Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 luglio 2021, n. 19536

Rapporto di lavoro, Domanda di esonero dal servizio nel
quinquennio antecedente la data di maturazione dell’anzianità contributiva
massima, Diniego del datore di lavoro, Illegittimità

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Roma, riformando la
sentenza del Tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda con la quale
F.I., dipendente del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, aveva chiesto
l’esonero dal servizio, ai sensi dell’art. 72, co. 1 – 6, del d.l.
112/2008, nel quinquennio antecedente la data di maturazione dell’anzianità
contributiva massima di 40 anni, con i trattamenti economici previsti dalla
norma e previo riconoscimento dell’illegittimità del diniego frapposto alle sue
domande dal datore di lavoro.

La Corte osservava, quanto all’istanza presentata
nel 2012, che essa era preclusa dall’abrogazione dell’istituto ad opera del d.l. 201/2011, mentre, rispetto all’istanza del
2011, riteneva che il diniego frapposto dalla P.A. fosse legittimo in quanto,
nonostante il parere favorevole del dirigente del servizio cui era addetta la
ricorrente, esso era stato motivato con richiamo alla grave carenza di
personale esistente ed alle bassissime percentuali entro cui era consentito il
turn over.

La P.A. aveva poi – secondo la Corte di merito – una
mera facoltà e nessun obbligo rispetto alla concessione dell’esonero, né
risultava che l’ufficio di appartenenza della ricorrente fosse interessato da
una riduzione del personale.

Infine, concludeva la Corte d’Appello, la ricorrente
non aveva mosso una specifica contestazione alle ragioni addotte dal Ministero,
essendovi stato solo il richiamo ad altri casi in cui l’esonero era stato
concesso, senza neppure che fosse specificamente dedotta l’avvenuta violazione
dei principi di correttezza e buona fede.

2. La I. ha proposto ricorso per cassazione con tre
motivi, poi illustrati da memoria e resistiti dal Ministero con controricorso.

Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni
scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso la I. denuncia
l’omesso esame su un punto decisivo, ai sensi dell’art.
360 n. 5 c.p.c., negando di avere omesso di contestare le motivazioni
addotte dal Ministero, così come di non avere addotto la violazione dei criteri
di buona fede e correttezza.

Il motivo ribadisce altresì il rilievo in ordine
all’assenza di prova da parte del Ministero di effettive carenze in organico,
come anche quello relativo all’avvenuta concessione dell’esonero a personale
che si era trovato in situazioni analoghe, rimarcando ancora la sussistenza del
parere favorevole del responsabile della struttura presso la quale la I.
lavorava.

Il secondo motivo di ricorso, dedotto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., denuncia la violazione dell’art. 72, co 1-6, d.l. 112/2008,
in combinato disposto con gli artt. 3, 24 e 97 Cost.,
sostenendo che il diniego non poteva derivare da una mera facoltà in capo al
Ministero, che era viceversa tenuto ad esporre un’idonea motivazione, in realtà
carente sia sotto il profilo del risparmio di spesa pubblica che sarebbe
derivato dall’accoglimento dell’istanza, sia sotto il profilo di una specifica
valutazione delle esigenze funzionali e possibilità organizzative dell’ufficio
di appartenenza.

Con il terzo motivo si assume, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa
applicazione dell’art. 24, co. 14,
lett. e L. 241/2011, in combinato disposto eo in relazione agli artt. 11 e 15 delle
preleggi e con gli artt. 3 e 97 della Costituzione. Secondo la ricorrente, la
Corte territoriale, valorizzando l’avvenuta abrogazione dell’istituto con
effetto impeditivo a far data dal 4.12.2011, non avrebbe considerato che ciò
poteva valere soltanto per il tempo successivo all’entrata in vigore della
nuova legge e non poteva riguardare la domanda di esonero proposta
anteriormente a quella data.

2. I motivi possono essere esaminati in un unico
contesto, in quanto tra loro strettamente connessi.

2.1 Iniziando in ordine logico dal terzo motivo, va
detto che esso non coglie correttamente la ratio decidendi.

Infatti, la Corte d’Appello non ha affermato che,
rispetto a quanto consequenziale alla domanda del 2011, valesse la sopravvenuta
abrogazione dell’istituto, ma ha ritenuto che la pretesa fosse, in parte qua,
infondata nel merito.

Quanto alla domanda del 2012, ogni questione
rispetto ad essa è mal posta, in quanto chiaramente all’epoca l’istituto
risultava già abrogato, come del resto correttamente ritenuto dalla Corte
d’Appello.

2.2 Ciò posto, l’art. 72, co. 1, vigente
all’epoca della domanda del 2011, prevedeva che il personale da esso
contemplato potesse «chiedere di essere esonerato dal servizio nel corso del
quinquennio antecedente la data di maturazione della anzianità massima
contributiva di 40 anni (…) a condizione che entro l’anno solare» vi fosse il
raggiungimento del «requisito minimo di anzianità contributivo richiesto».

Il comma 2 prevedeva poi che «è data facoltà
all’amministrazione, in base alle proprie esigenze funzionali, di accogliere la
richiesta dando priorità al personale interessato da processi di
riorganizzazione della rete centrale e periferica o di razionalizzazione o appartenente
a qualifiche di personale per le quali è prevista una riduzione di organico».

Lo stato di esonero, secondo quanto precisato dai
successivi commi, consentiva il godimento di un trattamento economico nel corso
del corrispondente periodo, cumulabile con attività aggiuntive di lavoro
autonomo o collaborazioni con privati.

2.3 E’ tuttavia erroneo il richiamo della ricorrente
alla giurisprudenza di questa Corte sul recesso della P.A. dal rapporto di
lavoro per raggiungimento dei requisiti contributivi massimi, ai sensi dell’art. 72, co. 11 del medesimo
d.l.

Quest’ultimo è infatti un recesso ad iniziativa
datoriale, cui si attaglia l’adozione di motivazioni adeguatamente
giustificabili (Cass. 18 ottobre 2017, n. 24583;
Cass. 6 giugno 2016, n. 11595), dovendosi
assicurare che la caducazione di un diritto, quale è quello del lavoratore a
proseguire nel rapporto di lavoro in mancanza di ragioni contrarie, avvenga
sulla base di controllabili esigenze organizzative o razionalizzanti
dell’organigramma datoriale e senza il determinarsi di illegittimi aggiramenti
al divieto di discriminazione per età.

Si tratta dunque, in tali casi, di un diritto
potestativo, in cui il legittimo esercizio della discrezionalità è condizione
necessaria affinché la scelta di interrompere il rapporto abbia validamente
l’effetto di far cessare i contrari diritti altrui. Il tutto con onere
probatorio a carico del datore di lavoro che intende giovarsi dell’interruzione
del rapporto così da lui cagionata.

L’adesione della P.A. alla richiesta di esonero, non
a caso espressamente indicata dalla norme come “facoltà”, costituisce
invece il libero esercizio della dismissione di un diritto, quello datoriale
alla continuazione del rapporto di lavoro, sicché il diniego frapposto alla
richiesta altrui si giustifica in sé quale forma di esercizio non sindacabile
della situazione giuridica di vantaggio della P.A., interna al rapporto di
diritto privato che la lega al dipendente, cui si chiede di rinunciare.

Situazione il cui assetto trova unico limite nel
generale divieto di abuso di quello stesso diritto, la cui rigorosa
dimostrazione grava evidentemente sulla parte che ne assuma il verificarsi e
quindi sul lavoratore.

2.4 Rispetto a tale quadro, non assumono decisività
le diverse circostanze addotte anche in questo grado con i motivi di ricorso,
ovverosia l’avere la P.A. accolto, nel 2009 e 2010, istanze di altri
dipendenti, l’essersi verificata la sussistenza di esuberi al 31.12.2012 (pag.
20 del ricorso) o l’avere la P.A., «a seguito della concessione dell’esonero»
provvisoriamente imposto dalla  sentenza
di primo grado (pag. 13), provveduto a sopprimere la Direzione Generale ove la I.
prestava lavoro.

Nessuna di tali circostanze è infatti tale da
sovvertire necessariamente la valutazione di merito fornita dalla Corte
territoriale in ordine al legittimo esercizio del diritto datoriale di denegare
la cessazione anticipata del rapporto, in quanto l’adesione alle altrui istanze
di esonero, quanto meno e senza contare l’impossibilità di effettuare reali
paragoni con quanto accaduto a chi fosse addetto ad altri uffici, risale ad
anni antecedenti (2009 e 2010) a quello (2011) che qui rileva, così come la
fissazione delle dotazioni risale al 31.12.2012, a fronte di una domanda di
esonero da valutare rispetto alla fine dell’anno precedente (ancora 2011); la
soppressione del posto, quale conseguenza dell’esonero provvisoriamente fruito
è effetto conseguito alle vicende processuali, da cui non può trarsi
necessariamente la dimostrazione che la P.A. si fosse liberamente indotta in
tal senso ex ante, senza contare la possibilità che la ricorrente potesse
essere utilizzata per sopperire ad altre esigenze del medesimo datore di
lavoro.

Quest’ultima osservazione consente altresì di
escludere qualsivoglia decisività al parere favorevole del responsabile della
struttura per cui lavorava la I., in quanto appunto il Ministero ben avrebbe
potuto utilizzare altrimenti il proprio dipendente.

Il diverso assetto degli oneri probatori non
consente poi di valorizzare una asserita mancanza di prova dell’assenza di
effettive carenze di organico.

Sono infatti queste ultime a non risultare
necessariamente suffragate, in senso caducatorio della pronuncia impugnata e
quindi decisivo, dai dati richiamati con i motivi e riguardanti, come si è
detto, un’annata successiva a quella di interesse e, come si è detto, l’onere
probatorio, dato l’assetto sostanziale delle situazioni coinvolte, era qui a
carico del lavoratore.

Generico è infine il riferimento alle previsioni
normative di indirizzo verso la riduzione degli organici, ciò non potendo di
per sé comprovare alcunché di concreto rispetto alla singola posizione della
I..

Quanto infine al risparmio di spesa che poteva
derivare dall’esonero della ricorrente, è evidente che da esso sarebbe
contemporaneamente derivata la perdita di un apporto di lavoro, oltre ai costi,
comunque sussistenti, per il trattamento economico pur ridotto da assicurare
fino al pensionamento.

Elementi tutti il cui apprezzamento non consente in
alcun modo, tenuto conto dell’impossibilità di misurare il risparmio di spesa
di un Ministero sulla posizione di una sola addetta, di ravvisare, nella scelta
datoriale di non aderire all’istanza, elementi di portata decisiva
nell’integrare una fattispecie utile a far riconoscere l’illegittimità del
comportamento datoriale.

In definitiva tutti gli elementi così addotti
finiscono semplicemente per prospettare la richiesta di una diversa valutazione
di merito della fattispecie, ma la loro non necessaria decisività in senso
contrario rispetto al non implausibile convincimento maturato dalla Corte
territoriale, esclude che essi siano idonei ad inficiare la pronuncia adottata.

3. Il ricorso va quindi rigettato, con regolazione
secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione,
che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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