Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 aprile 2021, n. 9550

Licenziamento disciplinare, Anomala intestazione della
polizza di un cliente, Natura discriminatoria della sanzione per il solo fatto
della prestazione dal lavoratore di attività sindacale, Proporzionalità alla
gravità della condotta, Elemento del dolo non richiede particolari artifici o
altri mezzi fraudolenti tali da connotarlo di specificità, Sufficiente la
coscienza e volontà di compiere una determinata condotta

 

Fatti di causa

 

Con sentenza 6 settembre 2018, la Corte d’appello di
Potenza rigettava il reclamo proposto da R.A.M. avverso la sentenza di primo
grado, di reiezione, in esito a procedimento con rito Fornero, della sua
impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli da P.I. s.p.a. il 26
novembre 2014 e delle conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria.

A motivo della decisione, la Corte territoriale
riteneva che il fatto addebitato dalla società al proprio dipendente, direttore
dell’ufficio postale di Montalbano integrasse giusta causa di licenziamento,
anche a norma dell’art. 54,
sesto comma, lett. c), k) CCNL di settore.

Esso consisteva, infatti, nella diretta intestazione
a sé, quale diretto beneficiario, della polizza “P.F.F.N.”, avendogli
un cliente contadino ultrasettuagenario vedovo, per la fiducia riposta in lui,
affidato l’incarico del suo rinnovo alla scadenza. E quegli, una volta ricevuta
dal primo la polizza rinnovata, così diversamente intestata, in una busta
chiusa, l’aveva aperta soltanto un paio di mesi più tardi, in occasione della
richiesta di una consulenza su possibili forme di investimento alternativo ad
un amico dipendente di banca, il quale si era avveduto dell’anomala
intestazione della polizza: così il fatto essendo stato segnalato ed avviata
l’indagine ispettiva della società datrice.

La Corte lucana escludeva poi la natura
discriminatoria della sanzione per il solo fatto della prestazione dal
lavoratore di attività sindacale, ravvisandone la proporzionalità alla gravità
della condotta, conseguente ad una contestazione disciplinare tempestiva.

Con atto notificato il 5 novembre 2018, il
lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui la società
resisteva con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso
esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti,
quale l’aver ritenuto circostanza “pacifica” che il ricorrente avesse
“ottenuto che il cliente gli intestasse la polizza”, senza accertare,
come invece fatto dal Tribunale (che aveva peraltro parimenti ritenuto la
legittimità del licenziamento intimato), la prestazione del consenso a ciò da
parte del cliente, che avrebbe consentito di escludere ogni intento doloso nel
comportamento del ricorrente, con verifica in concreto, e non in via presuntiva
astratta, del suo elemento soggettivo.

2. Esso è infondato.

3. In linea di principio, occorre premettere che
l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti rileva se abbia carattere decisivo, ossia
tale che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia
(Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 29
ottobre 2018, n. 27415).

Ebbene, non è decisiva nel caso di specie, al fine
di escludere l’intento doloso nel comportamento del ricorrente, la circostanza
della prestazione o meno del consenso del cliente all’intestazione diretta al
direttore dell’ufficio postale della polizza in scadenza rinnovata. Perché il
dolo è stato comunque accertato sussistere, nella comune ricostruzione del
fatto, da entrambi i giudici: come si evince dalla censura del reclamante sulla
propria mancanza di dolo (all’ultimo capoverso di pg. 13 della sentenza), che
la Corte ha ritenuto tuttavia “non cogliere” “nel segno” (ai
primi due alinea di pg. 14 della sentenza). E ciò per la ravvisata consapevolezza
del lavoratore in ordine alla mancanza di effetti pregiudizievoli per il
cliente dal mancato rinnovo della polizza in scadenza e, per converso, di
quelli favorevoli in proprio favore in caso di decesso del predetto (così al
primo capoverso di pg. 14 della sentenza): “non” essendo
“seriamente dubitabile, dunque, che il M. si sia ben rappresentato ed
abbia pienamente voluto porre in essere la condotta addebitatagli” (così
al penultimo capoverso di pg. 14 della sentenza).

L’elemento del dolo non richiede, infatti,
particolari artifici o altri mezzi fraudolenti tali da connotarlo di
specificità, essendo sufficiente la coscienza e volontà di compiere una
determinata condotta (Cass. 10 giugno 2015, n. 12086; Cass. 4 agosto 2017, n.
19520).

4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce
violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di accordi collettivi
nazionali di lavoro, in specie dell’art. 54, sesto comma, lett. c), k)
CCNL Poste, per inesistenza del dolo, alla base delle ipotesi disciplinari
fondanti il licenziamento per giusta causa intimato, non avendo il lavoratore
preveduto né voluto l’evento contestato come conseguenza della propria azione,
neppure essendo state considerate le precarie condizioni di salute e lo stress
psico-fisico, a causa dell’intenso impegno lavorativo (come documentato da
produzioni nella fase sommaria di primo grado), incidenti sull’elemento
psicologico.

5. Esso è inammissibile.

6. Non si configura il vizio di violazione di legge
denunciato, integrato dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge, implicante un problema interpretativo; trattandosi invece, nel caso di
specie, dell’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta
a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della
norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura
è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di
motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155;
Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340), ovviamente nei limiti del novellato testo
dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui
non ricorrente per la ravvisata sussistenza dell’elemento del dolo, per le
ragioni esposte nello scrutinio di infondatezza del precedente mezzo.

6.1. E’ bene sottolineare come la Corte territoriale
abbia motivatamente ritenuto, per le ragioni dette, che “le accertate
mancanze del M. non consentono alcun affidamento sul futuro, esatto adempimento
della sua prestazione” (così al primo capoverso, ultima parte, di pg. 16
della sentenza) e quindi licenziamento per giusta causa, anche ai sensi in
particolare dell’art. 54, sesto
comma, lett k) CCNL Poste del 14 aprile 2011 (“per fatti o atti
dolosi, anche nei confronti di terzi, compiuti in connessione con il rapporto
di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di
lavoro”), secondo l’intimazione datoriale con lettera del 26 novembre 2014
(trascritta in calce a pg. 15 del ricorso). Non senza ricordare che la
previsione nel contratto collettivo di fattispecie integranti giusta causa di
licenziamento rappresenta uno dei parametri cui occorre fare riferimento per
riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., ma non è vincolate per il giudice,
il quale può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave
inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole
dell’etica o del comune vivere civile (Cass. 11
febbraio 2020, n. 3283; Cass. 1 luglio 2020, n. 13412).

6.2. Quanto alla deduzione di elementi di fatto
asseritamente non considerati, quali le precarie condizioni di salute del
lavoratore ed il suo stress psico-fisico, a causa dell’intenso impegno
lavorativo, incidenti sull’elemento soggettivo, è sufficiente rilevare che la
sentenza non ne tratta. Né il ricorrente, al fine di non incorrere
nell’inammissibilità della deduzione per novità, ha indicato l’atto del
giudizio precedente nel quale li abbia allegati (con riferimento particolare al
reclamo), per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di
tale asserzione (Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804; Cass. 31 agosto 2020, n.
18098).

7. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce
violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di accordi collettivi
nazionali di lavoro, in specie dell’art. 2106 c.c.,
per inosservanza del principio di proporzionalità, in assenza di un intento
doloso del lavoratore e di danno per la società, neppure essendosi verificato
l’evento oggetto di polizza, non essendo Giovanni Ferrara ancora deceduto.

8. Anch’esso è inammissibile.

9. Non è infatti sindacabile in sede di legittimità
l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla legittimità e congruità
della sanzione applicata, se, come nel caso di specie (per le ragioni esposte
al p.to 16 al primo capoverso di pg. 16, in riferimento alla gravità della
condotta come accertata al p.to 15 a pgg. 13 e 14 ed ancora ai tre ultimi
alinea del p.to 18 a pg. 17 della sentenza), sorretto da adeguata e logica
motivazione (Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; 26 settembre 2018,
n. 23046).

Ed è noto che il giudizio di mera proporzionalità in
concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione sia giudizio di fatto,
riservato al giudice di merito che deve operare tenendo conto di tutti i
connotati oggettivi e soggettivi della vicenda (Cass.
26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 29 marzo 2017
n. 8136; Cass. 10 luglio 2018, n. 18172; Cass. 28 gennaio 2020, n. 1891).

10. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce
violazione dell’art. 11 disp. prel. c.c.,
erronea applicazione del D.M. 20 luglio 2012,
n.140 emanato ai sensi dell’art. 9 d.l. 24
gennaio 2012 n. 1 conv. in I. 24 marzo 2012 n.
27 e vizio motivo, per erronea statuizione delle spese di primo e secondo
grado di giudizio, senza specificare i parametri adottati, neppure
compensandole, avuto riguardo alla complessità del quadro probatorio della
controversia o quantomeno determinarle nel minimo della fascia da € 26.000,00 a
€ 52.000,00, in misura del 50% di quanto liquidato.

11. Esso è inammissibile.

12. Premesso il rilievo di statuizione della Corte
territoriale sulle sole spese del grado d’appello (e non anche del primo),
giova ribadire che in sede di legittimità è insindacabile il provvedimento del
giudice di merito relativo alle spese del giudizio (incluso quella di
compensazione tra le parti), con il solo limite del rispetto del principio di
soccombenza, ossia che esse non siano poste a carico della parte interamente
vittoriosa (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 31 marzo 2017, n. 8421).

12.1. La censura difetta di specificità, ed è
pertanto inammissibile, posto il suo riferimento alla complessiva liquidazione
delle spese processuali operata del giudice di merito, senza indicare le
singole voci della tariffa, per diritti ed onorari, risultanti nella nota
spese, in ordine alle quali quel giudice sarebbe incorso in errore (Cass. 2
ottobre 2014, n. 20808); peraltro, a fronte di una succinta ma adeguata
illustrazione della tariffa e del valore parametrico applicati (al p.to 19 di
pg. 17 della sentenza).

13. Dalle superiori argomentazioni discende il
rigetto del ricorso, con regolazione delle spese secondo il regime di
soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella
ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass.
s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali,
oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di
legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 aprile 2021, n. 9550
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