Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 giugno 2021, n. 17576

Infortunio, Inabilità temporanea, Risarcimento dei danni,
Concorso di colpa del lavoratore, Accertamento

 

Fatti di causa

 

La Corte di Appello di Brescia, con la sentenza n.
371/2015, pubblicata il 15.12.2015, ha accolto il gravame interposto da M.K.,
nei confronti della M. S.r.l. in liquidazione, della G. Assicurazioni S.p.A. e
della Cooperativa T.F. Scan, avverso la pronunzia del Tribunale della stessa
sede n. 227/2014, resa in data 27.3.2014, con la quale era stato respinto il
ricorso del lavoratore per difetto di allegazioni a sostegno degli assunti del
medesimo.

La Corte di merito, pertanto, ha condannato in via
solidale la Cooperativa T.F. S. e la M. S.r.l. in liquidazione al risarcimento
dei danni derivati a M. K. dall’infortunio allo stesso occorso il 12.11.2004,
liquidati nella somma capitale di Euro 290.908,86, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria sino al saldo, da calcolarsi sulla somma devalutata al
12.11.2004, nonché alle spese di lite dei gradi di merito; ed altresì la G.
Assicurazioni S.p.A. a manlevare la M. S.r.l. in liquidazione di quanto da
questa dovuto in conseguenza delle condanne innanzi esplicitate, oltre alle
spese del doppio grado.

I giudici di seconda istanza hanno sottolineato a
sostegno della decisione, e per quanto ancora di interesse in questa sede, che
«Non vi è prova alcuna della sussistenza nella condotta del lavoratore di
elementi tali da determinare l’esonero» della responsabilità «delle aziende
convenute (c.d. rischio elettivo o abnormità della condotta dell’infortunato»,
poiché, al riguardo, <<è sufficiente osservare che nel caso di specie la
manovra del lavoratore – mentre era addetto ad una macchina automatica
(denominata “soffiatrice di anime”) -, da cui erano derivati, oltre
ad un periodo di inabilità temporanea, gravi postumi permanenti alla mano
sinistra, rimasta schiacciata all’interno dello stampo, era destinata a
permettere la ripresa della produzione interrotta per effetto del mancato
distacco del pezzo dagli stampi»; ed altresì che, «tenuto conto che è mancata
del tutto la prova di un’adeguata formazione, nessun concorso di colpa del
lavoratore è ipotizzabile».

Per la cassazione della sentenza la G. Assicurazioni
S.p.A. ha proposto ricorso affidato a due motivi.

M. K. ha resistito con controricorso ed ha
comunicato memorie ai sensi dell’art. 378 del codice di rito.

La M. S.r.l. in liquidazione e la Cooperativa T.F.
Scan non hanno svolto attività difensiva.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denunzia la «violazione e
falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3
c.p.c. per violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione
all’esito dell’istruttoria di primo grado» e si deduce che «è indubbio che la
Corte bresciana abbia operato “d’ufficio” una ricerca del contenuto
probatorio negli atti del fascicolo d’ufficio con una evidente finalità
punitiva» e che «gli assiomi enunciati dalla Corte territoriale a conforto della
parte motiva del provvedimento impugnato poggiano sostanzialmente sulle
dichiarazioni de relato e sulle supposizioni di taluni dei testi escussi,
segnatamente del teste F., capo officina, che fu colui che intervenne subito
dopo l’evento e soccorse l’infortunato, seppure non assistette all’evento».

2. Con il secondo motivo si censura la «violazione e
falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
per violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’esito
dell’istruttoria di primo grado», e si lamenta che, valutate le prove emerse
nel giudizio di secondo grado, i giudici abbiano ritenuto applicabile la
previsione normativa di cui all’art. 2087 c.c. anche alla committente, «in
ragione del fatto che la M. avesse nella propria “disponibilità”
l’ambiente di lavoro e pertanto non avesse adempiuto all’obbligo di sicurezza»,
fondando la decisione «sulla massima della sentenza della Cassazione n.
21694/2011 a mente della quale: “In tema di infortuni sul lavoro, l’art.
2087 c.c., espressione del principio del neminem laedere per l’imprenditore e
l’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, che disciplina l’affidamento di lavori in
appalto all’interno dell’azienda, prevedono l’obbligo per il committente, nella
cui disponibilità permane l’ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure
necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché
dipendenti dall’impresa appaltatrice, consistenti nell’informazione adeguata
dei singoli lavoratori e non solo dell’appaltatrice, nella predisposizione di
tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione
con l’appaltatrice per l’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione
dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, tanto più
se caratterizzata dall’uso di materiali pericolosi>>. E ciò, senza
considerare che nei confronti della M. S.r.l. il riparto degli oneri probatori
si pone negli stessi termini dell’art. 1218 c.c. circa l’inadempimento delle
obbligazioni; e senza dare alcun rilievo al fatto che, nel mese di ottobre
2004, la predetta società aveva disposto che la Cooperativa T.F. S. tenesse un
programma di formazione di un giorno per l’uso delle macchine soffiatrici, alle
quali era addetto il K., sulla base di manuali d’uso della macchina.

1.1. Il primo motivo non è meritevole di
accoglimento, in quanto, nonostante censuri vizi di sussunzione, tende,
all’evidenza, nella sostanza, ad ottenere una nuova valutazione delle
circostanze di fatto, attraverso la censura della valutazione degli elementi
delibatori operata dal Collegio di Appello, non consentita in questa sede,
perché costituente, com’è noto, attività istituzionalmente riservata ai giudici
di merito, non sindaca bile in Cassazione se non sotto il profilo della
congruità della motivazione del relativo apprezzamento, nella fattispecie del
tutto congrua, condivisibile e scevra da vizi logico-giuridici (v., ex
plurimis, Cass. nn. 6644/2020; 1541/2016; 15208/2014). Peraltro, la parte
ricorrente non ha specificato i punti ritenuti fondamentali, nell’analisi degli
elementi di prova operata in secondo grado – e su cui la decisione impugnata si
fonda -, al fine di consentire il vaglio di decisività che avrebbe
eventualmente dovuto condurre la Corte territoriale ad una pronunzia differente,
con l’attribuzione di un diverso rilievo probatorio alle dichiarazioni
testimoniali relativamente alle quali si denunzia il vizio (cfr., tra le altre,
Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014), e che neppure sono state riportate, né
trascritte (ad eccezione di quelle rese dal teste Fancini), in violazione del
principio di specificità, più volte ribadito da questa Corte (arg. ex art. 366,
primo comma, n. 6, del codice di rito; v., inoltre, tra le molte, Cass. nn.
10551/2016; 23675/2013; 1435/2013).

2.2. Il secondo motivo non è fondato. Alla stregua,
infatti, dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr., ex
plurimis, Cass. nn. 10404/2020; 20364/2019; 22710/2015; 18626/2013; 17092/2012;
13956/2012), la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle
misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende o da
norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma
di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del
sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora
espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua
formulazione, e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare
nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla
particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie
a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 16645/2003; 6377/2003).

Per la qual cosa, in particolare nel caso in cui si
versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, come nella fattispecie, la
responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell’art. 2087 c.c.,
pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere,
tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole
tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche
alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa
predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e
cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore
nel luogo di lavoro, tenuto conto, come innanzi precisato, della concreta
realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (cfr.,
tra le molte, Cass. n. 15156/2011).

Al proposito, è altresì da osservare che la dottrina
e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizioni della
Carta costituzionale abbiano segnato, anche nella materia giuslavoristica, un
momento di rottura rispetto al sistema precedente <<ed abbiano
consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico
quale unico criterio cui improntare l’agire privato>>, in considerazione
del fatto che l’attività produttiva – anch’essa oggetto di tutela
costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale
manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.) – è subordinata, ai sensi
del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va
intesa non tanto e soltanto  come mero
benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività,
quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della
persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue
che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo deve
necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva
essenzialmente <<sullo svolgimento della persona», sul rispetto di essa,
sulla sua dignità, sicurezza e salute anche nel luogo nel quale si svolge la
propria attività lavorativa; momenti, tutti, che «costituiscono il centro di
gravità del sistema», ponendosi come valori apicali dell’ordinamento. E ciò,
anche in considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i
dispositivi di sicurezza al fine di tutelare la salute dei lavoratori sul luogo
di lavoro viola l’art. 32 della Costituzione, che garantisce il diritto alla
salute come primario ed originario dell’individuo, nonché le diposizioni
antinfortunistiche, fra le quali quelle contenute nel D.Igs. n. 626/94 –
attuativo, come è noto, di direttive europee riguardanti il miglioramento della
sicurezza e della salute dei lavoratori nello svolgimento dell’attività
lavorativa – ed altresì il D.Igs. n. 81/2008 e l’art. 2087 c.c., il quale
ultimo, imponendo la tutela del’integrità psico-fisica del lavoratore da parte
del datore di lavoro, prevede un obbligo, da parte dello stesso, che non si
esaurisce <<nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di
misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico», ma attiene – lo si
ribadisce – anche, e soprattutto, alla predisposizione «di misure atte, secondo
le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di
quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad
eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente, ed alla probabilità di
concretizzazione del conseguente rischio». Tale interpretazione estensiva della
citata norma del codice civile si giustifica alla stregua dell’ormai
consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., già da
epoca risalente, Cass. nn. 8422/1997; 7768/1995), sia in base al rilievo
costituzionale del diritto alla salute, sia per il principio di correttezza e
buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio – artt. 1175 e 1375 c.c.,
disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e
di clausole generali (Generalklauseln) -, cui deve essere improntato e deve
ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, «pur se
nell’ambito della generica responsabilità extracontrattuale», ex art. 2043
c.c., in tema di neminem laedere. Ed al riguardo, questa Corte ha messo,
altresì,  in evidenza, già da epoca non
recente, che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere del neminem
laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l’obbligo
giuridico di impedire l’evento può discendere, oltre che da una norma di legge
o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una
determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare
responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto
l’altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l’evento dannoso.

Fatte tali premesse, deve osservarsi che, nel caso
di specie, l’onere della prova gravava sul datore di lavoro che avrebbe dovuto
dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova
liberatoria), attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica
dalle norme antinfortunistiche, cui non possono sottrarsi – nel caso in cui il
dipendente di una società appaltatrice di lavori da eseguire in un’area di
lavoro del committente riporti un infortunio – entrambe le società interessate
(v., ex plurimis, Cass. nn. 26614/2019; 5419/2019; 798/2017; 17092/2012, ai cui
principi si è attenuta la Corte di Appello). Pertanto, come correttamente
ritenuto dai giudici di secondo grado, nella fattispecie, una volta
motivatamente escluso (v., in particolare, pag. 6 della sentenza impugnata)
qualsiasi comportamento <<abnorme>> da parte del K., che abbia
potuto concorrere alla causazione dell’infortunio verificatosi (v., per tutte,
sul c.d. <<rischio elettivo>>, Cass. n. 4225/2019), deve affermarsi
la sussistenza del nesso causale tra il detto infortunio e l’attività svolta
dal lavoratore in un ambiente in cui, per la pericolosità della macchina
automatica alla movimentazione della quale il medesimo era stato destinato dopo
solo un giorno di formazione, era altamente probabile che, non adottando ogni
cautela prescritta, si verificassero eventi dannosi per il personale. E’ quindi
condivisibile la conclusione cui è giunta la Corte territoriale, che ha
considerato che mancasse la detta prova liberatoria da parte della M. S.r.l.,
trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ai sensi
dell’art. 2087 c.c., delle opportune misure di prevenzione atte a preservare
l’integrità psico-fisica del lavoratore sul luogo di lavoro.

3. Per tutto quanto esposto, il ricorso va
rigettato.

4. Le spese del presente giudizio, liquidate come in
dispositivo, in favore di M. K., seguono la soccombenza.

5. Nulla va disposto per le spese nei confronti
della M. S.r.l. in liquidazione e della Cooperativa T.F. S., rimaste intimate.
6. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del
ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma
1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore di K. M.,
liquidate in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese
generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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