Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 giugno 2021, n. 17100

Pagamento della retribuzione per il tempo necessario per la
vestizione e svestizione, Tempo necessario per lo spostamento dallo
spogliatoio per raggiungere la macchina timbratrice, Risarcimento del danno,
Misura pari alla retribuzione di un’ora settimanale di lavoro straordinario
diurno, Valutazione equitativa del danno, inevitabilmente caratterizzata da un
certo grado di approssimatività, Rilevanza in sede di legittimità, Difetto
totale di giustificazione o macroscopicamente lontana dati di comune esperienza
o radicalmente contraddittoria

 

Rilevato che

 

il Tribunale di Busto Arsizio aveva accolto
parzialmente la domanda di F. A. e altri litisconsorti, dipendenti di R.
Gestioni s.p.a., società aggiudicataria dell’appalto dei servizi di pulizia
dell’areoporto di Malpensa, dichiarando il datore di lavoro tenuto al pagamento
dell’importo corrispondente al valore della prestazione resa dai dipendenti per
provvedere al lavaggio degli indumenti forniti per lo svolgimento dell’attività
lavorativa e al pagamento della retribuzione per il tempo necessario per la
vestizione e svestizione, oltre al risarcimento del danno, da commisurare al
tempo necessario al lavaggio degli stessi indumenti;

la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma
della sentenza, impugnata da entrambe le parti, escludeva che nella
retribuzione dovesse essere computato anche il tempo necessario per lo
spostamento dallo spogliatoio per raggiungere la macchina timbratrice e
precisava che il risarcimento del danno doveva essere determinato nella misura
pari alla retribuzione di un’ora settimanale di lavoro straordinario diurno per
ciascun dipendente per le settimane lavorate, confermando nel resto la sentenza
del Giudice di primo grado;

avverso tale ultima statuizione ha proposto ricorso
la società sulla base di otto motivi di censura;

i lavoratori hanno resistito con controricorso;

la proposta del relatore ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. è stata ritualmente comunicata
alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di
consiglio;

 

Considerato che

 

con il primo motivo la ricorrente deduce violazione
e falsa applicazione dell’art. 74
del D.Lgs. n. 81/2008, per avere la Corte qualificato indumenti di lavoro
ordinari come Dispositivi di Protezione Individuale, osservando che le divise
fornite dalla R. s.p.a. non avevano alcuna funzione specifica di protezione
della sicurezza e salute dei lavoratori;

con il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 76 del D.Igs. n. 81/2008,
prospettando che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che gli
indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento dell’attività lavorativa
fossero adeguati ai rischi da prevenire e forniti dei requisiti ai fini della
qualificazione come Dispositivi di Protezione Individuale;

con il terzo motivo lamenta l’omesso esame circa i
seguenti fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti: a) che le divise
fornite dalla società ai lavoratori erano capi di abbigliamento del tutto
ordinari e comuni; b) che gli indumenti in questione non erano dotati di
caratteristiche tecniche tali da proteggere la salute e la sicurezza; c) che
gli stessi non realizzavano alcuna significativa tutela quanto ai rischi
specifici a cui i lavoratori sarebbero stati esposti; d) che l’attività
ordinaria espletata consisteva nella pulizia dei bagni e saloni dell’areoporto con
mocio e strizzamocio; e) che l’attività non comportava alcuna contaminazione
per gli operatori che toccavano il bastone del mocio indossando guanti di
protezione; f) che nel caso di particolari situazioni comportanti lo
spargimento di materiale organico sui pavimenti l’accesso ai bagni era impedito
con intervento di squadra con dispositivi di protezione quali macchinari, tute
monouso etc.; g) che per le operazioni di pulizia, quali lavaggio di wc e
lavandini, i lavoratori erano tenuti a indossare guanti al fine di evitare il
contatto con le superfici trattate; h) che nessun contatto diretto avveniva con
detergenti e disinfettanti quotidianamente utilizzati; i) che i prodotti
utilizzati erano ecologici predosati e pronti all’uso;

con il quarto motivo lamenta violazione e falsa
applicazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.,
degli artt. 1226 e 2697
e 115 c.p.c. in relazione alla quantificazione
del danno, erroneamente rapportato alla retribuzione oraria invece che al costo
effettivo del lavaggio;

con il quinto motivo deduce la nullità della
sentenza in quanto non valuta l’eccezione – contestazione sollevata dalla
società in merito al criterio utilizzato per la quantificazione del danno,
avendo la società contestato che i lavoratori procedessero al lavaggio degli
indumenti una volta alla settimana e che tale operazione richiedesse un’ora di
tempo;

con il sesto motivo deduce nullità della sentenza e
del procedimento, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c.,
per avere la Corte d’appello omesso di pronunciarsi sull’eccezione di
inammissibilità della domanda avente ad oggetto il c.d. tempo tuta, formulata sin
dal primo grado e reiterata con l’appello;

con il settimo motivo deduce omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti,
perché la Corte d’appello non aveva valutato le risultanze istruttorie del primo
grado di giudizio e, in particolare, il contenuto delle deposizioni
testimoniali confermative della circostanza che alcuni dipendenti arrivavano
presso il luogo di lavoro già con la divisa addosso;

con l’ottavo motivo lamenta la violazione e falsa
applicazione del decreto
legislativo n. 66 del 2003 art. 2, attuativo della direttiva comunitaria 1993/104/CE e della Direttiva 2000/34/CE, avendo la Corte d’appello
ritenuto che la qualificazione degli indumenti quali Dispositivi di Protezione
Individuale comportasse necessariamente l’impossibilità di utilizzare gli
stessi al di fuori del luogo di lavoro; i primi due motivi sono infondati,
essendosi la Corte d’appello conformata al principio ribadito dalla
giurisprudenza di legittimità in forza del quale (ex multis Cass. n. 16749 del 21/06/2019) la nozione legale
di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come
limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la
protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche
certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che
possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi
rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c.;

il terzo motivo è inammissibile poichè i fatti di
cui si assume omesso l’esame sono stati tutti valutati dalla Corte
territoriale, sicchè la censura si risolve in un non consentito riesame del
merito;

il quarto motivo è privo di fondamento, poiché
investe la valutazione equitativa del danno compiuta dalla Corte territoriale,
rispetto alla quale il sindacato di questa Corte è limitato al solo vizio di
motivazione (in tal senso, ex multis, Cass. n. 1529 del 26/01/2010)

La valutazione equitativa del danno, in quanto
inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è
suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio
della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella
statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza,
o sia radicalmente contraddittoria. (Nella specie, la sentenza impugnata, ai
fini della liquidazione del danno patrimoniale patito dai genitori di un
lavoratore deceduto a seguito di un infortunio sul lavoro, aveva determinato il
contributo di quest’ultimo ai bisogni della famiglia in base alle buste paga
del mese precedente al decesso, senza detrarre gli emolumenti percepiti per
lavoro festivo ed arretrati: in applicazione dell’anzidetto principio, la S.C.
ha rigettato il ricorso per cassazione, affermando che il metodo equitativo
utilizzato per la liquidazione giustificava l’eventuale eccesso del
“quantum” rispetto al risultato cui si sarebbe pervenuti in base a
criteri di calcolo meramente matematici); il ricorso a criteri di determinazione
equitativa del danno da parte della Corte d’appello, inoltre, consente di
ravvisare motivazione implicita di rigetto dell’eccezione rispetto alla quale
con il quinto motivo infondatamente si denuncia l’omessa pronuncia; il sesto
motivo è inammissibile poiché non censura la decisione implicita, desumibile
dall’accoglimento della domanda dei ricorrenti riguardo al risarcimento dei
danni connessi ai tempi di vestizione, riguardo all’eccezione di
inammissibilità della domanda avente ad oggetto il c.d. tempo tuta, posto che
il mancato esame da parte del Giudice di una questione puramente processuale,
pur sollecitato dalla parte, non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia,
configurabile con riferimento alle sole domande di merito (Cass. n. 7406 del 28/03/2014);

il settimo motivo è inammissibile sia perchè le
circostanze emergenti dall’istruttoria che si assumono trascurate sono
inconferenti rispetto alla decisione, sia perchè, in ogni caso, l’omessa
considerazione di alcuni elementi istruttori non integra vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr., ex multis, Cass. n.
28887 del 08/11/2019); l’ultimo motivo di ricorso è inammissibile perchè
investe apprezzamenti di fatto non suscettibili di riesame in sede di legittimità;

in base alle svolte argomentazioni il ricorso va
complessivamente rigettato e le spese sono liquidate secondo soccombenza;

in considerazione della statuizione, sussistono i
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso;

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 6.200,00, di cui € 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13.

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