Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 aprile 2021, n. 10867

Illegittimità del licenziamento, Sussistenza della giusta
causa del licenziamento, Rifiuto di svolgere le mansioni di addetta all’Area
manager, Comportamenti vessatori subiti, Cessione di azienda, non esimente
dalla responsabilità solidale patrimoniale, nei confronti della dipendente,
della società cessionaria, Nessuna responsabilità di comportamenti vessatori
posti in essere dalla cedente

 

Fatti di causa

 

S.A. ha interposto appello avverso la sentenza n.
579/2016, emessa dal Tribunale di Treviso, Sezione lavoro, in sede di
opposizione ad ordinanza di rigetto del ricorso proposto dalla stessa con il
rito c.d. Fornero, diretto all’accertamento della illegittimità del
licenziamento alla stessa irrogato dalla CMA M.C. S.r.l., con lettera del
31.10.2014. In sede di gravame, le parti hanno dichiarato di concordare in
ordine alla trattazione del grado di appello con rito ordinario.

La Corte territoriale di Venezia, con sentenza n.
371/2018, pubblicata il 5.9.2018, ha rigettato l’appello, sottolinenando, tra
l’altro, la mancanza di chiarezza delle conclusioni della parte appellante (in
quanto, nelle stesse, «in modo equivoco, ci si riporta alle conclusioni di
primo grado ma – in modo generico – si chiede di accertare la nullità e/o
illegittimità del licenziamento», mentre «in primo grado in modo più preciso si
chiedeva di accertare la natura discriminatoria e/o ritorsiva del licenziamento
e, in subordine, la sua illegittimità per mancanza di giusta causa»).

La Corte di merito ha, comunque, osservato che, «a
prescindere dalle modalità e dall’ordine delle diverse domande proposte, la
prima questione da esaminare è quella relativa alla sussistenza della giusta
causa del licenziamento intimato in data 31.10.2014>>, a seguito di
ripetute lettere di richiamo della lavoratrice ad ottemperare ai propri doveri
(è incontestato che la stessa non abbia mai dato seguito ai ripetuti inviti, da
parte della datrice di lavoro, di compilare i calendari per gli accessi alle
sedi del Centro-Sud Italia, relativamente alle quali ultime le erano state
assegnate le mansioni di Area manager). Tali rifiuti ad adempiere alle mansioni
di cui si tratta, documentati nelle lettere richiamate nella sentenza di primo
grado, e non oggetto di contestazione in fase di gravame, sono stati ritenuti
pregnanti dai giudici di merito per pervenire ad un giudizio di infondatezza
delle pretese della lavoratrice.

La Corte di Appello, facendo proprie le
argomentazioni del primo giudice, ha osservato, inoltre, che, pur prendendo
atto della sentenza dello stesso Tribunale n. 334/2015, emessa il 12.6.2015
(dalla quale risulta che la H.W., già CMA S.p.A., chiamata a dare adempimento
alla sentenza dell’1.7.2011, definitiva – con la quale è stato riconosciuto il
diritto della lavoratrice all’inquadramento nella VI categoria CCNL Industria Metalmeccanica Privata a partire
dall’assunzione e sino al dicembre 2006 e nella VII categoria a partire dal
gennaio 2007, ed è stata accertata l’avvenuta dequalificazione nel luglio 2008,
con conseguente condanna della resistente all’assegnazione delle mansioni
proprie della VII categoria – aveva assegnato alla A. un’area commerciale
nazionale che, in precedenza, non era stata assegnata ad alcun Area manager,
imponendo, altresì, modalità operative disagevoli e ponendo in essere una serie
di comportamenti costituenti nel loro complesso ingiuste prevaricazioni),
tuttavia la stessa non ha rilievo nel presente procedimento, in quanto è stata
resa nei confronti del precedente datore di lavoro (che ha ceduto l’azienda
all’odierna convenuta nell’estate del 2012) ed ha, conseguentemente, accertato
comportamenti posti in essere dalla precedente parte datoriale, anteriormente
alla cessione di azienda ed all’intervallo determinatosi nel rapporto
lavorativo per effetto dell’assenza per maternità della ricorrente,
dall’ottobre 2012 al luglio 2014. I giudici di merito hanno poi sottolineato
che, dalla documentazione agli atti, risulta acclarato, come innanzi osservato,
che, dal rientro dalla maternità, avvenuto il 14 luglio 2014, e sino al
licenziamento dell’ottobre successivo, la dipendente ha rifiutato di svolgere
le mansioni di addetta all’Area manager per il Centro-Sud Italia, non
ottemperando ad alcuna delle reiterate richieste di approntare il calendario
delle visite ai clienti: incombenza all’evidenza prodromica all’effettuazione
delle visite stesse.

Quanto alla pretesa sussistenza di un licenziamento
ritorsivo, i giudici di merito non hanno reputato che, al riguardo, fossero
stati prodotti elementi delibatori idonei per la configurazione dello stesso.

Per la cassazione della sentenza la A. ha proposto
ricorso affidato a due motivi, cui la società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno comunicato memorie ai sensi
dell’art. 378 del codice di rito.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si censura, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
e falsa applicazione degli artt. 1460 e 1375 c.c., ed in particolare, si lamenta che la
sentenza oggetto del presente giudizio avrebbe errato nel ritenere che la
ricorrente non avesse titolo per opporre alla datrice una eccezione di
inadempimento, e non avrebbe considerato che il rifiuto di svolgere la
prestazione lavorativa di Area manager Centro-Sud Italia era stato opposto
dalla lavoratrice in ragione del grave danno alla salute ed alla
professionalità determinato dall’aver continuato la CMA M.C. S.r.l. ad
assegnare tali mansioni già ritenute dequalificanti.

2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119
c.c. per carenza di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione
adottata, nonché la mancanza di motivazione, ritenuta <<incoerente, con
indicazione generica degli elementi su cui ha fondato il proprio convincimento,
soprattutto omettendo una loro razionale disamina logica e giuridica>>.

1.1. Il primo motivo non può essere accolto per
tutte le pregnanti ragioni esplicitate nella sentenza impugnata (in particolare
alle pagg. 25-28), supportate da puntuali citazioni di arresti
giurisprudenziali di legittimità (in particolare e, tra le molte, Cass. nn. 836/2018; 24459/2016;
10468/2015; 12696/2012).

Innanzitutto, infatti, la censura attiene ad una
circostanza (la giustificazione del rifiuto di adempiere, perché la prestazione
era lesiva del proprio diritto alla salute) riguardo alla quale la ricorrente
non specifica se sia stata prospettata nei gradi di merito e, dunque, appare
nuova nel presente giudizio, anche in considerazione del fatto che la stessa
non spiega in che modo i comportamenti vessatori subiti da settembre 2011 a
luglio 2012, da parte del precedente datore di lavoro (CMA S.p.A.), possano
essere addebitati all’attuale parte datoriale (CMA M.C. S.r.l.), presso la
quale la stessa non ha espletato alcuna mansione, stante l’assenza, protrattasi
per due anni, per maternità, malattia e ferie ed il successivo rifiuto di
adempiere alla prestazione di cui tratta. A tale ultimo riguardo, i giudici di
appello hanno sottolineato correttamente che – pur dovendosi dare atto che, ai
sensi della giurisprudenza di legittimità, <<il rifiuto della prestazione
lavorativa può integrare una forma legittima di autotutela a fronte di un
inadempimento datoriale che comprometta i beni personali del lavoratore (vita e
salute), in violazione del dovere di protezione della persona del lavoratore, e
che metta irrimediabilmente a rischio la sua incolumità>> (Cass. nn. 24459/2016; 831/2016;
10553/2013) -tuttavia <<il gravame non è
fondato per i rifiuti della ricorrente ad adempiere alle mansioni a lei
richieste, documentati nelle lettere richiamate nella sentenza di primo grado e
non oggetto di contestazione sul punto nel gravame.

E, comunque, il fatto che le mansioni di Area
manager per il Centro-Sud Italia, assegnate dalla CMA M.C. S.r.l. fossero
dequalificanti rispetto a quelle di Area manager Estero è rimasto indimostrato,
anche perché la A. non le ha mai svolte, in quanto è stata assente dal lavoro
per due anni ed al rientro si è sempre rifiutata di svolgerle. Né può crearsi
un contrasto di giudicati <<tra quanto accertato nelle due sentenze
(quella non definitiva del Tribunale di Treviso e la successiva n. 77 del 2017
sulla quantificazione del danno) e quanto oggetto di decisione nel presente
procedimento>>, come condivisibilmente affermato nella sentenza
impugnata, anche in considerazione del fatto che <<nel procedimento
definito con tali sentenze … il Giudice ha rigettato l’eccezione di difetto
di legittimazione passiva della società cedente evidenziando che “la
tutela richiesta dalla ricorrente fa riferimento al periodo in cui è stata
dipendente della stessa, vale a dire l’I agosto 2012” e il dispositivo
accerta e dichiara una dequalificazione e trattamento persecutorio da parte
della convenuta dal 1 settembre 2011 al 31 luglio 2012>>. Pertanto, se
l’avvenuta cessione di azienda non esime dalla responsabilità solidale
patrimoniale, nei confronti della dipendente, la società cessionaria,
quest’ultima non può, però, essere ritenuta responsabile di comportamenti
vessatori posti in essere dalla cedente ed in ordine alla asserita reiterazione
dei quali, da parte della cessionaria, la ricorrente non ha fornito alcuna
prova, anche perché -ripetesi- la stessa non ha espletato alcuna attività
lavorativa in favore della controricorrente. Per la qual cosa, la A. non ha mai
neppure valutato, in concreto, se vi fosse equivalenza o meno tra le mansioni
di Area manager Centro-Sud Italia e quelle di Area manager Estero.

2.2. Il secondo motivo, che, nella sostanza,
prospetta un vizio di motivazione, non può essere accolto, in quanto tende ad
ottenere un nuovo esame del merito, precluso in questa sede. Peraltro, i
giudici di merito hanno coerentemente e condivisibilmente motivato in ordine
alla gravità delle reiterate, provate, inosservanze, da parte della dipendente,
alle prescrizioni della società datrice. Al proposito, va sottolineato,
altresì, che, laddove venga denunciato un vizio di violazione dell’art. 2119 c.c. e si proponga un diverso apprezzamento
della gravità dei fatti e della concreta ricorrenza degli elementi che
integrano il parametro normativo della giusta causa, tale apprezzamento, che,
ponendosi sul piano del giudizio di fatto, è demandato al giudice di merito, è
sindacabile in Cassazione solo a condizione che la contestazione contenga una
specifica pronunzia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori
dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (tra le molte, Cass. nn.
5707/2017; 23862/2016; 13149/2016). E, nel caso di specie, tale
condizione non è stata rispettata, poiché la ricorrente non ha neppure
precisato (se non dolendosi di una motivazione «carente») sotto quale profilo
la norma che si assume violata sarebbe stata incisa; e ciò, in spregio alla
prescrizione di specificità dell’art. 366, primo
comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito,
debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale
indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma anche con specifiche
argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in
contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di
legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015;
Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009). La ricorrente, invece, alla ricostruzione
logico-giuridica dei fatti correttamente operata dalla Corte di merito, ha
opposto una propria ricostruzione del tutto sfornita di elementi delibatori
idonei a supportarla.

3. Pertanto, alla stregua di tutto quanto in
precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

4. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza.

5. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.250,00
per compenso professionale ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali
nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 aprile 2021, n. 10867
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