Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 aprile 2021, n. 9107

Contratto di somministrazione di lavoro, Appalto di servizi,
Attività di movimentazione merci e facchinaggio,Attività non estranee
all’oggetto dell’appalto, lllegittima interposizione nell’appalto medesimo

Rilevato che

 

1. la Corte di Appello di Milano, con sentenza
pubblicata il 14 novembre 2016, ha confermato la pronuncia di primo grado che
aveva respinto le domande proposte da V. P. volte ad “accertare e
dichiarare alternativamente l’illiceità, ex art. 20, comma 1, d. Igs. n. 276/2003,
della somministrazione del ricorrente dalla D.U.M. Scrl alla M-H-A Srl a
partire dal 14/2/2006 o, sempre con la medesima decorrenza, la nullità ex art. 21, comma 4, d. Igs. n. 276/2003,
del contratto di somministrazione di lavoro e/o la nullità dell’appalto e
l’illegittima interposizione nell’appalto medesimo”;

2. la Corte ha ritenuto “circostanza pacifica
che il Sig. P. V., quale socio lavoratore della cooperativa D.U.M., veniva
inviato a lavorare presso la società M-H-A Srl in quanto tra le due società
intercorreva un contratto di appalto di servizi, stipulato in data 1.4.2005,
avente ad oggetto le attività di movimentazione merci e facchinaggio”; ha
rilevato che “le attività cui veniva adibito l’appellante così come
risulta sia dalle allegazioni dello stesso che da quello delle parti appellate,
non possono dirsi estranee all’oggetto dell’appalto consistendo nello
spostamento di materassi durante le fasi del lavaggio ben compatibili con
l’attività di facchinaggio e pulizia previste nel detto contratto di servizi
tra la cooperativa e la committente”; “né – ha considerato ancora la
Corte milanese – i capitoli di prova di cui ai numeri da 6 a 9 della
esposizione in fatto risultano decisivi a dimostrare lo svolgimento di attività
alle dirette dipendenze della committente, come genericamente e
superficialmente allegato, né che l’organizzazione del lavoro sia di fatto
passata in capo all’utilizzatore/appaltante così da potere configurare una
interposizione illecita”;

3. la Corte ha anche confermato la decadenza del
lavoratore dall’impugnativa di licenziamento azionata nei confronti della
D.U.M. Scrl;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso V. P. con 5 motivi cui ha resistito la sola D.U.M. Società Cooperativa
con controricorso, mentre è rimasta intimata la M-H-A Srl; il ricorrente ha
anche depositato memoria in vista dell’adunanza del 19 marzo 2020, ribadita con
ulteriore memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.;

 

Considerato che

 

1. il primo motivo di ricorso denuncia:
“violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 21, 27 e 29 del d. Igs. n.
276/2003 e dell’art. 1655 c.c.”; si
eccepisce che nel ricorso introduttivo del giudizio era stata contestata la
“genuinità” dell’appalto; si sostiene che “nella fattispecie per
cui è causa” risulterebbero “totalmente assenti” sia
l’organizzazione dei mezzi necessari per l’espletamento del servizio da parte
dell’appaltatore, sia l’assunzione da parte del medesimo del rischio d’impresa;
si deduce che “dalla documentazione versata in atti” emergerebbe
“che, nel caso di specie, ci si trova, in realtà in presenza di una mera
somministrazione di manodopera” e come “l’attività di facchinaggio
… evochi attività di tutt’altra natura rispetto a quella svolta”;

2. il motivo è inammissibile per come è formulato;
infatti, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge
consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento
impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica
necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di
un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di
causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla
tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità
(tra le recenti: Cass. n. 3340 del 2019); la doglianza contesta chiaramente
l’apprezzamento in fatto compiuto dalla Corte territoriale, come risulta anche
dal riferimento alla “documentazione versata in atti”, ed è ben lontana
dal palesare un error in iudicando, che viene solo formalmente prospettato, in
corrispondenza con una diversa sostanza del vizio denunciato che concerne
quaestiones facti quali indubitabilmente sono sia l’interpretazione di un
contratto sia la valutazione se una certa attività rientrasse o meno nella
previsione di esso;

3. il secondo motivo denuncia: “omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra
le parti”, assumendo che il provvedimento impugnato avrebbe
“totalmente obliterato di prendere in considerazione il contenuto ed il
tenore del contratto d’appalto sottoscritto tra le società convenute”;

4. il motivo non può trovare accoglimento;

esso evoca la formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non considerando
che quest’ultima disposizione, per i giudizi di appello instaurati dopo il
trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U.
n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22
giugno 2012 n. 83, non può essere denunciata, rispetto ad un appello
promosso nella specie dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato
d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della
Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia
stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado
(art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in base
al quale il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5,
c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia
conforme; v. Cass. n. 23021 del 2014); in
questi casi il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del
motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. – deve
indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di
primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando  che esse sono tra loro diverse: Cass. n.
26774 del 2016, conf. Cass. n. 20944 del 2019);

il motivo è, peraltro, pure infondato perché la sentenza
impugnata espressamente prende in considerazione il contratto di appalto alla
pagina 10 e il ricorrente nella sostanza ne pretende una diversa valutazione;

5. il terzo mezzo denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c. per avere la sentenza impugnata
ritenuto corretta la statuizione di primo grado circa la superfluità della
prova per testimoni articolata dall’istante;

6. la censura non merita condivisione; in tema di
valutazione delle prove il principio del libero convincimento, posto a
fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano
dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la
denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito
non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un
errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma
normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato
dall’art. 54 del d.l. n. 83 del
2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del
2012 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017); in particolare si è
affermato (v. Cass. n. 11892 del 2016) che, a proposito dell’articolo 115 c.p.c., la violazione “può
essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha
dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella
norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma
disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli”;

inoltre, per risalente insegnamento di questa Corte,
la mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata per
cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di
motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non
ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze
tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità,
l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento
del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di
fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass.
n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011);

infine, spetta esclusivamente al giudice del merito
valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli
richiesti – senza che possa neanche essere invocata la lesione dell’art. 6,
primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo al fine di
censurare l’ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice
nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) – con una
valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei
rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., così come
rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);

7. con il quarto mezzo si lamenta violazione degli artt. 416 e 167 c.p.c.
per avere il giudice del gravame “errato nel momento in cui non ha
considerato che le circostanze dedotte da parte ricorrente non sono state
adeguatamente contestate dalle altre parti del giudizio e dovevano (e devono)
pertanto, essere ritenute ormai provate”;

8. la censura – oltre ad essere logicamente
incompatibile con la valutazione dei giudici del merito di superfluità della
prova testimoniale addotta dal P., con la conseguenza che, anche ove ritenute
provate, le circostanze articolate non avrebbero mutato il segno del
convincimento di detti giudici – è inammissibile;

va ribadito il principio secondo cui l’accertamento
della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, quale
contenuto della posizione processuale della parte, rientrando nel quadro
dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è
funzione del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non
per vizio di motivazione (già Cass. n. 10182 del 2007; Cass. n. 27833 del
2005); spetta, infatti, solo al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del
giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una
condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte
(Cass. n. 3680 del 2019; conf. Cass. n. 27490 del 2019);

9. parimenti inammissibile l’ultimo motivo di
impugnazione con cui ci si duole della violazione dell’art. 92 c.p.c. per non avere la Corte territoriale
disposto la compensazione delle spese, pur in presenza di “questioni
complesse” e della condizione di disoccupazione del lavoratore; è infatti
principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che in tema di spese
processuali, il sindacato della Corte Suprema è limitato ad accertare che non
risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste
a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e
rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione
dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia
nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri
giusti motivi (v. Cass. n. 24502 del 2017; Cass.
n. 15317 del 2013; Cass. n. 5386 del 2003;
Cass. n. 8889 del 2000; Cass. n. 4944 del 1979);

10. conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo in favore
della controricorrente; né può essere rilevato un difetto di interesse a
resistere della D.U.M. Scrl – come argomentato dal ricorrente in memoria –
visto che nelle conclusioni del ricorso per cassazione, dopo aver richiamato
“espressamente tutte le domande ed eccezioni formulate nel giudizio di
merito, nessuna delle quali deve intendersi abbandonata e/o rinunciata”,
si è insistito per la cassazione integrale della sentenza d’appello impugnata,
formulando anche un motivo di ricorso relativo alle spese di lite, liquidate
dal giudice di appello pure in favore della cooperativa; nulla invece per la
società che non ha svolto attività difensiva in questo grado di legittimità;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, in favore della
D.U.M. Scrl.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 aprile 2021, n. 9107
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