censurata le
caratteristiche di una norma “in bianco” e stigmatizza l’irragionevolezza di
una disciplina «del tutto priva di criteri applicativi» idonei a orientare il
potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione.

10.1.- Anche questi rilievi, che sorreggono
l’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, sono fondati.

Per i licenziamenti economici, il legislatore non
solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole
distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende
facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio
direttivo.

La scelta tra due forme di tutela profondamente
diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente
indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da
precisi punti di riferimento.

Il richiamo alla eccessiva onerosità, che la
giurisprudenza di legittimità ha indicato nell’intento di conferire alla
previsione un contenuto precettivo meno evanescente, non pone rimedio
all’indeterminatezza della fattispecie.

Tale nozione, funzionale a tracciare la linea di
confine tra due forme di tutela dalla comune matrice risarcitoria (risarcimento
in forma specifica o per equivalente), si colloca nel contesto di grandezze
economiche comparabili. Nella disciplina della reintegrazione, invece, che si è
via via affinata come autonoma tecnica di tutela rispetto al paradigma dell’art. 2058 cod. civ., essa finisce per rivelarsi
inadeguata.

Nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza,
sopra richiamata, la misura indennitaria di tutela compensativa non può dirsi
“equivalente”, quale invece è l’indennità sostitutiva della reintegrazione,
prevista dal terzo comma dell’art.
18 dello statuto dei lavoratori, ma ha invece un contenuto ridotto, quale
quello previsto dal quinto comma del medesimo articolo.

L’eccessiva onerosità, declinata come incompatibilità
con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa, presuppone
valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del
lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la
libertà di iniziativa economica privata. Né serve a individuare parametri
sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la
reintegrazione o l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo.

In un sistema equilibrato di tutele, la
discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha
riconosciuto di recente nel censurare l’automatismo che governava la
determinazione dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal
punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del
2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020),
dapprima commisurata alla sola anzianità di servizio. Al giudice è stato
restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto,
in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di
una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata.

Nella fattispecie sottoposta all’odierno scrutinio,
la diversa tutela applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece
da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio
e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento.

Il mutamento della struttura organizzativa
dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è
riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento
illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre,
può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un
elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola
vicenda di licenziamento.

È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta
di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del
responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano
sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente
indennitaria.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (fra le
molte, sentenza n. 2 del 1986, punto 8 del Considerato in diritto), ben può il
legislatore delimitare l’ambito applicativo della reintegrazione.

Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva su
una mutevole valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con
l’illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi o
razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema.

11.- Inoltre, nel demandare a una valutazione
giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò altamente
controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela
indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa
ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della
legge n. 92 del 2012. L’intento di circoscrivere entro confini certi e
prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di
offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice rischia di essere
vanificato dalla necessità di procedere alla complessa valutazione sulla
compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.

Anche da questo punto di vista, si ravvisa
l’irragionevolezza censurata dal Tribunale di Ravenna.

12.- Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità
costituzionale dell’art. 18,
settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come
modificato dall’art. 1, comma 42,
lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il
giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» –
invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del
medesimo art. 18.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura
prospettati dal rimettente.

 

P.Q.M.

 

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo
periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività
sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato
dall’art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede
che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a
base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì
applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 7
aprile 2021, n. 14

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 01 aprile 2021, n. 59
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