Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 aprile 2021, n. 10992

Licenziamento collettivo, Reintegrazione, Facoltà datoriale
di intimazione di un nuovo licenziamento, Diverse circostanze sopravvenute

 

Fatti di causa

 

Con sentenza 11 ottobre 2016, la Corte d’appello di
Salerno dichiarava illegittimo e annullava il licenziamento, a seguito di
procedura collettiva, intimato da A. G. B. s.p.a. a G. C. con decorrenza dal 30
novembre 2014, condannando la prima alla reintegrazione del secondo nel posto
di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata a dodici
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, nonché al
versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del
licenziamento a quello di effettiva reintegrazione, oltre interessi legali.
Così essa riformava la sentenza di primo grado, che, in esito a procedimento
con rito Fornero, aveva dichiarato legittimo il licenziamento.

In via preliminare, la Corte territoriale riteneva
la facoltà datoriale di intimazione di un nuovo licenziamento, sulla base di
diverse circostanze sopravvenute da sole idonee a giustificare la risoluzione
del rapporto di lavoro, pure in pendenza di impugnazione di un precedente
licenziamento: per il porsi la questione sul piano (non già meramente formale
di preesistenza dell’uno all’altro, ma) dell’efficacia; posto che l’eventuale
esito favorevole dell’impugnazione non caducasse il secondo licenziamento per
invalidità, piuttosto comportando la continuità del rapporto e l’autonoma
valutazione in sede giudiziaria di questo e dei suoi motivi.

Sicché, il licenziamento collettivo intimato al
lavoratore con decorrenza dal 30 novembre 2014 per riduzione di personale, e
pertanto per giustificato motivo oggettivo in esito alla procedura prevista
dalla legge 223/1991, non era ex se nullo o
illegittimo per la pronuncia di illegittimità dei due precedenti recessi
intimatigli (il 30 maggio 2012 per giusta causa e l’11 giugno 2012 per motivi
disciplinari), da questa semplicemente conseguendo l’inclusione del lavoratore
nella platea dei dipendenti della società interessati dalla procedura
collettiva. Negata quindi la dedotta natura ritorsiva o discriminatoria del
licenziamento, in assenza dei rispettivi requisiti, nel merito la Corte
salernitana ravvisava la violazione dei criteri di scelta legali (adottati, in
accordo con le organizzazioni sindacali, dopo la precedenza a chi non si fosse
opposto alla collocazione in mobilità con incentivo all’esodo entro il 19 maggio
2014), non avendo la società datrice adeguatamente giustificato la scelta di
licenziare il lavoratore, già addetto al reparto di piegatura (soppresso solo
dal settembre 2014 per l’esternalizzazione del servizio a LIP s.a.s.,
nell’ambito della riorganizzazione dell’attività produttiva per la crisi del
settore editoriale) ma in esso soltanto formalmente reintegrato per effetto
dell’annullamento dei precedenti licenziamenti (avendogli la società datrice
corrisposto le retribuzioni senza riammetterlo ad alcuna effettiva prestazione
lavorativa) e nel quale erano stati impiegati dalla data del suo licenziamento
(nel 2012) al settembre 2014 (data di esternalizzazione) altri dipendenti della
società, con evidente fungibilità delle relative mansioni. Inoltre, la Corte
territoriale rilevava anche la maggiore anzianità ed il più oneroso o analogo
carico familiare suoi rispetto ad altri operai, con inosservanza dei criteri
legali applicati e la conseguente inadeguata giustificazione del licenziamento
di G. C..

Infine, essa dava atto dell’omessa indicazione della
soppressione del reparto piegatura, pure appartenente all’area allestimenti
interessata dagli esuberi e della relativa esternalizzazione del servizio sia
nella comunicazione di avvio della procedura del 19 febbraio 2014, sia
nell’accordo sindacale del 9 aprile 2014, neppure risultando essere stata
oggetto di negoziazione.

Così accertata la violazione dei criteri di scelta,
la Corte salernitana applicava il regime di tutela previsto dal testo novellato
dell’art. 18, quarto comma I.
300/1970, con la condanna della società datrice alla reintegrazione nel
posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria commisurata come
sopra indicato.

Con atto notificato il 23 dicembre 2016, Arti
Grafiche B. s.p.a. ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui il
lavoratore resisteva con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. In ordine alla preliminare eccezione di
inammissibilità del ricorso, per essere stato notificato entro il termine
semestrale dalla pubblicazione della sentenza, in data 11 ottobre 2016, ai
sensi dell’art. 327 c.p.c., e non nel termine
di decadenza di sessanta giorni dalla comunicazione di cancelleria a norma
dell’art. 1, sessantaduesimo comma
I. 92/2012, il collegio rileva come dalla certificazione di cancelleria
(trascritta sub p.to 2, a pgg. 7 e 8 del controricorso del lavoratore) e dalla
sua stessa produzione (in allegato sub 5 ad esso), non si evinca con certezza
se oggetto della comunicazione siano state soltanto la notizia del deposito e
l’indicazione della lettura del dispositivo in udienza ovvero anche il testo
integrale della sentenza, necessario per consentire alla parte di essere in
grado di conoscere le ragioni sulle quali la pronuncia sia fondata e di
valutarne la correttezza per l’eventuale predisposizione del ricorso (Cass. 16 maggio 2016, n. 10017; Cass. 24 ottobre
2017, n. 25136; Cass. 6 marzo 2019, n. 6551). Sicché, per evitare differimenti
onde acquisire la debita attestazione della Cancelleria della Corte d’appello
di Salerno, in applicazione del principio di “ragione più liquida” (Cass. 11 maggio 2018, n. 11458; Cass. 26 novembre
2019, n. 30745), appare di più agevole soluzione affrontare la questione della
fondatezza o meno del ricorso (tenuto conto del suo esito), ancorché
logicamente subordinata alla questione pregiudiziale in rito prospettata.

2. Con il primo motivo, la ricorrente deduce nullità
della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., per la
mancata indicazione degli elementi dai quali la Corte territoriale avrebbe
tratto il convincimento dello svolgimento delle stesse mansioni di C. da altri
lavoratori nel periodo compreso tra il suo (primo) licenziamento (poi
dichiarato illegittimo con la sua rintegrazione formale) e l’esternalizzazione del
servizio di piegatura, al quale esclusivamente il predetto era stato addetto,
assumendo pure la circostanza come “pacifica”, essendo stata invece
contestata dalla datrice.

3. Con il secondo, essa deduce violazione degli artt. 244, 345, 437 c.p.c., per la mancata ammissione della prova
orale tempestivamente dedotta in primo grado, e reiterata in sede di reclamo,
relativa all’esclusiva adibizione di G. C. al reparto di piegatura fino alla
sua soppressione per esternalizzazione del servizio.

4. Essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di
stretta connessione, sono infondati.

5. E’ noto che il vizio di nullità per omissione di
motivazione della sentenza, che è requisito da apprezzare esclusivamente in
funzione dell’intelligibilità della decisione e della comprensione delle
ragioni poste a suo fondamento, si configuri solo qualora non sia possibile
individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione
(Cass. 20 gennaio 2015, n. 920; Cass. 2018, n. 22598; Cass. 15 novembre 2019,
n. 29721) e, in particolare, quando il giudice di merito ometta di indicare gli
elementi da cui abbia tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza
una loro disamina logica e giuridica, tale da rendere impossibile ogni
controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. 7 aprile
2017, n. 9105; Cass. 14 ottobre 2020, n. 22231).

5.1. Nel caso di specie, essa peraltro non sussiste,
avendo la Corte argomentato il proprio convincimento in ordine alla fungibilità
dei compiti di G.C. (al penultimo capoverso di pg. 15 della sentenza),
rilevante ai fini del rispetto dei criteri legali di scelta, sulla base di un ragionamento
presuntivo, sia pure succinto, ma corretto e logicamente persuasivo (neppure
correttamente denunciato, per erronea sussunzione, sotto i tre caratteri
individuativi della presunzione di gravità, precisione e concordanza, di fatti
concreti invece non rispondenti a quei requisiti: Cass. 26 giugno 2008, n.
17535; Cass. 4 agosto  2017, n. 19485;
Cass. 16 novembre 2018, n. 29635). Ed esso è stato adeguatamente argomentato
sulla circostanza che il reparto di piegatura, cui pure era adibito unicamente
il lavoratore predetto, sia stato tuttavia mantenuto in funzione anche nel
periodo successivo al suo licenziamento (nell’anno 2012) fino
all’esternalizzazione del servizio (nel settembre 2014), nonostante la non
contestata (e pertanto “circostanza pacifica”) reintegrazione in
servizio soltanto formale del lavoratore, per effetto dell’accertata
illegittimità del licenziamento intimatogli, “avendogli il datore di
lavoro corrisposto le retribuzioni senza fargli svolgere materialmente alcuna
prestazione lavorativa” (così al primo capoverso di pg. 15 della
sentenza). Da una tale constatazione la Corte territoriale ha tratto il
convincimento che quelle funzioni, un tempo appannaggio esclusivo del
lavoratore licenziato e di fatto non reintegrato, siano “state svolte da
altri dipendenti della società appellata” (così al secondo capoverso di
pg. 15 della sentenza): con un’inferenza logica difficilmente confutabile.

5.2. Sicché, rispetto ad un tale ragionamento
probatorio coerente ed argomentato, del tutto irrilevante risulta la prova
orale dedotta (e debitamente trascritta nella sua puntuale deduzione in primo e
in secondo grado: a pgg. 12 e 13 del ricorso), siccome non attinge proprio il
suddetto periodo di assenza, per licenziamento senza successiva reintegrazione effettiva,
del lavoratore reiteratamente quanto inutilmente indicato (prima del periodo di
rilevanza) quale unico addetto al reparto.

6. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce
violazione degli artt. 4 e 5 I.
223/1991, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto omessa
l’indicazione di soppressione del reparto piegatura, al quale era unicamente
addetto il lavoratore licenziato, nella comunicazione di avvio della procedura
del 19 febbraio 2014 e così pure nell’accordo sindacale del 9 aprile 2014;
essendo stato invece adeguatamente assolto dalla datrice l’onere di legge con
l’espressa  previsione, nella prima, di
“dismissione di impianti” e di revisione totale dell’organico anche
relativo al reparto “allestimenti”, oggetto dell’esame congiunto
stabilito dall’art. 4 I.
223/1991, esperito positivamente e pertanto con idoneo svolgimento della
procedura, alla cui sola regolarità è limitato il sindacato giudiziale.

7. Esso è inammissibile.

8. Qualora la decisione di merito si fondi su una
pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a
sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza (o
addirittura mancanza di una specifica formulazione) delle censure mosse ad una
delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di
interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto
di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante
l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa
(Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29
marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613; Cass. 19 febbraio 2016,
n. 3307; Cass. 15 luglio 2020, n. 15114).

8.1. Ed è quanto si verifica nel caso di specie,
posto che l’infondatezza dei primi due motivi, riguardanti la prima ratio di
illegittimità del licenziamento, rende irrilevante, per la ragione detta,
l’esame del presente motivo invece relativo alla seconda, di illegittimità del
licenziamento per incompletezza della comunicazione prevista dall’art. 4 I. 223/1991 (significativamente
introdotta dalla locuzione “Si aggiunge”: all’esordio del secondo
capoverso di pg. 16 della sentenza).

8.2. Né si può dubitare dell’autonomia delle due
diverse ipotesi: di illegittimità del licenziamento collettivo, per la non
corrispondenza al modello legale della comunicazione stabilita dall’art. 4, nono comma I. 223/1991,
che costituisce “violazione delle procedure” e cui è applicabile la
tutela indennitaria prevista dal novellato testo dell’art. 18, settimo comma, terzo
periodo I. 300/1970, quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità,
previa dichiarazione di risoluzione del rapporto alla data del licenziamento
(così anche Cass. 13 giugno 2016, n. 12095);
di inosservanza dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge
ovvero perché applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive,
comportante invece l’annullamento del licenziamento, con la condanna alla
reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria
in misura non superiore a dodici mensilità, a norma dell’art. 18, quarto comma I. cit.
(Cass. 2 febbraio 2018, n. 2587).

10. Con il quarto motivo, la ricorrente deduce
violazione degli artt. 2118 c.c., 6 I. 604/1966, 18 I. 300/1970, per erronea
applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 18, quarto comma I. 300/1970,
come novellato dalla I. 92/2012), in luogo di
quella indennitaria forte (art.
18, quinto comma I. cit.), operando la prima soltanto quando il fatto posto
a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia di
“manifesta insussistenza” ma non “nelle altre ipotesi” (art. 18, settimo comma I.
cit.), come appunto nel caso di specie, per la ritenuta illegittimità del
licenziamento, per “generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e
fungibile”, a causa della “violazione dei criteri di correttezza e
buona fede”.

11. Esso è infondato.

12. In via preliminare, si rileva l’inconferenza del
riferimento, tanto di individuazione di fattispecie, tanto di tutela
applicabile.

Sotto il primo profilo, non si tratta nel caso di
specie di un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, per
il quale, se esso consista nella generica esigenza di riduzione di personale
omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente da licenziare non sia totalmente
libera ma comunque limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori,
dalle regole di correttezza previste dagli artt.
1175 e 1375 c.c., potendo farsi riferimento
a tal fine ai criteri stabiliti dall’art. 5 I. 223/1991, quali
standards particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di esercitare
il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con
quello aziendale (Cass. 9 maggio 2002, n. 6667; Cass. 7 agosto 2020, n. 16856).

12.1. L’ipotesi in esame riguarda piuttosto l’esito
espulsivo di una procedura di licenziamento collettivo, per la quale è
espressamente prevista dall’art.
5, terzo comma I. 223/1991, in relazione all’art. 18, quarto comma I. 300/1970
(nel testo novellato dalla I. 92/2012), in
caso di riduzione di personale con violazione dei criteri di scelta stabiliti
dall’art. 5 I. 223/1191,
riguardante tutte le modalità di applicazione dei suddetti criteri, la tutela
reintegratoria attenuata (Cass. 26 settembre 2016,
n. 18847; Cass. 3 agosto 2018, n. 20502; Cass.
28 gennaio 2019, n. 2291): correttamente applicata dalla Corte
territoriale.

13. Dalle superiori argomentazioni discende il
rigetto del ricorso, con regolazione delle spese secondo il regime di
soccombenza e distrazione in favore dei difensori antistatari, secondo la loro
richiesta e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza
dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la società alla
rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali,
oltre rimborso per spese generali  nella
misura del 15 per cento e accessori di legge, con distrazione in favore dei
difensori antistatari.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 aprile 2021, n. 10992
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