Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 aprile 2021, n. 9725

Tributi, Imposte sui redditi, Tassazione concorrente,
Contribuente residente in Italia, Redditi da lavoro dipendente prodotti in
Germania, Periodo di soggiorno e lavoro all’estero per 183 giorni,
Adempimenti dichiarativi e versamenti effettuati in Germania

 

Rilevato

 

1. Il contribuente era attinto, in data 1 dicembre
2014, da avviso di pagamento con il quale l’Ufficio accertava per l’anno
d’imposta 2008 un reddito imponibile pari ad euro 162.115,00, stante l’omessa
dichiarazione dei redditi da parte del ricorrente. Rispondendo ad un
questionario dell’Ufficio, il contribuente chiariva invero di aver soggiornato
e svolto attività di lavoro dipendente per 183 giorni in Germania, ove aveva
presentato la relativa dichiarazione dei redditi e pagato integralmente le
relative imposte. Avviato il contradditorio per la definizione agevolata delle
sanzioni, il contribuente invocava il diritto a beneficiare del credito
d’imposta in virtù del divieto di doppia imposizione, respinto dall’Ufficio che
lo riteneva subordinato alla (omessa) presentazione della dichiarazione dei
redditi, essendo il contribuente fiscalmente residente in Italia.

2. Il ricorrente adiva con ricorso il giudice di
prossimità, cui resisteva l’Ufficio. La Commissione tributaria provinciale
accoglieva le ragioni del contribuente per motivi di rito, cui reagiva
l’Amministrazione finanziaria, promuovendo ricorso in appello.

3. Costituitosi il contribuente ed ammessa la
produzione in giudizio dell’avviso di accertamento non prodotto in primo grado
da parte dell’Ufficio, il Giudice d’appello riformava integralmente la
sentenza, confermando la legittimità dell’originario atto impositivo.

4. Ricorre per la cassazione della sentenza il contribuente,
affidandosi a quattro motivi, cui resiste la difesa erariale con tempestivo
controricorso, cui replica la parte privata svolgendo ulteriori difese in uno
con istanza di sollecita fissazione della trattazione, in data 8 settembre
2020.

 

Considerato

 

1. Con il primo motivo di ricorso la parte
ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 58 del d.lgs. n. 546/1992
e dell’art. 88 del codice di procedura civile,
anche alla luce degli articoli 3, 24, 97 e 111 della Costituzione in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. In particolare
taccia di inammissibilità la produzione, per la prima volta in appello,
dell’avviso di accertamento non prodotto in primo grado da parte dell ‘Ufficio
: oltre alla violazione del precetto che vieta la dimissione di nuove prove in
giudizio, essa integrerebbe anche un abuso del processo. L’Ufficio aveva invero
immediata disponibilità dell’avviso di accertamento notificato sicché la sua
omessa produzione avrebbe violato i principi della lealtà processuale. In
subordine chiede di sospendere il presente giudizio e sollevare una questione
di legittimità costituzionale dell’art. 58 cit. per contrasto con
gli articoli 3, 24,
97, 111 e 117, comma 1, della Costituzione.

1.1. Il motivo è infondato.

In materia la giurisprudenza di questa Corte, cui il
Collegio non ritiene di doversi discostare in assenza di nuove ragioni, ha
ritenuto che la piana lettera dell’articolo 58, comma 2, del d.lgs.
546/1992 “abilita alla produzione di qualsivoglia documento in
appello, senza restrizione alcuna e con disposizione autonoma rispetto a quella
che – nel comma precedente – sottopone a restrizione l’accoglimento
dell’istanza di ammissione di altre fonti di prova” e ciò
indipendentemente dalla dimostrazione dell’impossibilità di non averli potuti
produrre prima per cause non imputabili alla parte che ne aveva la
disponibilità (Cfr. Cass., V, n. 17164 del 2018;
n. 22776 del 2015; n.
1175 del 2016). Né è condivisibile l’assunto secondo cui l’avviso di
accertamento notificato, concretando la “prova” del perfezionamento
della notifica, dovrebbe essere escluso dal novero dei documenti ammissibili in
secondo grado. Sul punto questa Corte ha invero già statuito che “nel
processo tributario, la produzione di nuovi documenti in appello è generalmente
ammessa ai sensi del Decreto
Legislativo n. 546 del 1992, articolo 58, comma 2: tale principio opera
anche nell’ipotesi di deposito in sede di gravame dell’atto impositivo
notificato, trattandosi di mera difesa, volta a contrastare le ragioni poste a
fondamento del ricorso originario, e non di eccezione in senso stretto, per la
quale opera la preclusione di cui all’articolo 57 del detto
decreto” (Cfr. Cass., V, ord. n. 3615 del 2019; ord. 8313 del 2018; sent.
n. 27774 del 2017).

1.2 Non può trovare il favore di questa Corte
nemmeno la richiesta, svolta in via subordinata, di sospendere il processo e di
sollevare la questione di legittimità costituzionale, essendosi il Giudice
delle leggi già pronunciato sul punto. La Corte Costituzionale si è invero
espressa sulla legittimità costituzionale dell’art. 58 comma 2° d.lgs. n.
546/1992 su ordinanza sollevata dalla CTR Campania con la sentenza n. 199
del 2017 e tale decisione è già stata richiamata da questa Corte in precedenti
arresti.

In particolare è stato osservato che “il
giudice remittente, tra l’altro, ha dubitato proprio della costituzionalità
della facoltà di produrre per la prima volta in appello documenti già nella
disponibilità della parte nel grado anteriore, per disparità di trattamento tra
le parti del giudizio, ed in quanto impedirebbe artatamente alla controparte la
proposizione di motivi aggiunti in primo grado. La Consulta ha ritenuto nel
merito non fondata la censura di disparità di trattamento tra le parti del
giudizio, non solo in quanto tale facoltà è riconosciuta ad entrambe le parti
del giudizio, ma anche in quanto non sussiste alcuna violazione dell’art. 24 Cost. per la dedotta perdita di un grado
dì giudizio, in quanto è giurisprudenza pacifica di questa Corte che la
garanzia del doppio grado non gode, di per sé, di copertura costituzionale (Corte Cost., sentenza n. 243 del 2014). Né, ha
ribadito la Consulta, esiste un principio costituzionale di necessaria
uniformità del processo tributario e di quello civile (tra le altre, ordinanze n. 316 del 2008, n. 303 del 2002, n. 330 e n. 329 del
2000, n. 8 del 1999) (Cfr. Cass., V, ord. n. 17164 del 2018).

Il motivo è pertanto infondato.

2. Con il secondo motivo la difesa del contribuente
denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 della legge n.
4/2019, dell’art. 12, comma 7,
della legge n. 212/2000 e del generale principio del diritto al
contraddittorio preventivo (i.e. diritto di difesa) in parametro all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. In sostanza il
contribuente lamenta che l’avviso di accertamento, emesso a seguito della
risposta al questionario dell’Ufficio, sarebbe stato assunto senza alcun
preliminare contraddittorio e alcun processo verbale di constatazione.

2.1 II motivo è infondato.

L’art.
12, comma 7, dello Statuto del contribuente, invocato dalla difesa della
parte ricorrente, si applica ai soli casi di “accessi, ispezioni e
verifiche fiscali nei locali” del contribuente: l’emissione di un processo
verbale di contestazione non è nemmeno normativamente prevista in caso di
accertamento a tavolino come nel caso in esame. Trattasi, peraltro, di
principio assolutamente pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, con
la sentenza n. 24823/2015 resa a Sezioni
Unite, ha affermato che “le garanzie fissate nella legge n. 212 del 2000, articolo 12 comma 7, trovano
applicazione esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad
accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali dove si esercita
l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente”, così
trovando avvallo e conferma anche in recenti arresti (cfr. Cass., V, n. 766 del
2020).

Il motivo è pertanto infondato.

3. Con il terzo motivo la parte ricorrente lamenta
la violazione dell’art. 165 del
d.p.r. n. 917/1986 anche alla luce della Convenzione contro le doppie
imposizioni conclusa da Italia e Germania in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. nonché la
violazione del medesimo art. 165
alla luce degli articoli 3 e 53 della Costituzione e della CEDU in parametro
agli art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c..

In buona sostanza il ricorrente lamenta
l’illegittimità dell’atto impositivo giacché la detrazione del credito
d’imposta non potrebbe essere preclusa dall’omessa dichiarazione dei redditi in
Italia stante il versamento integrale delle imposte in Germania e il divieto di
doppia imposizione sancito dalla convenzione stipulata tra i due Stati.

Con l’ultimo motivo di ricorso il contribuente
censura invece la violazione dell’art. 111, co. 6,
della Costituzione, dell’art. 132, co. 2, n. 4
c.p.c. e dell’art. 36, co.
2, n. 4 del d.lgs. 546/1992 in parametro all’art.
360, co. 1, n. 3 c.p.c. La decisione del giudice d’appello sarebbe viziata
sotto il profilo della motivazione apparente avendo la Commissione tributaria
regionale aderito acriticamente alle ragioni addotte dall’Ufficio e fondate sul
dettato dell’art. 165, co. 8, TUIR
senza dare conto dell’incidenza, ai fini della fattispecie in esame, del
contenuto della Convenzione Italia – Germania.

3.1 I due motivi, strettamente connessi tra loro,
possono essere scrutinati congiuntamente e sono fondati.

La Convenzione tra
Italia e Repubblica Federale di Germania, stipulata il 18 ottobre 1989 e
ratificata e resa esecutiva con legge n. 459/1992,
al fine di evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in
materia di imposte sul reddito prevede all’art. 15, in rubrica “Lavoro
subordinato”, che “i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni
analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di
una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che
tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è
quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo
altro Stato”.

3.2. In materia questa Corte ha affermato che la
convenzione stipulata tra gli Stati, al pari delle altre norme internazionali
pattizie, riveste carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme
nazionali e quindi prevale su queste ultime, dovendo la potestà legislativa
essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli
obblighi internazionali sanciti dall’art. 117,
primo comma, Cost. (Cfr. Cass. nn. 1138 del
2009, 2912 del 2015, 14474 e 23984 del
2016).

In particolare, è stato affermato che “Le
convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione hanno la funzione di
dettare norme internazionali di conflitto al fine di eliminare la
sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, che si verifica allorché una
stessa situazione di fatto economicamente rilevante determina la nascita in
capo al medesimo soggetto di due obbligazioni tributarie in relazione a imposte
dello stesso tipo previste dalla legislazione di due Paesi diversi, con
conseguente ostacolo all’attività economica e di investimento internazionale.
Tale scopo viene perseguito o mediante l’attribuzione del potere d’imposizione
fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia
all’esercizio di tale potere da parte dell’altro Stato, oppure viene prevista
una potestà impositiva concorrente dei due Stati, con il ricorso allo strumento
del credito d’imposta per evitare la doppia imposizione” (cfr. Cass., sentenza n. 24112 del 2017).

3.3. Ciò posto, l’art. 15 della Convenzione conclusa tra
Italia e Repubblica Federale di Germania è chiara nell’ancorare la potestà
impositiva allo Stato di residenza solo se coincidente con quello in cui il
lavoro viene esercitato.

La disposizione prevede infatti che nel caso in cui
l’attività sia svolta nell’altro Stato contraente – ovvero quello in cui il
contribuente non ha residenza – “le remunerazioni percepite a tale titolo
sono imponibili in questo altro Stato” (cfr., sull’omologo art. 15 della Convenzione tra Italia e
Svizzera, in relazione a somme percepite a titolo di t.f.r., Cass. n. 14474 del 2016, cit.; idem l’omologo
art. 15 della Convenzione tra Italia e Regno Unito, Cass.
n. 24112 del 2017).

In altri termini, la regola applicabile è quella
dell’art. 15 della convenzione
Italia Germania che, come l’art. 15 della Conv. OCSE, mette in gioco
l’avverbio “soltanto” per derogare al worldwide principle rispetto
alla tassazione dei redditi da lavoro dipendente, per favorire la circolazione
delle manodopera. Dunque è fuori fuoco l’art. 165 (come parimenti l’art. 51
sulla retribuzione convenzionale, oggetto dell’atto impositivo). Le istruzioni
al modello UNICO/2009 per i redditi 2008 prevedono a pag. 90: “Vanno
dichiarati gli stipendi… percepiti da contribuenti residenti in Italia: a)
prodotti in un paese estero con il quale non esiste convenzione contro le
doppie imposizioni; b) prodotti in un paese estero con il quale esiste
convenzione contro le doppie imposizioni in base alla quale tali redditi devono
essere assoggettati a tassazione sia in Italia sia nello Stato estero; c)
prodotti in un paese estero con il quale esiste convenzione contro le doppie
imposizioni in base alla quale tali redditi devono essere assoggettati a
tassazione esclusivamente in Italia. Nei casi elencati alle lettere a) e b) il
contribuente ha diritto al credito per le imposte pagate all’estero a titolo
definitivo, ai sensi dell’art. 165
del Tuir.

Nel caso previsto dalla lettera c) se i redditi
hanno subito un prelievo fiscale anche nello Stato estero di erogazione, il
contribuente, residente nel nostro Paese, non ha diritto al credito d’imposta,
ma al rimborso delle imposte pagate nello Stato estero. Il rimborso va chiesto
all’autorità estera competente in base alle procedure da questa stabilite”.

4. Nella fattispecie in esame non è contestato né
che il contribuente abbia la residenza in Italia né che egli abbia prestato la
sua attività lavorativa in Germania per almeno 183 giorni, ove egli ha assolto
a tutti i suoi obblighi tributari mediante il versamento integrale delle
imposte e non potendosi richiedere ulteriori adempimenti o versamenti in
Italia. Il terzo motivo di ricorso è pertanto fondato con conseguente
assorbimento del quarto, svolto in via subordinata.

5. In conclusione il ricorso è fondato e merita
accoglimento.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso per le ragioni attinte dal terzo
motivo di ricorso, dichiara infondati il primo ed il secondo motivo, nonché
assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto
e rinvia alla CTR per la Lombardia – Milano, in diversa composizione, cui
demanda anche la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 aprile 2021, n. 9725
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