Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 maggio 2021, n. 12941
Azienda Ospedaliera, Licenziamento disciplinare, Notizia del
licenziamento divulgata dalla stampa locale, prima che il provvedimento fosse
adottato e comunicato all’interessato, Fonte di responsabilità risarcitoria,
Competenza ad irrogare la sanzione, del Direttore Generale, Ragioni
intrinseche di responsabilità disciplinare e non di responsabilità dirigenziale
– Riassunzione della causa successiva alla cassazione della sentenza, Processo
chiuso nel quale è preclusa alle parti ogni possibilità di presentare nuove
domande, eccezioni, conclusioni diverse
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Napoli ha definito il
giudizio di rinvio, riassunto da G.F. nei confronti dell’Azienda Ospedaliera
Ospedale S.C. di Potenza all’esito della sentenza rescindente di questa Corte
n. 27128/2013, ed ha confermato integralmente la pronuncia del Tribunale di
Potenza che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare
irrogato al dirigente medico il 7 ottobre 2005 ed aveva condannato l’Azienda al
pagamento dell’indennità di mancato preavviso, pari ad € 33.254,88, respingendo
le ulteriori domande di pagamento dell’indennità di ferie non godute e di
risarcimento del danno derivato dalla violazione della legge sulla
riservatezza.
2. Il F., dirigente medico assegnato all’Unità
Operativa di Ostetricia e Ginecologia, nel giugno del 2005 aveva inoltrato
all’Ufficio del Personale domanda di aspettativa, in ragione di un incarico a
tempo determinato ricevuto dall’Ospedale C.R. di Roma, ed era stato licenziato
in quanto, senza attendere l’autorizzazione, aveva preso servizio presso una
struttura non pubblica, assentandosi dal lavoro.
La notizia del licenziamento era stata divulgata
dalla stampa locale, con ampi e precisi riferimenti al procedimento
disciplinare, prima ancora che il provvedimento fosse formalmente adottato e
comunicato all’interessato.
3. Il Tribunale aveva ritenuto che il recesso,
seppure legittimo quanto alla scelta di risolvere il rapporto, fosse viziato
per ragioni di carattere formale in quanto la sanzione era stata irrogata dal
Direttore Generale anziché dall’Ufficio Procedimenti Disciplinari.
La Corte d’appello di Potenza, invece, adita con
appello principale dall’Azienda e con impugnazione incidentale dal F.,
escludeva l’applicabilità dell’invocato art. 55, comma 4, d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile
ratione temporis, e riteneva che nei casi di responsabilità disciplinare del
dirigente medico dovesse trovare applicazione la disciplina collettiva, che
nella specie riconosceva la competenza del Direttore Generale ed imponeva solo
la previa acquisizione del parere del Comitato dei Garanti.
4. Questa Corte con la sentenza rescindente ha
accolto il motivo di ricorso formulato avverso il capo della decisione inerente
la legittimità della sanzione espulsiva ed ha affermato che, allorquando
l’amministrazione fa valere ragioni intrinseche di responsabilità disciplinare
e non di responsabilità dirigenziale, anche per i dirigenti trova applicazione
la disciplina generale dettata dall’art. 55 del richiamato decreto legislativo.
Ha, quindi, ritenuto che l’accoglimento della censura fosse assorbente, perché
gli ulteriori motivi prospettavano questioni conseguenziali all’accertamento
della legittimità o meno del recesso.
5. La Corte d’appello di Napoli, riassunta la
vicenda processuale nei termini sopra esposti e richiamato il principio di
diritto affermato nella sentenza rescindente, ha rigettato l’appello principale
a suo tempo proposto dall’Ospedale, confermando la statuizione di prime cure
quanto alla ritenuta illegittimità del licenziamento. Ha, però, escluso la
fondatezza della domanda, proposta solo nel giudizio di rinvio, di applicazione
delle tutele previste dall’art. 18 della legge 300/1970 ed ha rilevato che il
ricorrente non aveva mai domandato la reintegrazione nel posto di lavoro ed
anzi aveva chiesto che venisse liquidato il trattamento di fine rapporto,
domanda, questa, che il Tribunale aveva esaminato rilevando che la liquidazione
doveva essere richiesta non al datore di lavoro bensì all’Inpdap.
Sulle conseguenze del licenziamento illegittimo si
era, quindi, formato giudicato implicito.
6. La Corte territoriale ha parimenti ritenuto
infondati i motivi dell’appello incidentale a suo tempo formulati avverso la
sentenza di primo grado, riproposti nel giudizio di rinvio.
Quanto al risarcimento dei danni all’immagine ha
sottolineato che il licenziamento, seppure viziato per il mancato rispetto
della procedura, era stato intimato in ragione di una «palese violazione delle
regole da parte del ricorrente» il quale non poteva unilateralmente mettersi in
aspettativa, tanto più che alla stessa non aveva diritto in ragione della
natura non pubblica ma privata della struttura presso la quale avrebbe svolto
il periodo di studio e di approfondimento.
7. Il giudice del rinvio ha anche escluso che
potesse essere fonte di responsabilità risarcitoria gravante sull’Ospedale o
sul Direttore Generale la pubblicazione sulla stampa locale della notizia.
Ha rilevato che non era emersa la prova della
riconducibilità all’azienda della diffusione della notizia ed ha aggiunto che
non era stata formulata alcuna allegazione di danno concreto derivato al
ricorrente dalla pubblicazione.
8. Parimenti infondato è stato ritenuto il motivo
d’appello formulato avverso il capo della sentenza che aveva rigettato la
domanda di pagamento di ferie e festività non godute, sul rilievo che il
ricorrente nell’atto introduttivo si era limitato genericamente a riportare i conteggi
elaborati dal consulente di parte, senza allegare e provare, come sarebbe stato
suo onere, di non avere goduto delle ferie rispetto alle quali rivendicava
l’indennità omettendo di confrontarsi con la disciplina contrattuale che ne
esclude la monetizzazione se non nei casi eccezionali indicati.
9. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso G.F. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, ai quali ha
opposto difese con controricorso l’Azienda Ospedaliera Regionale S. C. di
Potenza.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ex
art. 360 n. 3 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 18
della legge n. 300/1970, richiamato dall’art. 51 del d.lgs. n. 165/2001, e
sostiene, in sintesi, che il carattere chiuso del giudizio di rinvio non può
essere invocato qualora, come nella fattispecie, vengono in rilievo questioni
sulle quali la Corte non si è pronunciata neppure implicitamente.
Sostiene che qualora un effetto giuridico sia
automatico e consegua ope legis alla situazione di diritto accertata non è
necessario che la parte lo domandi espressamente, essendo sufficiente che
chieda l’accertamento della situazione da quell’effetto scaturisce. Aggiunge
che il legislatore ha escluso dall’effetto legale della reintegrazione solo le
ipotesi della rinuncia e dell’esercizio del diritto d’opzione, sicché la
domanda volta ad ottenere il pagamento del TFR non poteva essere ritenuta
incompatibile con la richiesta di reintegrazione, rispetto alla quale non vi era
mai stata rinuncia.
2. La seconda censura addebita alla sentenza
impugnata la violazione e falsa applicazione degli artt. 11, 15, 25, 26 e 111
del d.lgs. n. 196/2003 perché la Corte territoriale ha errato nel ritenere non
provata la responsabilità del datore di lavoro il quale, invece, rispondeva e
risponde delle azioni dei propri sottoposti e, quindi, nella fattispecie della
divulgazione della notizia che sicuramente era stata fornita agli organi di
stampa da personale dell’azienda ospedaliera.
Il ricorrente aggiunge che i danni cagionati per
effetto del trattamento dei dati personali sono assoggettati alla disciplina di
cui all’art. 2050 cod. civ., con la conseguenza che il danneggiato deve solo
provare il nesso di causalità con l’attività di trattamento mentre spetta al
convenuto la prova di aver adottato delle misure idonee ad evitare il danno.
3. Con il terzo motivo è dedotta la violazione
dell’art. 36 Cost., dell’art. 10 del d.lgs. n. 66/2003, dell’art. 115 cod.
proc. civ., degli artt. 1218 e 2697 cod. civ.. Il ricorrente sostiene che,
contrariamente a quanto affermato dal giudice del rinvio, il mancato godimento
delle ferie era stato dimostrato attraverso il deposito di tutte le buste paga
rilasciate dal datore di lavoro e che i
dati necessari al fine di assolvere gli oneri di allegazione e prova erano
desumibili dalla produzione documentale e dalla consulenza di parte. Aggiunge
che ai dirigenti medici di primo livello, i quali non hanno il potere di
programmare annualmente le ferie, si applica il principio generale secondo cui
il lavoratore che agisce ha solo l’onere di provare l’avvenuta prestazione
dell’attività lavorativa mentre spetta al datore di dimostrare l’avvenuto
pagamento.
4. Il primo motivo di ricorso è infondato, perché
correttamente la sentenza gravata ha ritenuto inammissibile la domanda di
reintegrazione e di risarcimento del danno, formulata solo nel giudizio di
rinvio.
È ius receptum il principio secondo cui la
riassunzione della causa successiva alla cassazione della sentenza instaura un
processo chiuso nel quale è preclusa alle parti ogni possibilità di presentare
nuove domande, eccezioni, conclusioni diverse da quelle in precedenza
rassegnate, salvo che queste ultime, intese nell’ampio senso di qualsiasi
attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della
pronuncia rescindente.
Si è precisato che, conseguentemente, nel giudizio
di rinvio non possono essere proposti dalle parti, né presi in esame dal
giudice, motivi di impugnazione differenti da quelli che erano stati formulati
nel giudizio di appello conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a
delimitare, da un lato l’effetto devolutivo dello stesso gravame, dall’altro la
formazione del giudicato interno (in tal senso fra le più recenti Cass. n. 5137/2019).
6.1. È pacifico tra le parti, e risulta dagli atti
del processo, che G.F., nell’adire il Tribunale di Potenza, aveva concluso
chiedendo l’accertamento dell’illegittimità della sanzione espulsiva e la
condanna dell’azienda ospedaliera al pagamento «delle seguenti somme: € 3594,24
per ferie e festività non godute; € 30.168,96 per indennità di mancato
preavviso; € 11.680,39 per TFR ed €
45.000,00 per danni non patrimoniali connessi alla violazione della
legge sulla riservatezza, al licenziamento ed al mobbing….» e la domanda era
stata parzialmente accolta dal Tribunale che, dichiarato illegittimo il
licenziamento, aveva condannato l’azienda al pagamento della sola indennità di
mancato preavviso.
L’appello incidentale aveva riguardato le sole domande
non accolte di risarcimento del danno e di pagamento dell’indennità sostitutiva
delle ferie e delle festività non godute, sicché non poteva il F. modificare le
conclusioni nel giudizio di rinvio e chiedere, quanto al licenziamento, una
tutela diversa da quella inizialmente domandata.
6.2. Manifestamente infondato è il ricorso nella
parte in cui sostiene che la reintegra è l’effetto legale dell’illegittimità
del licenziamento, ancora in discussione fra le parti, e pertanto può essere
richiesta «in ogni tempo spettando addirittura al giudice il potere/dovere
ufficioso di dichiarare l’effetto anche in assenza della relativa richiesta di
parte».
E’ principio di valenza generale quello secondo cui
il potere del giudice disciplinato dall’art. 113, 1° comma, cod. proc. civ.,
espresso dal brocardo iura novit curia, deve essere coordinato con la regola
della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato e con il
divieto di ultra o extra petizione di cui all’art. 112 cod. proc. civ., che
impedisce di attribuire alla parte un bene diverso da quello domandato, anche
qualora l’azione esercitata avrebbe consentito il riconoscimento del diritto ad
ottenere il bene in questione ( cfr. fra le tante Cass. n. 8645/2018; Cass. n.
12943/2012; Cass. n. 25140/2010).
Se ne è tratta la conseguenza che, allorquando
vengano in rilievo le tutele da riconoscere al lavoratore illegittimamente
licenziato, l’autorità giudiziaria adita non può applicare d’ufficio l’art. 18
della legge n. 300 del 1970 e condannare il datore di lavoro alla
reintegrazione, se questa tutela non era stata espressamente domandata dalla
parte, la quale aveva invocato la sola legge n. 604 del 1966, perché il potere
di qualificazione giuridica deve essere esercitato entro i limiti della domanda
e, quindi, al giudice non è consentito ampliare la tutela, potendo unicamente
attribuirne una minore che, in quanto tale, era già ricompresa, sia pure
implicitamente, in quella più ampia richiesta (cfr. Cass. n. 17300/2016 e la
giurisprudenza richiamata in motivazione).
Sulla base di percorso argomentativo analogo è stato
affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che costituisce una
domanda nuova, inammissibile se formulata in corso di causa, quella che abbia
ad oggetto l’applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 della legge n.
300 del 1970, inizialmente non richiesta (Cass. n. 14496/2005).
6.3. Dalle considerazioni tutte sopra esposte
discende che non poteva il ricorrente invocare detta tutela solo nel giudizio
di rinvio, atteso che la domanda originaria era stata limitata al pagamento
dell’indennità di mancato preavviso, incompatibile con la pronuncia
reintegratoria successivamente invocata ( cfr. Cass. n. 23710/2015), ed inoltre
le tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, sulle quali,
ovviamente, il giudice di primo grado non si era pronunciato, non erano state
domandate nel primo giudizio di appello.
Si tratta di ragioni assorbenti, sufficienti per
confermare la statuizione impugnata, sicché priva di rilievo diviene l’ulteriore
questione, prospettata nel ricorso, della compatibilità fra accettazione del
trattamento di fine rapporto e successiva domanda di tutela reintegratoria.
7. Il secondo motivo è inammissibile perché la
sentenza impugnata è fondata su due distinte rationes decidendi, ciascuna
sufficiente a motivare il rigetto della domanda di risarcimento.
La Corte territoriale, infatti, dopo avere escluso
che fosse emersa la prova certa della responsabilità del datore di lavoro
quanto alla pubblicazione sulla stampa locale della notizia inerente
l’iniziativa disciplinare avviata, ha aggiunto che, comunque, era mancata ogni
allegazione sul pregiudizio che dalla condotta asseritamente illecita sarebbe
derivato ( pag. 8 della motivazione «deve poi sottolinearsi che non vi è alcuna
allegazione di danno concreto derivato dal ricorrente dalla pubblicazione della
notizia sul giornale»).
Questa statuizione, che da sola potrebbe sorreggere
il rigetto della domanda risarcitoria, non è stata in alcun modo censurata dal
ricorrente che solo in sede di discussione orale, per replicare alle
conclusioni del Procuratore Generale, ha rilevato che il danno non patrimoniale
conseguente alla diffusione della notizia poteva essere liquidato anche in
assenza di prova. Trova, pertanto, applicazione il principio, consolidato nella
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «la sentenza del giudice di merito,
la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed
accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel
caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di
contraddittorietà della motivazione, il quale sussiste nel diverso caso di
contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi, né contiene,
quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum,
insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configura
una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé
sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del
ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per
cassazione. » ( Cass. n. 17182/2020).
8. Parimenti inammissibile è il terzo motivo perché,
sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, la censura mette
in discussione l’accertamento, di fatto, compiuto dal giudice del merito nella
parte in cui ha ritenuto che la prova del mancato godimento delle ferie e delle
festività non potesse essere desunta né dalle buste paga né dai conteggi allegati
al ricorso. Nel giudizio di legittimità una censura relativa alla violazione e
falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. non può essere formulata per
lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice
di merito, perché la violazione della norma processuale può essere ravvisata
solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione
prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti
legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia
considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico,
elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass.
n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016).
8.1. Analoghe considerazioni vanno espresse quanto
alla denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ. che può assumere rilievo ex
art. 360 n. 3 cod. proc. civ. solo qualora il giudice del merito, a fronte di
un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul
principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella
qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in
realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo. In tale evenienza, infatti,
l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze
pregiudizievoli dell’incertezza probatoria su una parte diversa da quella che
era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto
incerto.
Diverso è il caso che si verifica allorquando il
giudice, valutate le risultanze istruttorie, ritenga provata o non provata una
determinata circostanza di fatto rilevante ai fini di causa perché in detta
ipotesi la doglianza sulla valutazione espressa, in quanto estranea all’interpretazione
della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e,
quindi, può essere apprezzata solo nei limiti fissati dalla disposizione, nel
testo applicabile ratione temporis e come interpretata dalla costante giurisprudenza
di questa Corte che, a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014, ha escluso ogni
rilevanza dell’omesso esame di documenti o di risultanze probatorie ove il
“fatto storico” sia stato comunque apprezzato e valutato dal giudice
del merito.
9. In via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto, ai fini e
per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle
condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo
unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per
esborsi ed € 6.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese
generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1-bis, se dovuto