Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2021, n. 14199

Licenziamento disciplinare, Falsa attestazione della presenza
in servizio, Protesta per le condizioni di lavoro, Dipendente pacificamente
attivo anche sul versante sindacale

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il
reclamo proposto, ex art. 1, comma
58, della legge n. 92/2012, dal Comune di Pagani avverso la sentenza del
Tribunale di Nocera Inferiore che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva
accolto il ricorso di M. N. e, revocata l’ordinanza emessa in fase sommaria,
aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dal Comune il 12
agosto 2016 e condannato l’ente locale a reintegrare il lavoratore nel posto in
precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso l’indennità risarcitoria
quantificata in € 15.947,10.

2. La Corte territoriale ha premesso in punto di
fatto che al N. era stato contestato l’illecito disciplinare tipizzato dall’art. 55 quater, comma 1, lett. a) del
d.lgs. n. 165/2001, nonché dalla disposizione di eguale contenuto dettata
dall’art. 59, comma 9, n. 2 del CCNL per il personale del comparto funzioni
locali, per avere «in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza
in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo
di lavoro pur risultando regolarmente in servizio». Ha aggiunto che in quelle
occasioni il N. era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era
assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte
di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e
lesive della salute.

3. In diritto ha osservato che l’illecito
disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea
ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e,
pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perché al
contrario il N. aveva reso volutamente visibile la propria condotta di
protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa
amministrazione, la quale ne era la destinataria. Ha aggiunto che anche in
presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione
del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il
giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e
soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva
giustificare la sanzione del licenziamento perché: il lavoratore non aveva
inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; le proteste avevano
avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti; non era emerso che il
dipendente si fosse sottratto a specifici ordini o avesse omesso di attendere
alle incombenze demandategli; non si trattava di una reiterazione degli episodi
contestati come recidiva, bensì di un comportamento critico assunto nei
confronti dell’amministrazione da dipendente pacificamente attivo anche sul
versante sindacale.

4. La Corte salernitana ha respinto anche il reclamo
proposto in via incidentale dal N. per censurare la statuizione di
compensazione delle spese del giudizio di primo grado e, richiamate le sentenze
della Corte Costituzionale nn. 77 e 190 del
2018, ha ritenuto che la pronuncia fosse condivisibile alla luce «della
peculiarità e della controvertibilità della questione trattata, interessata
anche da pronunce chiarificatrici della Suprema Corte intervenute in corso di
causa». Per le medesime ragioni, oltre che per la soccombenza reciproca, ha
compensato anche le spese del giudizio di reclamo.

5. Per la cassazione della sentenza il Comune di
Pagani ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha replicato M.
N., che ha notificato controricorso, con ricorso incidentale affidato ad
un’unica censura.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente principale
denuncia, ex art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.
« omesso esame e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia;
violazione dell’art. 55 quater,
comma 1, lett. a) d.lgs. n. 165/2001; violazione dei principi di cui al
codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni
approvato con d.P.R. n. 60/2013» e sostiene, in sintesi, che integra giusta
causa di licenziamento ogni ipotesi di falsa attestazione della presenza in
servizio se compiuta con modalità fraudolente, a prescindere dalla durata
temporale dell’assenza. Rileva che il N. aveva utilizzato il badge
allontanandosi dal luogo di lavoro e, pertanto, non poteva la Corte
territoriale ritenere illegittima la sanzione, tanto più che la condotta era
stata pacificamente provata attraverso la produzione documentale. Richiama gli
obblighi di correttezza e buona fede ed aggiunge che la Corte territoriale ha
anche errato nell’escludere la contestata la recidiva. Infine addebita al
giudice del reclamo di avere posto a fondamento della decisione argomenti non
fondati sulle risultanze di causa.

2. La seconda censura denuncia «violazione dell’art. 112 c.p.c. e omessa motivazione su un punto
decisivo della controversia » in relazione al rigetto della richiesta di
sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale, inserito solo nel
dispositivo e non motivato.

3. Il ricorso incidentale, affidato ad un unico
motivo, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 91 e 92 cod.
proc. civ. nel compensare erroneamente le spese di entrambi gradi del
giudizio di merito in difetto delle «gravi ed eccezionali ragioni» richieste
dalla Corte costituzionale con la sentenza
additiva n. 77/2018.

4. Il ricorso principale è inammissibile in tutte le
sue articolazioni.

Da tempo questa Corte, nell’interpretare l’art. 55 quater, lett. a) del d.lgs. n.
165/2001, ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un
lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del
sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere
oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche
l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura,
integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione
apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).

La disposizione normativa è stata, inoltre,
interpretata alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza
costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è
valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 cod.
civ. per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto
fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere
datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla
necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla
giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa
interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater prospettata dal
Tribunale di Vibo Valentia).

Ai richiamati principi di diritto, condivisi dal
Collegio e qui ribaditi, si è correttamente attenuta la Corte territoriale che,
come evidenziato nello storico di lite, ha fondato la decisione su una duplice
ratio decidendi perché ha innanzitutto escluso che la condotta fosse
sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad
indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta
platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era
verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano
avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da
non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

4.1. Il primo motivo del ricorso principale, che
insiste sulla tassatività delle ipotesi di licenziamento previste dal
richiamato art. 55 quater, non
si confronta con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa
Corte, non coglie pienamente il decisum della sentenza impugnata ed inoltre,
per dimostrare l’erroneità della pronuncia, fa leva su argomenti di fatto, non
di diritto, che finiscono per sollecitare un giudizio di merito, non consentito
al giudice di legittimità.

E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di
violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da
parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e,
quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;
viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta
a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della
norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura
è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione,
nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il
discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo
quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n.
26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo
avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere
specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del
parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è
deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre
l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli
elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della
loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone
sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ( cfr.
fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass.
n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie
perché, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di
diritto enunciati da questa Corte in tema di interpretazione dell’art. 55 quater lett. a) del d.lgs. n.
165/2001, di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli
argomenti sviluppati nel ricorso principale finiscono tutti per prospettare una
diversa lettura delle risultanze di causa.

Le censure mosse alla ricostruzione dei fatti
esulano dai limiti del riformulato art. 360 n. 5
cod. proc. civ., come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di
questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019
che rinvia a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n.
33679/2018) che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo, al
quale non può essere ricondotta la mancata o l’errata valutazione di una
risultanza istruttoria quando il fatto storico sia stato comunque apprezzato
dal giudice del merito.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del
ricorso principale perché il vizio di omessa pronuncia è ravvisabile solo
qualora il giudice ometta di statuire sulla domanda o su eccezioni di merito,
mentre non può essere denunciato nel caso in cui la questione non esaminata
rilevi unicamente sul piano processuale (Cass. n. 10422/2019; Cass. n.
25154/2018; Cass. n. 6174/2018).

Va aggiunto che il potere di sospensione
dell’efficacia della sentenza reclamata, da esercitare in presenza di «gravi
motivi», è finalizzato ad impedire che la decisione gravata, che appare
ingiusta ad una delibazione sommaria, produca effetti nelle more del giudizio
di appello, esponendo ad un pregiudizio patrimoniale la parte soccombente
(Cass. n. 4060/20005). Il provvedimento di sospensione è per definizione
temporaneo ed è destinato ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio
d’impugnazione sicché il giudice d’appello, nei casi in cui all’udienza di
discussione definisca la causa, non è tenuto a provvedere sulla richiesta di
sospensione con un’autonoma statuizione della sentenza che definisce il giudizio
di impugnazione, perché quest’ultima, per il suo carattere sostitutivo, assorbe
interamente l’efficacia di quella di primo grado (Cass. n. 19708/2015).

6. Merita, invece, accoglimento il ricorso
incidentale.

Occorre premettere che la Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 92,
secondo comma, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 13 del d.l. n. 132/2014,
«nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le
parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi
ed eccezionali ragioni». Nella motivazione della pronuncia la Corte ha
precisato che le ipotesi illegittimamente non considerate dal legislatore
devono rivestire il carattere di gravità ed eccezionalità al pari di quelle
tipizzate, ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento
della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, che «hanno carattere
paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola
generale» ( punto 16 della pronuncia). Questa Corte ha già affermato che,
poiché gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma
retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge
dichiarato costituzionalmente illegittimo, la valutazione sulla fondatezza o
meno del ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 92 cod. proc. civ., deve tener conto della
«situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità,
essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del
ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi» (Cass. n.
4360/2019).

I medesimi principi valgono per il giudizio di
appello, qualora nello stesso venga impugnato il regolamento delle spese
disposto dalla sentenza gravata, e, quindi, nella fattispecie la Corte territoriale,
nel decidere il reclamo incidentale, era tenuta 
ad applicare l’art. 92 cod. proc. civ.,
nel testo risultante dalla pronuncia additiva resa dalla Corte Costituzionale,
non rilevando la data di pubblicazione della sentenza del Tribunale ( 4 aprile
2018).

6.1. Ciò premesso, deve essere ribadito
l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le
gravi ed eccezionali ragioni, al pari di ogni altra clausola generale, devono
essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio,
in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità
(Cass. n. 9977/2019; Cass. n. n. 23059/2018) e la Corte di Cassazione ha il
potere di rilevare l’erroneità o l’illogicità del parametro utilizzato.

Nel caso di specie la sentenza additiva della Corte
Costituzionale ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere
paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale,
alle quali, all’evidenza, non possono essere equiparate «la peculiarità e la
controvertibilità della questione». Va aggiunto che «le pronunce
chiarificatrici» rese da questa Corte sull’interpretazione dell’art. 55 quater, lett. a), del d.lgs.
n. 165/2001, hanno richiamato principi già affermati, quanto al divieto di
automatismi espulsivi, da Cass. n. 1351 del 26
gennaio 2016, la cui motivazione è riferibile a tutte le ipotesi previste
dalla norma di legge, sicché già al momento dell’instaurazione del giudizio di
primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può
giustificare la pronuncia di compensazione.

6.2. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata
limitatamente al regolamento delle spese e, non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con la condanna
del Comune di Pagani al pagamento, in favore di M. N., delle spese processuali
di tutti i gradi e le fasi del giudizio, liquidate come da dispositivo, che
vanno distratte in favore dell’Avv. M.A., dichiaratosi antistatario.

Al riguardo ritiene il Collegio che l’art. 384 cod. proc. civ. debba essere interpretato
alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del
processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone
di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice, quando il giudice
rinviante potrebbe da sé solo svolgere le attività richieste al giudice cui la
causa è rinviata.

Va anche osservato che in tema di spese processuali
l’art. 385, secondo comma, cod. proc. civ.
accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo
le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito,
quando la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio, sicché sarebbe del tutto
illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una
liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere
direttamente compiuta dal giudice di legittimità ( Cass. n. 1761/2014 e Cass. n. 211/2016).

7. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n.
4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente principale.

 

P.Q.M.

 

accoglie il ricorso incidentale e dichiara
inammissibile il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione
al ricorso ed al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Comune di
Pagani a rifondere a M. N. le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito,
con distrazione in favore del procuratore antistatario Avv. M.A., liquidate
quanto al primo grado (fase sommaria e giudizio di opposizione) in complessivi
€ 200,00 per esborsi ed € 7.000,00 per competenze professionali, oltre al
rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge; quanto al reclamo
in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per competenze professionali, oltre al
rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Condanna il Comune di Pagani al pagamento delle
spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 200,00 per esborsi ed C
5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15%
ed agli accessori di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario
Avv. M.A..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a
norma del cit. art. 13, comma
1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2021, n. 14199
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