Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 maggio 2021, n. 13907

Fondo di garanzia Inps, Differenze sull’importo già erogato a
titolo di ultime tre mensilità, Fallimento del datore di lavoro, Termine di
prescrizione annuale, Ricorso monitorio come atto interruttivo del termine,
Onere di presentazione della domanda amministrativa, Periodo di trecento
giorni necessario per l’espletamento del procedimento, Richiesta di
integrazione assoggettata al alcun termine decadenziale, per essere ad essa
applicabile solo il termine di prescrizione

 

Fatti di causa

 

La Corte di appello di Napoli, con sentenza n.
7341/2017, ha rigettato l’impugnazione proposta dall’Inps avverso la sentenza
di primo grado che aveva condannato l’Istituto, quale gestore dell’apposito Fondo
di garanzia, a pagare a C.G. differenze a lui spettanti sull’importo già
erogato a titolo di ultime tre mensilità ed accessori di legge per effetto del
fallimento del datore di lavoro.

La corte territoriale, ritenendo la natura
previdenziale del credito rivendicato, ha fatto applicazione dell’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale il termine di prescrizione annuale fissato
per ottenere dal Fondo di garanzia il pagamento dei tre mesi di retribuzione
viene interrotto dalla domanda amministrativa e dal procedimento ad essa
conseguente, sicché, nel caso di specie, avendo il G. presentato la domanda di
liquidazione della prestazione in data 13.12.2004, il successivo ricorso
monitorio presentato il 7 luglio 2006 doveva valido atto interruttivo del termine.

Avverso tale sentenza l’Inps propone ricorso per
cassazione affidato ad un unico motivo, illustrato da successive memorie, cui
resiste con controricorso il G., eccependo la inammissibilità del ricorso per
passaggio in giudicato della sentenza, notificata, seppure in forma esecutiva,
all’Inps.

Attesa la valenza nomofilattica di tale decisione,
la Sezione sesta di questa Corte ha rimesso la causa alla Sezione ordinaria per
la trattazione in pubblica udienza.

 

Ragioni della decisione

 

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di
tardività del ricorso per cassazione, posto che risulta agli atti che la
sentenza impugnata fu notificata dall’odierno controricorrente in data 4 maggio
2017, sia presso la sede legale dell’Inps in Roma (Via C.G. n. …) che presso
la sede di Napoli di via A.D. n. … Tuttavia, come si evince dall’epigrafe
della stessa sentenza impugnata, l’Istituto era rappresentato e difeso
dall’avvocata A.D. ed aveva eletto domicilio presso la sede di Napoli di via
G.F. n. … ed il riferimento a tale procuratore ed al domicilio eletto risulta
del tutto assente nella citata relata di notifica.

Va, dunque, fatta applicazione del principio,
espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità da ultimo con la
sentenza n. 20866 del 2020, secondo il quale a garanzia del diritto di difesa
della parte destinataria della notifica in ragione della competenza tecnica del
destinatario nella valutazione dell’opportunità della condotta processuale più
conveniente da porre in essere ed in relazione agli effetti decadenziali
derivanti dall’inosservanza del termine breve di impugnazione, la notifica
della sentenza finalizzata alla decorrenza di quest’ultimo, ove la legge non ne
fissi la decorrenza diversamente o solo dalla comunicazione a cura della cancelleria,
deve essere in modo univoco rivolta a tale fine acceleratorio e percepibile
come tale dal destinatario, sicché essa va eseguita nei confronti del
procuratore della parte o della parte presso il suo procuratore, nel domicilio
eletto o nella residenza dichiarata; di conseguenza, la notifica alla parte,
senza espressa menzione – nella relata di notificazione – del suo procuratore
quale destinatario anche solo presso il quale quella è eseguita, non è idonea a
far decorrere il termine breve di impugnazione, neppure se eseguita in luogo
che sia al contempo sede di una pubblica amministrazione, sede della sua
avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio, non potendo surrogarsi
l’omessa indicazione della direzione della notifica al difensore con la circostanza
che il suo nominativo risulti dall’epigrafe della sentenza notificata, per il
carattere neutro o non significativo di tale sola circostanza.

Con unico motivo è dedotta la violazione e falsa
applicazione del D.Lgs. n. 80
del 1992, art. 2, comma 5, della L. n. 533 del 1973, art. 7 e
della L. n. 88 del 1989, art.
46, comma 5 e art. 6,
per aver la corte territoriale erroneamente applicato la disciplina della
sospensione del termine di prescrizione, previsto a seguito della presentazione
della domanda di liquidazione del credito relativo agli ultimi tre mesi di
retribuzione, anche all’ipotesi di riliquidazione laddove non si ritiene
interamente soddisfatto il credito.

La Corte territoriale aveva, in particolare,
ritenuto che la domanda amministrativa presentata dal G. in data 13.12.2004,
diretta alla riliquidazione del credito, costituisse il termine a quo da cui
far decorrere la prescrizione annuale con riferimento al credito residuo; era
quindi da considerarsi tempestivo il ricorso monitorio proposto il 7 luglio
2006, dovendosi anche considerare i 300 giorni della fase amministrativa,
durante i quali il decorso del termine sarebbe rimasto sospeso.

Rileva l’Istituto che la sola domanda utile ai fini
della prestazione in questione debba considerarsi quella del 2004, diretta alla
originaria liquidazione delle tre mensilità; per la richiesta delle differenze
non sarebbe prevista alcuna domanda amministrativa, sicché, al momento del
ricorso monitorio, proposto per le differenze retributive, il credito si era
già prescritto.

Il motivo è fondato.

Deve premettersi che questa Corte ha già chiarito
che la natura previdenziale della prestazioni a carico del Fondo di garanzia
costituito presso l’INPS comporta l’applicazione delle norme sulle modalità per
conseguire le prestazioni previdenziali, tra cui l’onere di presentazione della
domanda amministrativa e di rispetto dei termini di legge per ultimare la
procedura amministrativa per la liquidazione, senza che rilevi il termine di
sessanta giorni di cui alla L. n.
297 del 1982, art. 2, per l’esame della domanda da parte dell’Istituto
(Cass. n. 27465/2017).

Posto il principio anche con riferimento alla
ipotesi della prima liquidazione delle suddette ultime tre mensilità, viene
sollecitato un approfondimento con riferimento alla riliquidazione delle sole
differenze asseritamente dovute (la somma pagata dall’Inps a titolo di tre
mensilità era stata ritenuta inferiore a quella richiesta dal lavoratore), al
fine di precisare se anche in tale ipotesi debba ritenersi sussistente l’onere
di presentazione della domanda amministrativa e la consequenziale incidenza,
sul decorso del termine annuale di prescrizione (ex art. 2, comma 5, d.lgs. n.80/1992)
del periodo di trecento giorni necessario per l’espletamento del procedimento
(derivante dal formarsi del silenzio rifiuto, per decorso di 120 giorni dalla
domanda amministrativa si sensi della L. n. 533 del 1973, ex art. 7,
e del successivo termine massimo di 90 giorni previsto per proporre il ricorso
amministrativo (in tal senso disponeva del citato R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 98
e dispone adesso la L. n. 88
del 1989, art. 46, comma 5) e, quindi, di altri 90 giorni senza che
l’Istituto si sia pronunciato sul ricorso (R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 98,
comma 3 e della L. n. 88 del
1989, art. 46, comma 6).

In continuità con quanto affermato da Cassazione n.
24030 del 2017, va anche in questa sede ribadito (v., fra le più recenti, Cass.
7 marzo 2017, n. 5724 e i numerosi precedenti ivi richiamati) che in tema di
decadenza dalle azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di una
prestazione pensionistica parzialmente riconosciuta, la novella del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 38,
comma 1, lett. d), conv. in L. 15 luglio 2011, n.
111 – che prevede l’applicazione del termine decadenziale di cui al D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639,
art. 47 anche alle azioni aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni
riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito – detta una
disciplina innovativa che, anche a seguito della sentenza
della Corte costituzionale n. 69 del 2014, che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del predetto D.L. n. 98 del 2011, art. 38,
comma 4, non trova applicazione ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore
delle nuove disposizioni, per i quali vale il generale principio
dell’inapplicabilità del termine decadenziale (cfr. Cass.
n. 1071 del 2015 e più recentemente n. 21700 del 2016).

Laddove, dunque, si tratti, come nel caso di specie,
di fattispecie anteriore all’ambito temporale segnato dalla nuova disciplina,
risulta applicabile la disciplina previgente, nell’interpretazione data dalle
Sezioni unite della Corte (v., Cass., Sez. U., 29
maggio 2009, n. 12720) nel senso che la decadenza di cui al D.P.R. 30 aprile 1970, n. 639,
art. 47, – come interpretato dal D.L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6,
convertito, con modificazioni, nella L. 1 giugno
1991, n. 166.- non trova applicazione.

In particolare, secondo l’orientamento assunto dalla
citata Cass. SS.UU. n. 12270 del 2009, non può configurarsi alcuna decadenza in
tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia rivolta ad ottenere non già il
riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sé considerata, ma
solo, come nella specie, l’adeguamento di detta prestazione già riconosciuta in
un importo inferiore a quello dovuto, come avviene peraltro nei casi in cui
l’Istituto previdenziale sia incorso in errori di calcolo o in errate
interpretazioni della normativa legale o ne abbia disconosciuto una componente,
nei quali casi la pretesa non soggiace ad altro limite che non sia quello della
ordinaria prescrizione.

Ciò in quanto, in relazione alle prestazioni
corrisposte non nella loro integrità

– qualora la legge preveda la decadenza di un
diritto di credito per il caso di suo mancato esercizio entro un termine
predeterminato – la richiesta di pagamento soltanto parziale realizza un atto
di esercizio idoneo ad impedire la decadenza con riguardo alla prestazione
dovuta, posto che il creditore ha facoltà di chiedere ed accettare
l’adempimento parziale ai sensi dell’art.1181 c.c.
con l’effetto che la richiesta di pagamento non resti soggetta ad alcun termine
della stessa natura.

Corollario di tale assunto è che l’esercizio di un
diritto di credito previdenziale

– esercitato entro il termine decadenziale previsto
dalla legge – impedisce tale decadenza anche in relazione alle somme ulteriori
eventualmente richieste allo stesso titolo, dal momento che la somma
successivamente richiesta costituisce sempre una componente essenziale del
credito previdenziale ed atteso che non è prospettabile una rinunzia in assenza
di uno specifico atto dal quale possa evincersi in maniera univoca una
manifestazione di volontà in tali sensi.

In conclusione, quindi, la richiesta di una
prestazione previdenziale (soddisfatta solo in parte) impedisce definitivamente
la decadenza di cui al D.P.R.
n. 639 del 1970, art. 47, con l’effetto che la richiesta di integrazione
non sarebbe più assoggettata al alcun termine decadenziale, per essere ad essa
applicabile solo il termine di prescrizione.

Se non vi è soggezione ad alcun ulteriore termine
decadenziale è perché la riliquidazione di una prestazione non deve essere
neanche essere preceduta da un ulteriore procedimento amministrativo che, come
hanno affermato le citate Sezioni Unite non si giustificherebbe alla luce
dell’impossibilità per l’Istituto previdenziale di incidere (anche con atti
irrituali ovvero posti in essere al di fuori dei limiti legislativamente
previsti, come è quando la prestazione non è integrale) sulla rigida e
predeterminata scansione e sequela dei termini decadenziali – basata su un
equilibrato bilanciamento tra finalità pubbliche e tutela dell’assicurato.

Pertanto, non può riconnettersi alcun effetto
sospensivo, rispetto al decorso del termine annuale di prescrizione, alla
pendenza del termine di trecento giorni previsto ordinariamente per il formarsi
del silenzio.

L’odierno intimato ha presentato domanda
amministrativa di riliquidazione del credito per le ultime tre mensilità in
data 13 dicembre 2004, ma non essendo tale domanda propedeutica
all’instaurazione del procedimento amministrativo da svolgersi nel termine di
trecento giorni, non può neanche ritenersi che durante il decorso di tale
termine sia rimasto sospeso il termine annuale di prescrizione con la
conseguenza che all’epoca dell’instaurazione del giudizio (la domanda monitoria
in primo grado veniva proposta con ricorso del 7 luglio 2006), il termine
annuale di prescrizione del credito azionato era da ritenere ormai spirato, non
essendo intervenuti altri atti interruttivi.

Il ricorso va, pertanto, accolto, con la cassazione
dell’impugnata sentenza e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda azionata dal
lavoratore.

Il travagliato sviluppo giurisprudenziale sulla
natura del credito per cui è causa e sulle sue conseguenze in tema di
prescrizione, consiglia la compensazione tra le parti delle spese dell’intero
processo.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e,
decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da C.G.; dichiara compensate
le spese dell’intero processo.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 maggio 2021, n. 13907
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